di Ferruccio Mazzanti
Copertina di Antonio Bobo Corduas per Wojtek
Pubblichiamo, con estremo piacere, un breve estratto da M.C., il nuovo romanzo di Ferruccio Mazzanti, in prossima uscita il 10 maggio presso Wojtek.
Di seguito, la sinossi.
Se il mondo fosse un’azienda – la Cosmodemonic – e M.C. il suo capo idolatrato, che nessuno ha mai visto e che plasma i suoi dipendenti omologandoli, come ci piegheremmo, in cosa ci trasformeremmo? Saremmo precari, golem, tossicomani, finti-animali obbedienti, prostitute, schizofrenici ridotti a lottare per non finire in una piramide maleodorante di cadaveri: loro sono i protagonisti della Cosmodemonic. E se così deformati, trasformati, non fossimo neppure capaci di riconoscerci nelle nostre nuove sembianze, riusciremmo a descrivere ciò che la Cosmodemonic e M.C. hanno fatto di noi, sul nostro corpo, sulla nostra vita?
Ferruccio Mazzanti scrive un romanzo-caleidoscopio osando l’assemblaggio più ardito tra generi, trame, stili e linguaggi. L’invisibile e onnipresente M.C. è il grande specchio dove osservare la devastazione praticata dalla contemporaneità neoliberale sui nostri giorni e sulle nostre opere.
Certo, quando poi esco fuori dal mio Reparto, divento un’altra persona. La mia vita fa di me una schizofrenica con personalità multiple. Quante? Probabilmente ventiquattro. O dodici. O forse solo due:
- la personalità di me solidificata;
- la personalità di me liquefatta.
Non lo so, non so più niente, però quella che preferisco è quella liquida, quando non c’è più forza di gravità né confini. Amo la perdita delle definizioni. Le pareti che si disgregano. Quando invece si è nella forma solida tutto fa attrito e si attacca a te, non scivola via, ti appesantisce. Qua dentro alla Cosmodemonic posso sciogliermi continuamente. Non esco mai da questo edificio, anche se potrei. Mario, l’uomo delle pulizie che sembra una specie di statua rigida, non mi impedirebbe di andarmene. Nessuno lo farebbe. Tutti mi amano. Eppure rimango qui a fare il mio lavoro giorno dopo giorno: là fuori credo di avere una famiglia da mantenere, che non vedo mai, al massimo sento mio marito e mia figlia per telefono, quando ho una forma solida. Quando sento le loro voci forse piango, forse no, in questo momento non me lo ricordo, anche se sono certa che loro contano sul mio stipendio, che è a cottimo: più colleghi intrattengo più soldi spedisco. Quanti soldi spedisco? Un soldo, due soldi, tre soldi, quattro soldi. Da quando sono qui il mio cervello è stato così profondamente risciacquato dalla risacca che non sono più in grado di contare: cinque, sei, sette, otto, sono già stanca, nove, dieci, le ombre sulla parete mi hanno distratta, un soldo, due soldi, tre soldi, quanto valgono quattro soldi? Mio marito è disoccupato, suppongo come chiunque che non lavori qui. Mia figlia deve mangiare, credo come tutti là fuori. E io sono la Numero 178.
Un tempo, tanto tempo fa pensavo che essere donna fosse una cosa faticosa. Sì, va bene, ho le tette, pensavo, non sono grossissime, ma comunque richiamano l’attenzione. Ho una terza. E sì, va bene, ho i capelli mori. E ondivaghi. E gli occhi verdi a flutti. E sono alta un metro e ottanta, pensavo, e sono snella nonostante mangi come una fogna allagata. Mangio ancora come una fogna allagata, non so perché ma non ingrasso. La Numero 234 sostiene che sono ipertiroidea, ma non so cosa significhi. Io dico parole di cui non conosco il significato: istmo, talassologo, gangamo. Le sento dire dai colleghi, quelli che vengono qui per batigrafare i fondali della mente umana e anche dalle altre ragazze del Reparto. E poi le ripeto con tono saccente prima di liquefarmi. Mi piace il suono delle parole. Mi permettono di confondermi, di perdere il filo del discorso, di sciogliermi. Cosa stavo dicendo? Ah sì, che un tempo io pensavo, che cosa buffa che io pensassi, trovo questo annegamento costante nel piacere delle mie facoltà intellettive la cosa più bella che potesse succedermi. Come facevo a vivere prima? Prima quando ancora discriminavo, etichettavo, catalogavo.
Sono sempre stata col ragazzo più bello della scuola, dell’università, della città, anche se poi ho scoperto che gli uomini belli non conoscono tante parole. Sono finita a sposarmi con un maschio β dal vocabolario della quarta elementare. All’inizio stare con uomini belli e analfabeti mi dava un senso di trionfo e gioia, come se avessi vinto una gara. Mi faceva sentire importante. Li potevo controllare, li manipolavo per il puro gusto di farlo. Ci sono donne che non capiranno mai il potere che il corpo femminile esercita sugli uomini e quindi non riusciranno mai a goderselo. Talvolta questo potere può essere sconfinato. Per esempio il mio maschio β annusava i fazzoletti su cui mi ero soffiata il naso, baciava il cuscino dove avevo sbavato durante il sonno, leccava le mie lacrime, beveva l’acqua dove mi ero fatta il bagno. Questo potere esclusivamente femminile è un elisir pericoloso, perché finisci per amarlo più di quanto riuscirai mai ad amare la persona che stai inebriando. Poi, col tempo, ho scoperto che la mia scala valoriale era cambiata, avevo partorito una splendida bambina e questo richiedeva dei soldi e così ho deciso di mandare il mio cv alla Cosmodemonic. Ho studiato Matematica e mi sono laureata col massimo dei voti nel rispetto dei tempi accademici, ma quando ancora avevo un pensiero solidificato e analitico l’unica parte che temevo si vedesse della mia persona era il mio culo. So di avere un bel culo, ma che dico è un culo pazzesco, che manderebbe fuori di testa anche un eunuco, quando cammino le persone si voltano a guardarlo. Un tempo, tanto tempo fa trovavo la cosa faticosa e offensiva. I maschi mi opprimevano con i loro sguardi e mi sminuivano osservando la mia forma: non vedevano il mio cervello, era questo che mi feriva. Oggi sono così sprofondata nel potere che il mio corpo mi dona che non saprei come fare senza la fissità degli sguardi maschili assoggettati a me e mi auguro che la mia mente continui ad affogare nel piacere. Mi sento così viva davanti alle loro pupille piene di elettricità statica, talvolta terrorizzate. Spesso desiderano così tanto il mero involucro che mi appartiene che poi, quando se lo ritrovano tra le mani, si sgretolano non sapendo come maneggiarlo. Il desiderio li acceca, non sanno vedere cosa voglia una donna, eppure basterebbe aprire gli occhi e guardare. Vivono bendati dalle loro pulsioni. Si muovono nell’oscurità pensando sia luce. Non si fermano mai un attimo a osservare. Il buio li rende frettolosi. Vogliono possedere, non sprofondare dentro, ma solo possedere e questo li rende manovrabili. Sono degli animaletti così stupidi e prevedibili gli uomini. La mia forma solida che li fa tremare, anche i più sicuri di sé, è bellissima e raggiunge la perfezione quando sfuma gradualmente e si scioglie tra le loro labbra. È così che divento inafferrabile. Adoro il paradosso per cui proprio quando vieni stretta con forza tra le meccaniche dita di un uomo, proprio allora eludi ogni tentativo di cattura esattamente come un liquido che evade passando dalle piccole fessure non sigillate dalla pressione del desiderio. Quando sento che il loro stomaco si contrae in uno spasmo doloroso di bramosia, ho un brivido nella schiena che termina la corsa nel mio bacino, rendendolo improvvisamente caldo e mobile fino alla rarefazione gassosa. Un tempo mi sentivo protetta dagli strati di tessuto che sovrapponevo gli uni sopra agli altri a celare le forme del mio corpo. Tutti quei vestiti mi facevano sentire finalmente invisibile e al sicuro. Poi ho scoperto che è la nudità il miglior modo per non farsi vedere. Nel momento esatto in cui mi liquefaccio divento invisibile. Solo quando non si indossa nulla, si può trovare un vero nascondiglio. Io sono la Numero 178.
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