Porpora

di Giacomo Cavaliere
Copertina di Beatrice Nicolini

I.

Adorava la pioggia. L’amava, avrebbe detto, avesse avuto un qualche indizio su cosa fosse l’amore. Cosa fosse per lei. I temporali la confortavano, uno scrosciare armonico che sapeva condurla sempre al migliore dei riposi. Abbastanza per investire la pioggia di un amore incondizionato. Niente che potesse farla sentire speciale, tanti amavano la pioggia.

Laura non riusciva a lamentarsene neppure quando le cadeva addosso, gelida come la notte e la strada che stavano attraversando. Nonostante la frenesia dei denti che battevano come nacchere. Ma avrebbe imparato. Tutti, prima o poi, imparavano.

Un letto suo non ce l’aveva più da un anno. Ne aveva cambiati molti, riuscendo quasi ad imparare a non affezionarcisi. Non come aveva promesso di non affezionarsi a Cipiri, il gatto di Terenzio, che era diventato in tutto e per tutto il suo gatto; prima di scoprire che l’unica che potesse davvero definirsi padrona di un gatto era la casa in cui sonnecchiava. I gatti non s’affezionano alle persone, ma alle case, le aveva ripetuto Tecla, quasi materna. Laura sentiva che ce la metteva tutta, nei limiti del possibile. Tecla era l’unico genitore stabile della sua vita, una mamma che non sopportava di sentirsi chiamare in quel modo. Prima i figli iniziano a vedere i genitori come persone, meglio è. Svolgeva i sui compiti in modi del tutto personali, non quelli giusti, forse, ma neanche del tutto sbagliati. Credeva valesse per tutte le madri, e, comunque, la natura non forniva alternative. Di padre ne aveva avuto più d’uno. I padri vanno e vengono, solo le madri sono per sempre; odiava sentirselo dire, ma la vita lo aveva sottoscritto di continuo e loro vite non concedevano di restare bambine troppo a lungo.

Terenzio era diverso, c’era mancato poco che iniziasse a chiamarlo papà. L’unico cliente che Tecla avesse incontrato con una qualche inclinazione pedagogica, l’unico a non relegare il ruolo di padre a un dovere d’ospitalità. Uno che non s’appellava quasi mai al diritto di rinfacciare tutte le comodità che aveva benevolmente concesso. Ma Terenzio se n’era andato, anche lui, come tutti.

Tecla e sua figlia s’erano trovate sole, in mezzo al nulla, appiedate e vestite a festa a margine di una strada provinciale, sotto un gelido acquazzone di un gelido inverno, a condividere un unico ombrello, prelevato di corsa dall’ombrelliera appena oltre la soglia del Marchese scalzo. Avevano divorato tre portate a testa, una ribolla gialla e un quartino di rosso della casa; Laura, quindici anni non ancora compiuti, non s’era ancora fatta il palato per i bianchi friulani. Frittura piemontese, risotto salsiccia e zafferano per la piccola, cannelloni per la mamma, due laute porzioni di brasato di capriolo e polenta taragna, tortini alla ricotta, caffè e ammazzacaffè. Per prima cosa Tecla ordinò  l’unico cocktail che avrebbero potuto prepararle. Doveva averlo visto in un film: whisky, Amaretto Disaronno e scorza d’arancia. Lei lo chiamava il Badalamenti, ma ogni volta che lo ordinava doveva dettare istruzioni al barista su come prepararlo.

Laura lo trovò divino, ma Tecla le raccomandò d’andarci piano e le impedì di ordinarne uno tutto per sé.  Parlarono a lungo di Deserto rosso, erano andate a vederlo domenica scorsa all’Argentina. Di Alida Valli e Lana Turner e cercarono di spremere dalla memoria il nome della moglie di Clark Gable morta in un incidente aereo. Laura lo sputò fuori contesto, due argomenti dopo, a metà del secondo: Carole Lombard.

Bella serata, tanto piacevole da far scordare a entrambe la persona con cui avrebbero dovuto condividerla. Un uomo, ovviamente. Fino a poche ore prima il fidanzato di Telca. Ora, solo una tra mille relazioni recise e disconosciute, un omissis nella sua nota biografica terminale. La voracità s’era smorzata verso fine pasto, arrivarono in fondo con fatica, obbligandosi a strappare a quella notte qualunque soddisfazione avesse da offrire. Fosse pure una che non desideravano davvero. O un luculliano mal di pancia.

Tecla andò in bagno cinque volte e due volte chiese di poter usare il telefono. Il numero di Terenzio era staccato, per settimane aveva risposto, non poteva essere falso, anche se lo pensò. L’abbandono le innescava la cefalea. Il nervoso rendeva la vescica capricciosa, sentiva l’inguine bagnato. Almeno le vescicole non era più tornate negli ultimi mesi. Non fosse stato per le intermittenti recrudescenze dell’encefalite batterica, il suo organismo avrebbe funzionato perfettamente. L’esantema sul palmo delle mani era peggiorato, la porpora inanellava polsi e avambracci, proliferava come una sorta di micotica psoriasi sul ventre. Un diverso esantema le risaliva le spalle per inerpicarsi alla base della nuca. Tornata al tavolo, ingollò cinquecento milligrammi di ampicillina e due aspirine col dito di vino rimasto nel calice. Non era mai riuscita a seguire una terapia medica per più di una settimana. La consapevolezza di cavarsela sempre, a dispetto di qualunque tragica profezia, le infondeva un pericoloso senso d’invincibilità. E poi, dei medici era sempre meglio non fidarsi. La loro era pur sempre una divisa, come quella della madama e i colletti bianchi.

A Laura fu evidente fin dalla seconda entrée – formaggi e Sauternes – che l’entusiasmo si sarebbe fermato al conto. Cambiavano casa di continuo, di solito case di altri, i soldi non c’erano mai. La cena non sarebbe mai dovuta  gravare sul portafoglio di Tecla. Non avevano scelto loro il ristorante, s’erano fatte accompagnare da Petra sicure che Terenzio le avrebbe raggiunte. Era stato lui a pagare i biglietti per l’opera, ma ormai era chiaro che non li avrebbero usati. Avevano ordinato incautamente, mosse dal bisogno di convertire la cena in una legittima rappresaglia. E, visto il ritorno che si prospettava fuori dalle finestre del Marchese, era loro dovere farlo. La vita si conquista solo a morsi e, di suo, non concedeva mai niente.

Certe cose andavano come andavano, al ristorante ci erano entrate, e, per quell’ennesima sconfitta la vita doveva pur concedere un risarcimento. Certe cose andavano nell’unico modo possibile.

Le seimila accartocciate che Tecla lasciò cadere sul piattino di ceramica  bastavano a malapena per vino e antipasti. Si prese un lungo minuto per rovistare nella borsa. Alla fine, buttò sul letto di banconote una moneta d’argento da cinquecento vecchia di trent’anni e un pezzo da due.

«Tagli corto» comandò la signora tarchiata dietro la cassa. Si schiarì la gola per lo sforzo: «Non ci provi nemmeno».

Il volume del contenzioso fece storcere il collo a un paio di tavoli. Il marito,  più magro ma ugualmente flaccido, attraversò una tenda di perline, attirato dall’inconfondibile stridio dei problemi. Faccia allampanata, incorniciata da occhiali di tartaruga spessi come i culi di bottiglia, iridi d’una slavata tinta grigia; una figura che inabissava ogni colore.

Era stato il vino a fregarle. Quei trentasette centilitri e cinque di Sauternes. Era il vino a fare di quella taverna d’essai un pregevole ristorante. Laura se ne sarebbe stata volentieri a casa, qualunque fosse, per quanto l’idea di andare all’opera l’avesse tenuta in visibilio tutta la settimana.La Semiramide di Rossini alla Fenice. La joie de vivre s’era fratturata in decine di schegge, scombinando i tasselli delle loro vite e costringendole a uno sforzo immane per riportarli alle posizioni originali.

«E allora, come facciamo? Lasciate spazio ai clienti.» Una coppia anziana tentennò per l’imbarazzo, chiesero il totale per due volte, pagarono e si profusero in ripetuti salamelecchi.

Tecla colse il momento di disimpegno, nuove possibilità le zampillarono in testa. Di quante valute davvero poteva disporre? Almeno tre, magari anche quattro, rifletté. La spilla della bisnonna – non ne ricordava il nome, poteva averla ereditata senza annotarselo –, oro bianco e lapislazzuli, spacciabili per falsi zaffiri da mezzo carato, e un topazio centrale. Un valore troppo alto per quella transazione. La fedina d’oro, magari. Ma avrebbe potuto regalare all’omuncolo interdetto dietro al bancone qualcosa di ben più prezioso, specie per chi si trovava a sessant’anni senza aver vissuto un minuto. Considerò d’essersi scopata anche di peggio, ma il proprietario restava uno dei maschi peggio riusciti di sempre. Notò che il suo sguardo s’era perso in un dettaglio del collo e lo sentì caldo, arroventato dall’indiscrezione; alzò il bavero e si strinse nelle spalle, l’imbarazzo plasmò la sensazione di pruriginoso solleticare della porpora. Anche la moglie la stava fissando. Laura rimase un passo di lato rispetto a qualunque cosa stesse accadendo a sua madre.

Solo la pioggia che batteva instancabile, solo quella, l’avrebbe riguardata. Forse la polmonite, ma niente altro. Anche stavolta, il mondo se ne sarebbe restato dov’era.

La grassona seduta sullo sgabello inibiva il margine di manovra di Tecla. «Posso pagare in qualche altro modo? Ho una fedina d’oro», Tecla stirò un sorriso che non comunicava alcuna ingenuità. 

«E quella spilla?»

Nonostante l’interesse suscitato si arrischiarono a prendere un ombrello dalla rastrelliera.

Prima di affrontare la pioggia, la notte, la provinciale e l’inverno in un unico concerto di schiaffi, si fermarono sotto al porticato per fumare una sigaretta. Laura aveva finito le cinque Alfa sfuse comprate il giorno prima, Tecla le porse il pacchetto aperto di Gitanes. «Non hai assaggiato il Sauternes».

«Bevi troppo veloce, a me piace bere prima e dopo le portate, non durante», rispose Laura prima di poggiarsi la sigaretta sulle labbra e accenderla con una boccata incerta. Tecla la lasciò parlare mentre prese a muoversi tra le auto. Tirò un paio di maniglie prima di trovarne una aperta, e fu abbastanza fortunata da trovarci esattamente quello che cercava. Un pacchetto di Nazionali mezzo pieno – a volerla vedere così.

«La notte restituisce sempre qualcosa».

II.

Da qualche parte, nessuna di loro sapeva in quale direzione, il Lambro scorreva verso Milano, dritto e filato fin quasi sul portone di casa – i tre locali di Petra che, al momento, rispondevano all’appellativo – in via Porpora. Laura scrutò il buio immaginando quale infausta intersezione di provincia lombarda nascondesse. Tecla precedeva la figlia quindicenne come se, così facendo, potesse davvero tutelarla; Laura l’avrebbe superata in altezza entro l’anno successivo, ma era la prima volta che intravedeva, in quel viso spruzzato d’acqua gelida, lo sfavillio d’una donna in divenire.

«Sai, credo tu sia proprio diventata grande».

«E te ne accorgi adesso, sotto quest’acqua?» bofonchiò Laura.

«C’è un momento giusto per accorgersene? Come sapevi che la spilla era una patacca? Io non l’ho scoperto finché non ho provato a impegnarla».

«Non lo sapevo, era solo inguardabile. Quindi è questo, il segreto di diventare grandi? Padroneggiare l’arte della truffa?»

«In parte. Crescere significa scendere a compromessi. Crescendo la vista s’allunga, invecchiando s’accorcia. Io perdo diottrie, tu le guadagni. Diventare grandi, tra le altre cose, vuol dire imparare a sopravvivere. E non si può pensare di sopravvivere dicendo la verità, e nemmeno comportandosi come ti hanno insegnato. Un buon essere umano deve sapere distinguere il bene dal male, ma solo quelli molto fortunati possono vivere scegliendo una parte sola».

Sospettò che Tecla non avesse la minima idea di quali fossero tutte quelle altre cose implicate nel diventare grandi. Tecla non è cresciuta, è invecchiata prima di averne il tempo, e io che posso sperare? Camminare sotto la pioggia la obbligò ad una profonda e disordinata auto-analisi.

Non era del tutto colpa di Tecla; certi ambienti generano esseri viventi inadatti alla vita civile, Laura lo sapeva. Come in quel film con la Bergman sullo Stromboli: questa non è vita da gente civile. Sconfinarono sul terrapieno che faceva da argine alla provinciale, cercando di porsi fuori dal tiro utile delle secchiate d’acqua sollevate da un tir. Erano tornate a dividersi l’ombrello, ma una finiva sempre fuori.

Tecla aveva fatto sempre lo stesso lavoro, per quanto ne sapesse Laura. Aveva iniziato dopo la legge Merlin, non aveva mai provato la comodità dei postriboli, ma era sicura si stesse meglio prima che chiudessero. Le imposte dei bordelli dovevano restare sigillate, giorno e notte, per un vecchio decreto regio, o qualcosa così, tutto l’anno. Non si potevano servire cibi e bevande, non potevano sorgere nei pressi di asili e scuole, non si potevano organizzare canti e balli al loro interno. Tecla diceva sempre che con bordelli e lupanari il mondo funzionava meglio. Adesso, le entraineuse dovevano rimbalzare da un locale all’altro, le puttane da strada stavano a congelarsi in un angolo di marciapiede affittato a un pappone. Il passato era sempre meglio, specie per chi non l’aveva vissuto, ma lei aveva le sue ragioni di rimpiangerlo.

Le mele non cadono mai lontano dall’albero. Laura era sua figlia e no, non sarebbe mai stata la Bergman. Mai così candida. Mai una campionessa d’infanzia. Se anche era stata bambina, non le era riuscito granché bene; non rideva alle battute dei compagni, niente più d’un sorrisetto di scherno o di un sogghigno trattenuto. Mai avuto un orario per andare a nanna, non sopportava Walt Disney né Carosello, non aveva mai sfogliato L’intrepido, Topolino, o letto una sola pagina dalle sorelle Brontë; aveva sempre odiato Rita Pavone e le commedie dei telefoni bianchi che ancora avevano il coraggio di passare in sala. Qualunque film andasse a vedere, faceva il tifo per i cattivi. Un indomito Gange di incomprensioni la separava dagli esemplari della sua età. Neppure fare la femminuccia, pensò, è una professione per la quale sono mai stata portata. L’aspetto non sarebbe potuto essere più soave, maturo, adulto anche nel candore dei suoi quattordici anni. Nugoli di occhiate le rimanevano incollate addosso dalle elementari, sulla blusa, sul cappotto, sulla pelle. Già da un po’ aveva perso l’impulso di lavarsele via, benché ancora non sapesse apprezzarle. Solo una strega può fare quell’effetto ai maschietti senza muoversi mai dalla sedia. L’abilità con la quale incantava l’aveva fatta giudicare male. Incedere lieve e imperfetto, ammaliante, che nessuno riusciva mai a giudicare naturale; la procace dizione del suo buongiorno, il caschetto ramato, tutto incorniciava un ritratto di vulcanica femminilità. Contenitore di moltitudini, generatore di straordinarie contraddizioni. I suoi coetanei disprezzavano tutto ciò che non potevano capire, quelli più vecchi o lo erano troppo o non abbastanza. Ovunque si trovasse era la più timida del gruppo, ma non riusciva mai a confondersi nella scenografia, soffriva il centro dell’attenzione, parlava solo se interpellata, con gestualità ridotta al minimo. Aveva l’aria di qualcuna che si sentiva più a suo agio nella pelle di una donna che nelle vesti di una bambina. Un donna per intero, venata di tutte le  ingenuità naturali che la facevano sembrare ancora più adulta. E ancora più donna.

Sempre vestita di cattolico candore, pregava con convinzione, quando le era ordinato, ma sapeva rivolgersi davvero a dio solo col pensiero, senza la presunzione di sapere se ci fosse qualcuno all’ascolto.

Sbuffava per drenare l’acqua, pensò d’aver fatto una gran cosa a  impedire ai suoi capelli di crescere. Tecla imprecava per il peso della criniera corvina intrisa d’acqua nonostante l’ombrello. Le chiese se volesse venire sotto. 

«Fottiti!» ringhiò Laura a denti stretti. La pioggia batteva troppo forte perché potesse sentirla. Non era ancora venuto il momento della sua vita in cui avrebbe scoperto le carte e consegnato formale dichiarazione di guerra. Il ponte sarebbe rimasto in piedi ancora per un po’, magari per sempre. L’età le permetteva qualche eccesso di speranza, perlomeno finché non sarebbe stata costretta a farlo brillare per salvare la sua sponda.

Non sapeva pronunciare gli insulti, le parolacce con fatica e scarsa convinzione. La sua voce era flebile solo a un giudizio affrettato, tenue, soffice, perfettamente liscia e circolare qualunque vocabolo scegliesse, e faceva in modo di utilizzare tutti quelli che conosceva. Le sue parole arrivavano quasi sempre lì dove voleva mandarle. Sarebbe arrivato il suo tempo, ripetevano tutti senza convincerla. Aveva sempre il sospetto fosse già venuto e passato, d’esserselo perso come un film alla televisione.

Tecla le aveva raccontato poco o niente del suo vero padre, solo che era un bravo cattolico, un gran bevitore e una persona del tutto inaffidabile. Lei non s’era mai inginocchiata su un pavimento a supplicare un soffitto, ma non aveva mai impedito a sua figlia di leggere il Vecchio Testamento, i Veda o la Teogonia. Sapeva che ogni tanto andava in chiesa, ma non quanto spesso. Non l’aveva mai presa in giro, per quanto trovasse divertente il desiderio di cristianità che si sviluppava nella figlia di una lisisca messalina.

Laura non si riteneva una buona cristiana, ma si sforzava in ogni modo d’essere un buon essere umano, d’affinare le abilità sociali e sentire davvero tutti i buongiorno, i  grazie e i prego che pronunciava ogni giorno. Aveva sempre avuto la sensazione che la sincerità fosse la prima causa di morte dei rapporti, la utilizzava con parsimonia, ma si risparmiava di mentire ogni volta che poteva. Il primo temporale che non le forniva conforto, ma solo gelo, la stava portando a diventare un essere umano peggiore del solito.

Era la sesta, settima macchina che passava. Gli scrosci s’erano placati, le gocce scendevano fini ma insistenti. Laura non si voltò. Sua madre le aveva insegnato a non confidare nella benevolenza dell’universo, specie in forma di estranei su due zampe e quattro ruote. Ma non poté non farlo quando riconobbe la canzone gracchiata dall’autoradio. Le note risuonarono chiare, stava rallentando. Un paio di fanali l’abbagliarono, l’auto tagliò la carreggiata, le passò accanto e accostò contromano pochi metri dietro Tecla.

Le ho parlato di te, lei ti vuole già bene, ti conosce da sempre, perché vuol bene a me! Oh mamma tu non sai, la mia ragazza è bella come te, la mia ragazza, nei suoi occhi io vedo, l’amore sincero che hai per me! Io ti presenterò, la mia ragazza, vedrai ti piacerà, la mia ragazza…

L’autoradio era il punto di forza della macchina, il cigolio delle ruote e lo sferragliare del motore la facevano somigliare a una caldaia scassata. Una berlina Mercedes-Benz vecchia d’un ventennio, di uno strano verde felce. Forse verde cacciatore. Tecla si mosse coi passetti frenetici che la gonna permetteva e si fermò davanti al finestrino. Laura rimase dov’era, le orecchie spalancate all’ultima strofa prima della dissolvenza nel jingle di una réclame di detersivi. Notò che il tettuccio era di un altro colore, oliva, forse cinabro, con le portiere davanti color mirto. Ma poteva anche sbagliarsi.

«Vieni, Laura, sali!»

III.

Il samaritano non era più molto giovane, ma non ancora vecchio. In età da famiglia, disordinato e poco propenso a curare gli ambienti nella misura in cui curava sé stesso. L’avrebbero definito eccentrico pur sapendo non fosse l’aggettivo adatto. Completo scozzese bordeaux a filato sottile, orologio finto oro, mezzo litro di una colonia che gli regalava trent’anni di più. Occhi scuri e occhiaie congenite, un volto dai lineamenti infantili, sbarbato, quasi privo di spigoli, rabbuiato dall’insonnia.

«Dove state andando?»

«Milano».

«E dove?»

«Via Porpora» tossì Tecla. Piombò in un concerto di colpi di tosse grassa. Si schiacciò un fazzoletto sul viso finché la crisi non passò. Cercò di controllare la quantità di sangue sulla stoffa con quanta più discrezione possibile. 

«Come si chiama il nostro salvatore?» domandò Tecla stirando un sorriso. 

«Patrizio. E voi?»

«Tecla, lei è mia figlia Laura».

«Piacere», tentennò Laura da dietro, «e grazie.»

«Piacere mio, Laura».

«La ringraziamo davvero».

«S’immagini… Posso chiedere cosa ci fanno due signorine così fuori città, sotto al diluvio? Avete rischiato di morire assiderate, non passa molta gente la domenica notte».

«Ce ne siamo accorte» Tecla si profuse in un lungo sguardo che Patrizio non ricambiò finché lei non riportò gli occhi sulla strada.

«Da dove venite?»

«Dal Marchese scalzo, aspettavamo una persona. Saremmo dovute andare alla Fenice, a vedere… Cosa saremmo dovute andare a vedere, Lauretta?»

«La Semiramide di Rossini».

«Non conosco granché l’opera, ma conosco il ristorante. Era la vecchia dimora di campagna di un conte morto senza eredi, lasciata alla diocesi. Andarci a mangiare è quasi un’elemosina» la battuta andò a vuoto, costringendolo a una brusca virata: «Si mangia ancora bene?»

«Molto».

«Una persona nel senso di un uomo. Suo marito?»

«Mai avuto marito. Ci siamo sempre arrangiate, qualche volta anche brillantemente. Le ho insegnato a non temere la notte». Tecla sogghignò, più a se stessa che al suo interlocutore.

«Interessante precetto. Di notte non si sa mai cosa può accadere».

«Non più che di giorno» soggiunse Laura.

«Sono certo che le soluzioni brillanti non vi manchino» disse lui, rivolto allo specchietto retrovisore e alla figura che non riusciva a inquadrare nel buio dell’abitacolo.

«Può essere che sbagli, ma credo che stia andando nella direzione sbagliata. Ha fatto inversione?» incalzò Tecla.

«Non ancora… Dopo dieci ore di guida ininterrotta girare questo volante è come spingere la ruota di un argano. Più avanti deve esserci una piazzola. Ma parlatemi di voi» Patrizio balzò i muri della confidenza. S’accese due sigarette e ne porse una a Tecla.

«Me ne offrirebbe una, per favore?» La testolina fradicia di Laura sbucò tra i sedili.

«Già fumi?»

«La vita già pesa».

«Come darti torto?!» sospirò Patrizio, compiaciuto, pago di un’importante aspettativa. Buttò il pacchetto alle spalle e subito dopo quello di svedesi. Laura ne pescò una coi denti e l’accese. Le spirali di fumo grigio-azzurro di tre sigarette riempirono l’abitacolo senza che nessuno avvertisse il debito d’ossigeno, tutti scivolarono nell’ottundimento da nicotina che solo la sigaretta più buona delle loro vite avrebbe potuto regalargli. Nessuno osò spezzare l’incantesimo.

Patrizio spense la cicca nel portacenere per primo. «Allora, che diceva signora?»

«A che proposito?»

«Di voi. Chi siete, che fate…»

«Lei ha quasi quindici anni, io svolgo vari impieghi. Centralinista, telefonista, dattilografa, segretaria, pattinatrice, ginnasta, banditrice d’asta… Sono una donna poliedrica». Tecla finse di pavoneggiarsi. Non era spavalderia, ma un modo brillante di fingere di averne. Se l’era cavata in quasi tutte quelle professioni, prima d’essere liquidata, prima di diventare madre. Niente che avesse a che fare con la produttività, solo con la bocca. Trattenere la bile avvelena lo stomaco.

«Sembra molto più matura!» esclamò Patrizio mettendo mano allo specchietto. «E crede che la figlia sarà avviata alla stessa professione della madre?»

«Prego?!» domandò Tecla con un rauco squittio.

«Ho forse sbagliato?»

Tecla ruotò il capo verso sua figlia alla ricerca di un qualche segno di sconcerto che non trovò, per quanto si sforzasse di leggere tra le righe del suo volto, mentre lei pareva aver sentito l’eco pubblico del più inconfessabile dei segreti. Laura le diede un’occhiata distratta e fece un cenno che grondava sottintesi. Non era mai stato davvero un dolore, per lei; eccetto gli ultimi tempi, avevano campato più che dignitosamente. Almeno per tre, quattro anni, persino benone. Da mangiare non le era mai mancato, neppure trucchi e vestiti, men che meno i libri o i biglietti per il cinema. Il mancato intervento di Laura le fece restituire la rabbia a Patrizio. Avrebbe voluto addentargli la carotide, frantumargli il naso con una testata. Ma lui continuava a guidare, impermeabile a qualunque conseguenza. Tecla si trovò di nuovo davanti a un tipo di quiete dalla quale guardarsi. La quiete degli uomini violenti. Quelli veri, che non urlano, non bestemmiano e non minacciano. 

«Io credo che può accostare e farci scendere qui» rispose Tecla. Fulmini sfolgoravano nel cielo d’ardesia. Pioveva di nuovo che Iddio la mandava.  

«Ma mancheranno dieci chilometri!!» guaì Laura, spogliata della sua corazza. 

Ora, aveva perso anche il favore della pioggia. E di lei non aveva mai dubitato. Eppure, non voleva più sentirne una goccia. 

«Giusta osservazione, la ragazza è davvero intelligente. Per vostra conoscenza sono più di quindici, anche svoltando ora».

«Se prova a fare qualcosa le taglio la gola».

«Ne sono certo, ma sarebbe una reazione spropositata. Siamo pur sempre in ambito di commercio».

«C’è mia figlia, carogna! Che cazzo ti faceva la mamma da piccolo? O era lo zio?»

«Infatti», sospirò Patrizio, «lei è decisamente troppo vecchia. E poi non ho nessuna voglia che m’attacchi la tosse, se capisce. Sì, certo che capisce. Lasci decidere la ragazzina se ha voglia di camminare sotto la pioggia al freddo e al gelo. È l’una passata, potreste non incontrare nessuno fino all’alba. E se lo incontraste, c’è buona probabilità che vi trovi stecchite a lato della strada».

L’auto aveva due porte, se anche Tecla fosse riuscita a colpirlo, non avrebbe potuto trascinare Laura fuori dall’abitacolo. Si girò nuovamente a guardarla. Laura s’accese un’altra sigaretta. Entrambe indossavano due espressioni  inconciliabili, opposte, ma fin troppo eloquenti. Nessuna aveva parole da aggiungere. Tecla si convinse che quell’improvvisa afasia l’avrebbe perseguitata per sempre. Avrebbe dato le spalle dalla macchina, anzi, avrebbe camminato lungo la carreggiata, a testa bassa, finché non l’avrebbero recuperata, qualche centinaio di metri più avanti. Togliere un po’ di sangue al cervello dirottandolo verso le gambe; di solito funzionava.

«Solo dopo che avremo superato metà della strada, e vedi di dimenticartelo in fretta».

«Il piacere è tutto mio, Laura».


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