di Mariel
copertina di NottetempoDa pochi mesi è uscito in libreria Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica di Barbara Bernardini, edito nottetempo.
Il testo ha i suoi prodromi nella newsletter Braccia rubate, con la quale l’autrice ha iniziato a parlare della pratica di cura del suo piccolo orto (poco meno di cento metri quadrati circa) iniziato durante la pandemia, o meglio re-iniziato, accompagnata da interventi esterni di letture e visioni.
Il lavoro della terra è nei suoi geni da generazioni, tra coltivazioni alimentari – coi racconti dei suoi nonni – e decorative – col giardino di sua mamma nel quale è cresciuta – benché si ritenga la meno adatta della famiglia a far nascere e curare qualcosa.
Inizialmente rifugio, stacco dalla frenesia quotidiana d’incombenze varie, un luogo in cui ritrovare se stessa, poi, man mano che le stagioni si susseguivano, tra tentativi riusciti e fallimenti vari, l’orto, la pratica della cura di ortaggi ed erbe è diventato un modo per osservare meglio anche il fuori, il mondo, per riavvicinarsi all’essenza delle cose importanti, alla terra che ci nutre e ci ospita – oggi sotto attacco da più parti, prima di tutte la siccità.
L’autrice, attraverso i mesi di un anno, con lo sguardo tra le piante e alle fasi lunari, ci racconta ciò che accade e ciò che impara e sbaglia con le varietà messe a terra. In ogni mese-capitolo, tre sezioni: il diario dell’orto, le cose da tenere a mente e tentare e imparare con Almanacco degli anni a venire, e lo sguardo fuori, sul mondo (tra tragedie e resistenze) con Innesti.
Allora, partendo dalla primavera, a marzo, che è l’inizio dell’anno in un tempo ciclico, col risveglio e la semina – accorgersi però che i tempi di ogni creatura sono diversi e non c’è gara e ognuna farà ciò che può; così le piante di pomodori schiacciate al suolo da una bufera continueranno a crescere ugualmente, si adatteranno allo spazio in largo che trovano, invece che all’altezza dalle canne a cui erano state legate -, ci immergiamo tra le file di fagiolini e piselli, prima, e zucchine e zucche poi, e cavolfiori, cavoli e verze e finocchi per l’orto d’inverno, tra citazioni di libri, ricette, viaggi e rinvii a siti e blog, studi e reti di resistenza dal basso.
Bernardini non è sola nel racconto, sebbene lo sia nel suo orto, e, oltre al “personaggio” del contadino malaugurante che spunta ai margini del terreno, durante gli acquisti nella rivendita agricola e tra i suoi pensieri, e sprazzi di intimità famigliare, troviamo: Vandana Shiva che in India ha avviato una lotta contro l’appropriazione multinazionale dei semi tramite brevetti e che ha ispirato la campagna mondiale Seed Freedom; gli studi di aridocoltura nel deserto del Sahara, dove si sta riuscendo a mettere a punto una pratica di rifertilizzazione del terreno e a far crescere varietà di ortaggi resistenti.
Ci interroghiamo con l’autrice sulle varietà che sia meglio acquistare (e troviamo nomi bizzarri come la lattuga Ubriacona di Trento, la melanzana Casper o la zucca Marina di Chioggia), dopo aver osservato il pezzo di terra e averne saggiato la consistenza; e la osserviamo mettere a punto i rimedi meno aggressivi contro gli animali che si cibano dei germogli e non solo (e qui ci chiediamo cosa ne sarà della sua diffidenza verso le cornacchie dagli occhi piccoli e intelligenti che la osservano pronte ad assaltarla e assaltare l’orto non appena sta troppo ferma?). La vediamo oscillare tra l’approccio del non fare di Fukuoka e del fare di sua nonna, valutando, caso per caso, scegliendo ciò che sente più adatto e affine al suo sentire.
«È così impensabile – e non è arrivato forse il momento di pensarlo nonostante lo sia? – riconoscere che potremmo imparare dai funghi e dall’organizzazione della vita nel sottosuolo a vivere fra le rovine che ci attendono? A riconfigurare le società in modo reticolare, egualitario, libertario? A organizzarci come piccole comunità rurali – dove dedicarsi a reimparare come coltivare quello che mangiamo, a riconoscere e raccogliere funghi ed erbe spontanee, a recuperare saperi di cura e risanamento, rammendare e cucire, aggiustare un meccanismo fermo -, ciascuna comunità legata alla propria terra ma tutte connesse a una rete micorrizica che attraversa il mondo?
Magari fare un orto è il modo empirico per andare a scuola dal terreno e da chi ci vive dentro. O forse, solo, fare un orto è fare: non è la risposta a delle domande, è lo stato che precede, e rende inutile, ogni domanda. È gesto e reazione della vita, complessità senza fraintendimento e mistificazione. Un seme messo a terra, comprensione del limite, attesa.» (pagg. 32-33)
L’anarchia e la terra. Terra e Libertà. Perché la vicinanza con la terra, con ciò che è più simile a noi, riavvicinarci al saper fare, alla conoscenza di ciò di cui ci cibiamo, ci rende consapevoli e liberi. Qui, ritorno alla lettura dei principi per una democrazia dal basso teorizzati da Öcalan – politico ribelle curdo, in stato detentivo da ventiquattro anni -, al principio n. 4. Riportando un saper fare tra le persone, mostra come si riappropriano tuttƏ di una libertà toltaci dall’aver nei millenni delegato il potere a una manciata di uomini che si pongono al di sopra, molto spesso proprio non sapendo, non facendo e non pensando – se non al proprio tornaconto – e limitando e ostracizzando chi sapeva, sa, perché hanno deciso che non possiamo più, non possiamo. E allora non ci pensiamo. E invece è importante pensare, pensare, pensare dobbiamo (come scriveva Woolf). Restare a contatto con le cose, oggi, è più che mai fondamentale per resistere, per restituire un senso al quotidiano affannarsi per cose di cui, come bene scrive Bernardini, non si vede il senso, non si coglie un inizio e una fine. Per dedicarci a cose che non hanno bisogno di essere comunicate, per far sì che abbiano realtà, perché sono lì, evidenti. La terra è qui, sotto i nostri piedi, così reale da mantenere il peso enorme di un mondo, di creature come noi che non ne tengono conto, o troppo poco.
Questo è davvero un testo ricco e fertile, un manuale di resistenza, di rimandi letterari, filosofici, musicali, fumettistici e saggistici da tenere sempre con sé. La mia lettura è stata lenta, non poteva essere altrimenti perché foriera di riflessioni e incantamenti e sogni. Anche solo leggere un mese di diario dell’orto, ha il potere di riconciliarci e spronarci a un fare possibile, a fare da sé perché ne siamo capaci, ognunƏ per sé e per la terra tutta, per tutte le creature che la abitano.
L’autrice ha una scrittura semplice, dal tono non pedante, anzi, spesso si mette in discussione e ironizza su alcuni aspetti irrazionali e ingenui (ma poi secondo chi?) del suo fare/non fare. Il dialogo è per lo più con la società e le sue regole spesso slegate dalla realtà e troppo rigide rispetto alla molteplicità e al cangiamento del mondo. Al suo/nostro/vostro/loro essere queer. Contro le asserzioni date per buone e reiterate per secoli senza più verifica e discussione.
Sì, la terra è fatica, è vero, il lavoro in campagna è fatica per antonomasia, dire campagna è dire fatica, ma non è la stanchezza stremante che ci accompagna tutti i giorni in questo continuo cianciare e girare in tondo e schizzare da un punto all’altro in perenne affanno e mancanza di senso. Bernardini, con le piccole pratiche di (quasi) ogni giorno, osserva, si stanca, cura, si compiace di ciò che nasce e accetta ciò che è fallito o non rispecchia gli standard a cui i supermercati ci hanno abituati, tenta e riprova, col calar della sera che torna a segnare la fine di una giornata della quale si hanno davanti agli occhi i risultati. Che non sono volatili, si toccano, si mangiano, si vedono e se ne sente il profumo e il sapore. Cosa c’è di più semplice del voler piantare un seme per poterne poi mangiare il frutto? Anche se non se ne sa nulla, perché, a ben guardare, non abbiamo tutta l’importanza che crediamo nella filiera: il seme farà da sé nella maggior parte dei casi. Le piante hanno strategie di sopravvivenza per noi impensabili: hanno avuto millenni per metterle a punto. Quindi lasciamole fare. E lasciamoci andare. Impariamo a rispettarne i tempi, paradossalmente più “umani” dei nostri. Impariamo da loro a stare al mondo.
E allora la contemplazione, e l’ozio, e il pensiero silenzioso. Un’economia dello stare fermi, della necessità, dell’essenziale e pure dell’inutile. Perché siamo contraddittori, ma nel rapporto con la terra nulla è più importante dell’osservazione ritirata ma attiva, del non fare apparentemente un cazzo. Senza affanni ma stanchi, preoccupati della vita e non del post sui social, della cura delle creature che ci accompagnano nel nostro errare, sollevati da performance da guinness che non fanno bene a nessuno, solo a una società che ci spinge a consumare ininterrottamente e a perdere il contatto, a usare e gettare e riempire la terra di scarti che la soffocano e soffocano noi stessi di pensieri nocivi e deprimenti. La terra è attesa, meraviglia e sorpresa di cose microscopiche interconnesse, e imprevisto senza frenesia, ha regole di massima, va contestualizzata, è concreta, radicata eppure in transito, come la vita di cui è fatta. La terra balla il rock, si muove sul posto. La cura della terra è cura per noi. La lettura di questo libro (ri)inizia al suo ritmo.
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