NOMINE NUDA TENEMUS – divagazioni pasoliniane

di Stefano Trucco
Copertina di Julio Armenante

Questo articolo è parte di una serie. Potete trovare il primo episodio QUI e quello dopo QUI.


A me il passato interessa di per sé e non per le lezioni che se ne possono trarre, sempre che ne possano davvero trarre. Il passato è la terra dove, come dicono gli inglesi, si facevano le cose in modo differente, e di quel passato, a parte le conseguenze indesiderate, gli effetti collaterali e il fuoco amico, a parte gli esempi innumerevoli (anche se poi per qualche motivo si finisce a usare sempre gli stessi, di solito relativi alla Seconda Guerra Mondiale e dintorni) utili giusto ‘to point a moral, or adorn a tale’, a parte la ricchezza casualmente accumulata dai nostri antenati che ci consente ancora di mangiare tutti i giorni almeno finché non l’avremo spesa tutta,  a parte questo, dicevo, restano i nomi e le date, e la storia per me ‘si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gli anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia’.

Quindi, per questa terza – e ultima! (spero) – parte delle mie divagazioni pasoliniane, dedicata a quanto sia cambiato il contesto in cui proviamo a essere scrittori fra allora, fra il 1945 e il 1975, durante il Secondo Rinascimento, quando era attivo Pasolini, rispetto a oggi, nella Nuova Era Oscura delle Opportunità Illimitate, sapete cosa dovete aspettarvi: un mucchio di date ma soprattutto di nomi. Veri e propri elenchi di nomi. Alcuni ancora vivi e vitali, citati continuamente sia sui giornali che sui social, anche se spesso per i motivi sbagliati; altri più o meno appannati, spesso tenuti in vita solo dall’imbalsamazione accademica; altri ancora del tutto o quasi del tutto dimenticati, da tempo trasferiti nel magazzino sotterraneo della biblioteca e che per questo mi sono particolarmente cari perché mi ci identifico spontaneamente. Nomi che proverò a mettere in relazione gli uni con gli altri e con il loro tempo, una piccola ‘City of Nets’, nel breve (sì, vabbè) spazio di un articolo.

Nomi che serviranno, spero, a gettare qualche luce su quello che mi pare essere il nostro problema, nostro nel senso di noi aspiranti scrittori e artisti d’oggi: Gianluigi Simonetti nel suo recente ‘Caccia allo Strega’ (Nottetempo, 2023) descrive la ‘desacralizzazione dell’autore’, da tempo in corso, ‘contrapposta al momento romantico della sua consacrazione come eroe assoluto’ (consacrazione di cui Pasolini oggi in Italia gode come nessun altro) e di come questa desacralizzazione costringa chi scrive oggi ad agitarsi freneticamente in contesti che non gli sono favorevoli, né a lui né all’arte nel suo complesso, perché qualcuno si degni di cagarlo anche solo di striscio e che comunque, anche quando riesce, perché ancora a qualcuno riesce, ad agguantare un qualche residuo di successo, non potrà lo stesso mai, proprio per principio, sperare di diventare un autore, come dire, importante ed entrare nel canone della letteratura italiana, ormai chiuso come la Bibbia, a cui non si possono aggiungere altri libri, e di cui Pasolini finisce per essere è il Giovanni a Patmos dell’Apocalisse.

(Anni fa mi trovai in una bella tavolata dove, fra gli altri, c’era un noto istruttore di boxe e arti marziali genovese. Il discorso cadde su un tema che mi interessava, il declino in popolarità del pugilato in Italia, e tutti, me compreso, ripetevano il luogo comune secondo cui non c’erano più i campioni di una volta e per questo la gente aveva perso interesse. Il saggio maestro, in un genovese spesso che non provo a imitare, disse che era vero il contrario: era perché la gente non si interessava più che non c’erano più campioni; ci fosse stato interesse, i campioni sarebbero spuntati come funghi dopo la pioggia. Questa, se non avete voglia di leggere un articolo troppo lungo, è la spiegazione di questo cambiamento, spiegazione che fra l’altro si applica a numerosi campi d’azione umana, ma io sono fra quelli che pensano che il viaggio sia più interessante della destinazione quindi… let’s go)

Nomi, date e ovviamente libri. Per esempio, ecco una vera e propria macchina del tempo, un corposo volume collettivo uscito per Garzanti nel 1977: ‘Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione e morte’. Sulla copertina marroncina orlata di nero tipica della collana ‘Memorie Documenti’ una foto (ce ne sono molte altre) di Pasolini in tribunale, in piedi, in un elegante vestito chiaro, e una citazione che serve a dare il tono che dobbiamo aspettarci: “… in paese orribilmente sporco…”.

Il tono è sostenuto fin da subito, nel ricordo straziante di Laura Betti, che aveva voluto fortemente questo libro, e nella prefazione virilmente commossa di Alberto Moravia. La tesi è sostanzialmente riassunta dal titolo dell’intervento dell’amico fraterno Francesco Leonetti, la voce del Corvo di Uccellacci e Uccellini: ‘Tentativo di giudizio storico-sociale sulla liquidazione di Pasolini da parte del potere borghese esistente’. Un Almanacco di Gotha dell’intellettualità di sinistra rispettabile di quegli anni: Franco Fortini, Tullio De Mauro, Stefano Rodotà, Enzo Siciliano, Paolo Volponi, Andrea Zanzotto, Lietta Tornabuoni, Renzo Paris, Dario Bellezza (e anche, un po’ incongruamente, l’avvocato Nino Marazzita)…

Il libro è, diciamolo subito, per certi aspetti problematico, ma ci torneremo. Resta però un documento prezioso, non solo per quel che ci dice su quegli anni in cui pareva piovere sempre e per quello che a me pare un indizio decisivo per spiegare come e perché sia cambiato così radicalmente lo status della letteratura ‘seria’ in Italia, ma per l’impressionante raccolta di documenti relativi alla vera e propria persecuzione giudiziaria e mediatica sofferta da Pasolini per gran parte della sua vita.

Dal luglio del 1955, quando la presidenza del Consiglio segnalò alla Procura di Milano ‘Ragazzi di vita’ per contenuto pornografico, fino quasi alle soglie della morte, Pasolini passò in tribunale buona parte della sua vita. Era già finito sotto processo a partire dal 1949 per i fatti di Casarsa, quando fu accusato di corruzione di minorenni, espulso dal Partito Comunista e costretto a lasciare il Friuli. Prima ancora, come testimone, aveva dovuto partecipare al processo per i fatti di Porzus del febbraio 1945, quando i partigiani della Brigata Osoppo erano stati attaccati da una formazione partigiana comunista sullo sfondo delle lotte per il controllo della frontiera friulana fra italiani e jugoslavi: erano morti 17 resistenti, fra cui il fratello minore di Pasolini, Guido (sto scrivendo proprio il 25 aprile, fra revisionismi fascisti e appelli alla difesa dei valori resistenziali, e non è un bel sentimento). Ma la vera persecuzione cominciò nel 1955. La gran parte dei processi furono per oscenità, prima dei libri e poi dei film, per vilipendio della religione cattolica (malgrado il Vangelo Secondo Matteo e numerosi attestati di lode da parte di altri gruppi cattolici), per addescamento, per atti osceni, per ubriachezza e schiamazzi (a Chioggia) e anche per crimini comuni come il favoreggiamento della criminalità e persino per una fantomatica rapina a mano armata presso un benzinaio di San Felice al Circeo, durante la quale un Pasolini con guanti e occhiali neri avrebbe ostentatamente infilato un proiettile d’oro nella pistola, accusa ripetuta un mese dopo da un maestro elementare di Avellino che lo accusò di rapina a mano armata per rubargli il manoscritto di un romanzo (denuncia ritirata due giorni dopo), senza dimenticare una denuncia per vilipendio da parte del comune calabrese di Cutro e una per diffamazione da parte di un ex deputato democristiano di nome Pagliuca perché il personaggio di un criminale in ‘Accattone’ si chiama Pagliuca. Tutti processi che potevano durare per anni e spesso concludersi solo grazie a una delle numerose amnistie di quegli anni. Tutto questo insieme a frequenti aggressioni fisiche da parti generalmente di militanti fascisti e una campagna diffamatoria da parte dei giornali di destra praticamente ininterrotta, un rumore di fondo persistente e molto sgradevole a leggersi oggi (basti sapere dell’uso da parte di quei giornali del termine ‘pasolinidi’ per indicare gli omosessuali era molto frequente).

Anche per chi non crede, come me, all’ennesimo ‘mistero italiano’ dietro la sua morte, la realtà di vent’anni di persecuzione, giudiziaria e mediatica, è innegabile e, anche facendo la tara alla retorica ‘anti-borghese’ del 1977, impressionante, come pure impressionante, da questo punto di vista, è la forza di Pasolini nel resistere a tale pressione. E’ un bersaglio, ma un bersaglio perfettamente consapevole: come riconosce nel 1962, ‘Io non posso permettermi di sbagliare un’opera; sono ridotto a questo. Non sbagliare è un dovere che ho davanti a nemici e amici: i primi mi sbranerebbero, i secondi mancherebbero immediatamente di un’arma di difesa nei miei riguardi. Sento che la fine di ‘Mamma Roma’ sarebbe un po’ la mia fine… Le masse sono spietate. Sono come dei re. E io di fronte a questi re, ormai, sono un po’ come un giullare che se sbaglia un motto viene condannato a morte’.

Però, ricordiamo un fatto importante: da tutti questi processi, in un modo o nell’altro, Pasolini esce sempre assolto. I suoi film, i suoi libri, magari con qualche ritardo, arrivano sempre al pubblico. Garzanti lo pubblicherà fino all’ultimo, ma se non l’avesse pubblicato Garzanti l’avrebbe pubblicato sicuramente qualche altro editore altrettanto importante. I suoi film, che trovavano sempre produttori disposti a metterci i soldi e attori disposti a lavorarvi, arrivavano nei cinema, partecipavano a festival e venivano premiati e distribuiti all’estero. Scriveva su giornali e riviste di tutti i generi, era spesso intervistato dalla Rai (molte di queste interviste sono raccolte in un interessante documentario su Raiplay) e morì da editorialista del Corriere della Sera, il maggiore giornale italiano. Se la misura fosse stata il successo, non avrebbe avuto di che lamentarsi. Di più, la sua vita privata era molto pubblica e pure molto commentata e condannata, però questo non impediva in alcun modo il suo progresso d’artista. Per una volta sento di poter usare il luogo comune alla moda secondo cui oggi non sarebbe possibile.

Vi ricordate qualche anno fa il caso Matzneff? Gabriel Matzneff è un anziano scrittore francese che in Italia non s’è mai filato nessuno e per una volta meno male. Pedofilo bisessuale, gran parte della sua produzione letteraria riguarda proprio quella cosa lì e il suo libro più noto si intitola ‘I minori di sedici anni’. Per quanto non vendesse granché era molto rispettato dall’alta cultura francese, tanto da ricevere nel 2009 un premio da parte de l’Academie Francais. Nel 1977 scrisse e promosse una petizione per la depenalizzazione del reato di pedofilia e l’abolizione dell’età del consenso che fu pubblicata su Le Monde e Liberation (che però ne presero le distanze) e firmata, fra gli altri, da Jean-Paul Sartre, Simone De Beauvoir, Roland Barthes, Louis Aragon, Jean-Francois Lyotard, Michel Leiris, Jacques Derrida, Louis Althusser, Gilles Deleuze, Michel Foucault, Alain Robbe- Grillet, Philippe Sollers, il futuro ministro della cultura Jack Lang, il fondatore di Medici Senza Frontiere e futuro ministro degli Esteri Bernard Kouchner, il fumettista Copi e anche una vedette della destra intellettuale come Andrè Glucksmann. Insomma, un classico caso di ‘mais à quoi pensaient-ils en le faisant?’

Comunque, lo scrittore cristiano di rito ortodosso (già, pure quello) si stava godendo una serena vecchiaia quando una sua vecchia fiamma, la scrittrice e editor Vanessa Springora, pubblica la storia della loro relazione, quando lei aveva 14 anni e lui 50 (il libro, La Confessione, è edito in Italia da La Nave di Teseo, 2020). Matzneff, malato di cancro, si ritrova improvvisamente al centro dell’attenzione e senza più amici né protettori. I suoi libri vengono ritirati dal commercio e dagli scaffali delle biblioteche, viene indagato dalla giustizia e si ritrova pure con della gente male intenzionata sotto casa. Finisce per scappare in Italia, dove trova i suoi unici difensori in personaggi come Giuliano Ferrara (che ha tradotto e fatto pubblicare la risposta di Matzneff a Springora, ‘Vanessavirus’) e Giampiero Mughini, che hanno preso la lotta contro la ‘cancel culture’ e il Metoo un cicinino troppo alla lettera (in Francia l’unico che si spese in sua difesa fu il filosofo d’estrema destra Alain De Benoist, che ne ammirava il ‘libertinismo aristocratico’).

Ora, è abbastanza ovvio che anche Pasolini, oggi, avrebbe dei problemi simili, benché sia altrettanto ovvio che l’italiano, rispetto al francese, pare un modello di moralità e un artista incomparabilmente più serio e importante, oltre che ad aver avuto, senza contare la morte violenta, una vita decisamente più difficile e combattuta (per quel che ne leggo, Matzneff non pare aver avuto particolari problemi giudiziari prima di oggi, un po’ come il più problematico dei grandi poeti italiani del Novecento, forse il più grande e il più problematico, Sandro Penna). Quello che i due avevano in comune era il sostegno di un sistema culturale forte, prestigioso e in buona parte autonomo e autogovernante, quello che un tempo si diceva La Repubblica delle Lettere.

Facciamo un passo indietro (uno dei tanti, ci prendiamo il tempo che ci vuole, che tanto nessuno ci corre dietro).

Per tanti aspetti il periodo di storia artistica e culturale italiana che va dalla fine della guerra alla morte di Pasolini può essere definito un Secondo Rinascimento. Siamo all’avanguardia mondiale nelle arti che si potevano allora definire ancora ‘nuove’, il cinema e il design industriale, ma ci sono artisti importanti in tutte le arti più tradizionali – pittura, scultura, architettura, teatro, musica ‘seria’ – e in tutti i casi la proiezione internazionale dell’Italia è forte, grazie anche ad appuntamenti importanti, sia dal punto di vista artistico che mondano, come la Biennale di Venezia, il Festival del Cinema sempre a Venezia, e il Festival dei Due Mondi di Spoleto (nato per impulso di Gian Carlo Menotti, l’ultimo compositore di opere liriche ancora in repertorio, a tutti gli effetti il punto finale di una delle nostre maggiori tradizioni che però negli anni Cinquanta sembrava poter avere ancora un futuro. Per accennare appena a un tema che amo, anche il teatro era centrale nella conversazione colta: non solo i registi come Strehler e Visconti ma anche drammaturghi oggi dimenticati come Diego Fabbri e Giuseppe Patroni Griffi; nel 1955, nel West End londinese, erano in scena ben tre drammi di Ugo Betti, per dire. Tutto finito. Il teatro interessa solo a chi interessa, cioè non fa più parte delle cose che una persona mediamente colta deve sapere per non fare brutta figura in società, che è l’autentico metro della cultura, secondo me).

Tanto per dare un’idea visiva della proiezione internazionale della cultura italiana ecco tre copertine di paperback americani Signet degli anni Cinquanta, quei libri si vendevano nelle edicole, nei drugstore e nelle stazioni dei Greyhound. Si tratta di romanzi di Vasco Pratolini. Il probo scrittore neorealista fiorentino sbarca negli Usa sotto delle copertine vagamente pulp e slogan che cercano di farlo sembrare più sexy di quanto effettivamente sia. ‘Cronache di poveri amanti’ è ‘a novel of the elemental passions’; ‘Un eroe del nostro tempo’ è ‘a shocking novel of a modern affair’; e ‘Il quartiere’, ribattezzato ‘The naked streets’ racconta ‘the heartaches and triumphs of youth in love’. Vi lascio immaginare come fossero quelle dei romanzi di Moravia.

La letteratura italiana, vista col senno di poi (il panorama, visto dal terreno poteva apparire meno trionfale, come sempre, fra sogni infranti, crisi di crescita e rivoluzioni fallite), pare aver vissuto la sua ultima grande stagione, non solo dal punto di vista puramente creativo ma anche, come dire, organizzativo e di status pubblico. Un boom della nascite accompagna una crescita economica che in Italia non si vedeva da almeno cinque secoli; fra scuola, radio e televisione, l’alfabetizzazione italiana delle masse si completa proprio in quei decenni, scalzando quasi definitivamente i dialetti (cosa vista come tragica da molti letterati, Pasolini in testa, il cui primo saggio importante è proprio sulla poesia dialettale e ‘popolare’); il crescente benessere porta a un aumento dei consumi culturali, compresa la letteratura; aumentano i diplomati e i laureati e in generale una popolazione studentesca tradizionalmente portata all’engagement politico e ora numericamente rilevante anche per il mercato; l’editoria diventa sempre più imprenditoriale e organizzata, pur mantenendo ancora una struttura familiare e un forte rapporto con la tradizione letteraria, specie a livello di quadri dirigenti; agli spartani tascabili grigi della vecchia Bur si aggiungono i più colorati Oscar Mondadori, che si possono trovare in edicola accanto ai Gialli, ai Segretissimo e agli Urania; i giornali quotidiani e i settimanali sono allo zenith della loro influenza e gli scrittori italiani ci scrivono in massa e vengono pure pagati: insomma, fra gli scrittori stanno cominciando a girare i soldi.

Sembrava che la vecchia domanda di Ruggero Bonghi – ‘perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia’ – fosse stata risposta: la letteratura italiana ‘seria’ non era mai stata così popolare in Italia (anche se, allora come oggi, si traduceva moltissimo e la letteratura americana stava sostituendo quella francese come punto di riferimento).

Alcune immagini d’epoca, giusto per illustrare il punto con un po’ di erudizione non del tutto necessaria ma ehi, si vive una volta sola. Per prima cosa, una bellissima foto del fotografo americano Irving Penn, un ritratto di gruppo in bianco e nero datato 1948 dentro il Caffè Greco di Via Condotti, uno dei principali ritrovi della scena romana del tempo. Ci sono scrittori e poeti – Aldo Palazzeschi, Carlo Levi, Sandro Penna, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Libero De Libero -, pittori – Mario Mafai, Mirko e Afro Baldassela, Pericle Fazzini, Renzo Vespignani, Orfeo Tamburi -, il musicista Goffredo Petrassi, l’attrice Lea Padovani e, Special Guest Star, Orson Welles. L’immagine trasmette una strana sensazione di fiducia, anzi proprio di self-reliance, di convinzione di poter lasciare un segno nel mondo, pur in un contesto ancora relativamente povero. E’ anche l’immagine di una cultura dove scrittori, pittori e musicisti si frequentano e si sentono parte di uno stesso ambiente di scambi e influenze reciproche, una cultura in cui c’è una specie di dovere dell’essere informati su cosa stanno facendo gli altri, anche al di fuori del proprio genere, una cultura di gente, fra l’altro, che abita praticamente tutta nei dintorni. Ma è la presenza del cinema – e che cinema! – a lasciar presagire il vicino futuro.

Futuro già pienamente realizzato fra il 1960 e il 1961 quando Marcello Mastroianni interpreta due scrittori in due film capitali, La Dolce Vita di Federico Fellini e La Notte di Michelangelo Antonioni, e in entrambi i casi si tratta di uno scrittore nominalmente in crisi ma di una coolness persino imbarazzante. Il ‘Marcello Rubini’ della Dolce Vita ha sprecato le sue doti d’autore nel giornalismo scandalistico ma ancora frequenta ambienti letterari, dove accanto a Steiner, un classico scrittore-umanista interpretato da Alain Cuny (fra l’altro uno dei firmatari della petizione di Matzneff), appare, nella parte di sè stesso, Leonida Repaci, fondatore del Premio Viareggio, all’epoca importante quanto lo Strega. In compenso il ‘Giovanni Pontano’ de La Notte è uno scrittore di successo impeccabilmente letterario e lo seguiamo insieme a Jeanne Moreau alla festa di presentazione del suo nuovo libro, ‘La stagione’, presso la sede della Bompiani a Milano, dove Valentino Bompiani, ‘il nostro Premio Nobel’ Salvatore Quasimodo e il critico Giansiro Ferrata interpretano sè stessi e fra la folla si possono riconoscere il giovane Umberto Eco e Ottiero Ottieri. Essere scrittori era ufficialmente figo, quasi quanto essere architetti.

Ovviamente fare parte della Repubblica delle Lettere non era solo Caffè Greco e party prestigiosi. C’erano degli obblighi. Come racconta Antonio Tricomi in un ottimo libro del 2010 intitolato appunto ‘La Repubblica delle Lettere’, i confini erano più rigorosi e attentamente sorvegliati: gli editori erano molto meno di oggi e ancor meno erano quelli importanti; i critici erano ancora importanti e se i compiti fra scrittori e critici erano ancora distinti le scelte delle case editrici, pur rispettando le esigenze del mercato, dipendevano molto da funzionari-letterati. Si pubblicava meno, anche se all’epoca già ci si lamentava che si pubblicasse troppo (opinione mia: pubblicare troppo è una condizione strutturale di una cultura sana; una cultura che pubblicasse solo il ‘necessario’ sarebbe alla canna del gas; la cultura, la civiltà, sono fatte di superfluo, anche se poi è chiaro che si può esagerare). Soprattutto bisognava condividere ‘la convinzione che la cultura e la letteratura fossero beni pubblici che spettasse in primo luogo a quanti per mestiere li frequentavano salvaguardare, rinnovare, incrementare lavorando di concerto, ossia incaricandosi, insieme seppure fra continue dispute, di farli interagire con il contesto sociale’, e perciò ‘Ogni testualità richiedeva lettori formatisi sulla lezione dell’umanesimo, dunque capaci di riconoscere i modelli, le allusioni, l’effettiva novità di lavori perlopiù pensati come intertesti, come riscritture e aggiornamenti dei capisaldi di una tradizione che l’autore mirava con le proprie opere a rinsaldare’. Un modello virtuoso dove a letterati responsabili e consapevoli corrispondevano lettori altrettanto responsabili e attenti.

Detto così, una specie d’inferno (vabbè, scherzo, ma come vedremo tale stato così nobile e esaltato aveva le sue criticità, che ne provocarono la fine). Ma questa non era tutta la realtà, per fortuna. E’ il caso di tornare a Paolo Monelli e al suo ‘Ombre cinesi’. Pubblicato nel 1965, il libro raccoglie una serie di 14 ritratti di letterati italiani scritti fra il 1960 e il 1962, cioè all’apice del Secondo Rinascimento. Non sono interviste ma ritratti, un po’ come quelli, allora popolarissimi, di Indro Montanelli (le cose migliori abbia mai scritto), basati sulla conoscenza personale: in alcuni casi si tratta chiaramente di vecchi amici, in altri, specie per gli autori più giovani, Monelli si premura di conoscerli di persona (nel primo articolo di questa serie di divagazione pasoliniane raccontavo di come questo anziano gentiluomo reazionario si facesse portare da Pasolini in visita alle borgate e ai ‘ragazzi di vita’). Sono soprattutto divertenti, con un tono sempre leggero e anche piuttosto impertinente. Per esempio, parlando di Calvino ci fa sapere che ‘a Torino, dove abita, mi hanno detto che piace molto alle donne, e che accetta questa ammirazione con distratta indolenza’.

Molti nomi mancano ma quelli che ci sono danno un’idea: ci sono i tre grandi poeti praticamente già canonizzati in vita, Montale, Ungaretti e Quasimodo; ci sono i vecchi già all’opera prima e durante la Grande Guerra come Prezzolini, Palazzeschi e Comisso; ci sono quelli venuti fuori fra le due guerre, specie a ridosso della Seconda, come Piovene, Soldati, Bacchelli, Montanelli, Patti, Marotta e Gadda; e ci sono i nuovissimi rampanti, Bassani, Morante, Manzini, Calvino e Pasolini.

Ma soprattutto c’è, primo della lista e leader indiscusso (o meglio, molto discusso ma riconosciuto), Alberto Moravia, ‘certamente il narratore più noto d’Italia, uno dei più noti nel mondo, spesso il solo scrittore italiano citato all’estero nei panorami degli scrittori contemporanei. E’ il necessario condimento d’ogni fatto letterario o sociale in Italia’.

Onestamente, quando provai a leggerlo da giovane pensai che se questo Moravia era il meglio che la letteratura italiana potesse offrirmi grazie tante ma non faceva per me, meglio gli Urania. Oggi ho di tanto in tanto la tentazione di riprovarci e di certo un giorno lo farò: quella che Luigi Baldacci definiva la sua ‘meravigliosa lingua di plastica’ e quei suoi protagonisti fissati solo su sesso e soldi non potevano piacermi allora ma forse potrebbero oggi, che sono in gran parte una persona diversa. Vedremo. Resta che oggi il nome di Moravia non è scomparso dalla memoria ma, come dire, è ricordato solo per il fatto di essere stato dimenticato, perché famoso lo era sul serio. Ancora nel 1980 Martin Seymour-Smith nel suo ‘Novels and novelists. A guide to the world of fiction’, dedica a Moravia lo stesso spazio che a Pasolini, Calvino e Gadda messi assieme.

Di Moravia si parlava. Ne parlava Mino Maccari –

A gennaio
per ignavia
un romanzo
fe’ Moravia
A febbraio
ne fe’ un paio.

Ne parlava Ennio Flaiano –

In questa casa signorile con doppi servizi
Visse e operò tenacemente
Alberto Moravia
Che a supremo fastigio dell’arte sua
La Noia ponendo
In novelle innumerevoli la profuse.

Vitaliano Brancati lo ritrasse nel 1952 come un personaggio nella sua commedia ‘La governante’ (celebre per essere stata censurata dal governo per immoralità) nel famoso scrittore ‘Alessandro Bonivaglia’, e nel film che ne fu tratto nel 1974 Vittorio Caprioli lo interpreta esplicitamente come parodia dell’autore degli Indifferenti,  mentre il povero Guido Morselli lo fa apparire con tanto di nome e cognome nel suo romanzo pubblicato solo dopo la morte, ‘Il Comunista’, assegnandogli il ruolo di deus ex machina del plot.

E Moravia, che era pure sposato con la miglior scrittrice italiana del tempo, Elsa Morante (e aveva uno zio presidente del Movimento Sociale Italiano, giusto per non farsi mancare nulla), ci teneva al suo benevolo dominio. Come ci racconta Monelli: Per conto suo, è ben persuaso che nessun narratore oggi in Italia possa spodestarlo dal suo trono di santone; ad ogni modo, quando s’è accorto che si faceva avanti un giovane altrettanto ambizioso, con un libro che ha suscitato altrettanto chiasso che a suo tempo ‘Gli Indifferenti’, e che ha intorno a sé una battagliera schiera d’ammiratori, Pier Paolo Pasolini, l’ha saggiamente associato a quel suo trono, prendendo verso di lui un atteggiamento di protettore ed insieme di collega nel denunciare le miserie sociali, e di collaboratore nella questione della lingua.

Ecco, una cosa che mi colpì molto quando cominciai a prendere sul serio la letteratura italiana: il mito di Pasolini lo descrive invariabilmente come un uomo solo, senza amici, in lotta contro il mondo. Poi, in dettaglio, pochi scrittori sono stati ammanigliati come lui e vi assicuro che questa non è una critica, penso che abbia fatto benissimo, esposto e minacciato com’era, ma solo una puntualizzazione. Come disse intorno al 1970 Franco Fortini, suo interlocutore privilegiato e figura pivotale di quel periodo (e su cui torneremo), il Pasolini che è ‘autore di alcune bellissime poesie e prose è la stessa persona di un notissimo protagonista di traffici letterari, politici e mondani; e, per poter ascoltare la sua predica, il suo invito ai valori, i giovani dovrebbero dimenticare quella identità’.

In biblioteca abbiamo questo altro splendido libro Garzanti, forse una strenna natalizia o comunque un libro da regalare importante: ‘Scrittori della realtà, dall’VII al XIX secolo’, che è praticamente un’organigramma del potere letterario del 1961, l’anno in cui uscì e in cui Monelli scrisse i suoi ritratti di scrittori: prefazione di Moravia; commenti ai testi di Pasolini; commenti alle numerose illustrazioni a colori di Attilio Bertolucci, poeta e padre di Bernardo; scelta dei testi di Enzo Siciliano, a lungo direttore di Nuovi Argomenti, la rivista letteraria più importante del dopoguerra, e Presidente della Rai dal 1996 al 1998.

Well, you get the point: Pasolini, come scrittore, era tutt’altro che solo, anzi. Secondo Monelli poteva godere ‘l’unanime giudizio favorevole della critica ufficiale’, oltre ai ‘pochi e fedeli amici che si è fatto fra narratori e poeti, pattuglia di pretoriani sempre pronta a battersi per lui, e gli fece scorta quest’anno a Venezia marciando compatta ed aggressiva, Bertolucci Bassani Gadda Moravia Citati Elsa Morante, pochissimi altri’. Se gli ‘amici e pretoriani’ erano pochi e le critiche non mancavano, era un dato di fatto che la critica ufficiale lo riteneva uno scrittore importante e soprattutto uno scrittore degno di essere difeso a tutti i costi.

Pasolini ne aveva assolutamente bisogno di essere difeso, per via della persecuzione giudiziaria e politica di cui dicevamo, e lì tutti stavano dalla sua parte. Ecco Calvino e Moravia fra il pubblico al processo per la fantomatica rapina al benzinaio; ecco Ungaretti, al culmine del suo prestigio, che lo difende, sempre durante un processo, dall’accusa di oscenità: ‘Ho letto Ragazzi di Vita, e stimo sia uno dei migliori libri di prosa narrativa apparsi in questi anni in Italia… Pier Paolo Pasolini è lo scrittore più dotato che oggi possediamo in Italia. Ogni sua attività: romanzo, critica, erudizione, poesia, è prova di un impegno estremamente serio ed offre risultati che onorerebbero chiunque… D’altra parte è libero compito del romanziere rappresentare la realtà com’è.

Ecco, soprattutto, come esempio, il professor Alessandro Cutolo. Crociano minore, professore di Storia Medievale alla Sapienza di Roma e di Biblioteconomia alla Statale di Milano, era l’immagine stessa della rispettabilità culturale ma soprattutto fu una delle prime star della televisione, con la sua trasmissione di divulgazione culturale ‘Una risposta per voi’ che andò in onda dal 1954 al 1968 (praticamente un Piero Angela interpretato da Peppino De Filippo). Proprio per la combinazione di fama e rispettabilità il Tribunale di Roma gli commissionò una perizia sull’oscenità di ‘Una vita violenta’ e lui non potè far altro che difendere Pasolini, da cui tutto lo distingueva: certo, ‘nella narrazione il linguaggio è crudissimo, offensivo, e molto spesso lo è senza necessità, quasi per compiacimento: nei dialoghi sembra che l’oscenità e la scurrilità non possano separarsi dai personaggi’, ma del resto ‘il neorealismo rispecchia il costume e i tempi e siamo ormai avezzi dai film, dalle commedie, dai libri, ad accettare durezze e scabrosità che i nostri nonni avrebbero respinto sgomenti’. Ma si trattava comunque di un’opera d’arte con un forte contenuto morale, in quanto ‘la rappresentazione del vizio è desolata, il peccato non dà gioia, i peccatori non destano alcun desiderio di imitarli: non c’è in questo libro niente di pruriginoso’. Ovviamente Pasolini fu assolto anche quella volta.

Questo organigramma di potere culturale aveva i suoi critici, ovviamente: per esempio Giovanni Arpino che in una sua rubrica sulla Stampa di Torino scrive proprio a Monelli riguardo a Ombre Cinesi. Arpino era uno scrittore popolare e anche premiato (lo Strega nel 1964, il Campiello nel 1980) ma non gli bastava, si sentiva sottovalutato dai circoli romani e quindi parte con un formidabile rant contro gli altri autori italiani che vede come ‘pettegoli in parrucca e terroristi dell’azione letteraria. Raramente da queste bocche è scesa una parola immediatamente umana, immediatamente utile al prossimo. L’eccesso di astuzia, di prudenza, di autocontrollo, l’ansia di toccare quella riva, quella posizione, quella data posizione, hanno prodotto allori ma stinto gli inchiostri’. Per non pensare che lo stia facendo solo per incensare sè stesso (cosa che in questi tempi più cinici e disincantati uno potrebbe pure sospettare) contrapponendosi a un tipo di scrittore ‘timido, obbediente, pettegolo, cinico e facile e gonfio di sé’, Arpino si appella all’’onesto lettore di provincia, non corrotto e ben disposto’ – all’anima del marketing posizionale. Se Pasolini si rivolgeva a un ‘popolo’ essenzialmente mitico, Arpino preferisce rivolgersi a una piccola borghesia immancabilmente operosa e virtuosa costruendosi il suo piccolo plinto eroico e qui viene spontaneo il paragone col povero Luciano Bianciardi, che alla sua estraneità ci credeva sul serio e che finì per autodistruggersi con l’alcol in una villetta di Rapallo. Resta che il sistema di allora funzionava in modo tale che sia Arpino e Bianciardi fino all’ultimo trovarono buoni editori disposti a pubblicarli e giornali che gli pagavano le collaborazioni proprio in funzione della loro percezione come ‘marginali’ ai giri di potere letterari romani (e non parliamo del VERO marginale, cioè il poverissimo Guido Morselli, mai pubblicato in vita perché VERAMENTE fuori dai giri – difatti è il mio scrittore preferito del Novecento italiano).

Comunque, Pasolini all’inizio degli anni Sessanta era sulla cresta dell’onda. Se per il Monelli del 1961 ‘tutto ci si può aspettare da uno come lui, nervoso, irritante, carico di odi e di corrucci, predicatore apocalittico, prigioniero di un’umanità vaga labile e antisociale ai margini della città, da cui sembra assurdamente attendere il miracolo di un rinnovamento totale (…); ma che ci induce altre volte ad affettuosa pietà apparendoci sconfortato, incerto, tormentato da oscuri rimorsi, nell’abbandono dolente e disarmato di un ragazzo sentimentale che nel fuoco di una “disperata passione di essere nel mondo” si sente tentato ad invocare la morte’ , nel 1965 il progresso era evidente: ‘Ormai Pasolini si è lasciato addietro nella corsa alla rinomanza Moravia e Carlo Levi che fino a qualche tempo fa gareggiavano distaccatissimi in testa. Come questi ha sempre urgente il bisogno di collocarsi in prima fila ogni volta che gli si presenta l’occasione, di affermare una sua fede, di appoggiare un movimento, di partecipare attivamente agli eventi politici e sociali. Ma ha sugli altri due il vantaggio che alla notorietà che nel campo letterario gli ha fatto la critica più autorevole e alle polemiche suscitate dalla materia e dall’idioma dei suoi romanzi, assomma la popolarità che gli viene dalla sua vita irrequieta, dall’umanità pittoresca sordida anarchica delle borgate che fanno da sfondo e da coro ai suoi atteggiamenti; e infine la sua versatilità, i suoi mutevoli impegni, e così il fervore con cui ha continuato a far pellicole che piacciono ai critici di ogni colore e suscitano contrastanti polemiche per il loro contenuto’.

Due cose necessarie per precisare ulteriormente il quadro. Intanto la famosa e deprecata Egemonia di Sinistra sulla cultura italiana. Così com’è raccontata di solito, nelle pagine culturali dei giornali e nelle chiacchiere sui social, è una mezza bufala.

Solo mezza, però, perché un tot di verità c’era. Non c’è dubbio che un tono generalmente di sinistra, più o meno marxista, più o meno populista, più o meno libertario, più o meno anti-governativo, segna la letteratura e l’arte del Secondo Rinascimento, non solo in Italia ma più o meno in tutto l’Occidente. Una egemonia dovuta nemmeno tanto alla forza delle idee, allo spirito del tempo o a machiavelliche strategie di egemonia gramsciana quanto alla crisi mortale dell’interlocutore: la cultura propriamente di destra era in crisi com’è naturale se si pensa che la sua difesa dei valori tradizionali aveva appena provocato fra i 60 e i 70 milioni di morti e la distruzione di intere nazioni, Olocausto compreso, e non lo dico ironicamente o almeno non solo ironicamente (piuttosto c’è da meditare sul fatto che 80 anni dopo se chiedo a un camerata chi è il massimo scrittore italiano dei nostri tempi mi risponde Giampaolo Pansa ‘perché ha detto la verità sui partigiani assassini’). Non c’è dubbio poi che una simile cultura orientata a sinistra dovesse fare i conti, in Italia e in Francia, con partiti comunisti forti e organizzati che cercavano di egemonizzarla. Ma detto questo il quadro reale è molto più nuanced.

Mentre autori fascisti o fascisteggianti come Giovanni Guareschi, Giuseppe Berto e Leo Longanesi o i vecchi arnesi dell’Accademia d’Italia sopravvissuti al 1945 erano tenuti decisamente ai margini malgrado il successo commerciale di alcuni, in una prospettiva di Arco Costituzionale antifascista, la cultura liberale se la cavava decisamente meglio (casomai era la cultura cattolica e democristiana, cioè governativa, a contare meno di quanto avrebbe potuto o dovuto nel contesto letterario e editoriale ma, insomma, il potere ce l’avevano lo stesso, erano altri ad aver bisogno della cultura per i loro scopi). Liberali erano i maggiori giornali e le maggiori riviste di quegli anni, chi più a sinistra, come il Mondo, l’Espresso e il Giorno, chi più governativo, come Epoca, il Corriere della Sera e la Stampa. Del resto, s’è saputo in seguito, la scelta strategica americana nella guerra fredda culturale fu quella di sostenere in Europa, attraverso organismi come il Congress for Cultural Freedom la sinistra anti-comunista e l’arte d’avanguardia, tipo l’espressionismo astratto e la pop art, come alternative ‘anticonformiste’ al realismo socialista (la CIA anni dopo tirò fuori i documenti e pure le ricevute e se ne fece anche parecchio vanto).

Autori come Montale e Gadda, notoriamente liberal-conservatori, erano già sulla strada di essere considerati come centrali al canone novecentesco; come pure liberal-conservatori o cattolici erano alcuni dei critici più autorevoli degli anni Cinquanta e Sessanta, come Emilio Cecchi, Carlo Bo e Geno Pampaloni, per non parlare di eccentrici leggendari come Mario Praz o Ellemire Zolla. La cultura liberale poteva contare su Laterza e sull’eredità crociana che ancora dominava le università, ma non dimentichiamo che un editore vicino al PCI come Einaudi era anche, per tradizione di famiglia, uno dei principali editori liberali. Insomma, la pregiudiziale anti-fascista c’era ma non quella anti-liberale, dato che liberali erano molte delle posizioni di potere del sistema culturale e mediatico. Magari l’Unità stroncava o non parlava del tuo romanzo o saggio anti-comunista ma di certo il Corriere ne avrebbe parlato bene e così pure il Mondo o l’Espresso. E anche la destra, pur emarginata, poteva contare su editori tutt’altro che minori come Longanesi e Rusconi che in libreria ci arrivavano senza problemi.

L’influenza del PCI, quindi, aveva confini piuttosto evidenti. In certe ricostruzioni d’epoca si immagina che un libro o un film potessero essere condannati all’oblio da una recensione negativa di critici-burocrati zdanoviani come Muscetta, Alicata, Salinari, Aristarco o Bianchi che per qualche motivo si incaponivano a perseguitare Beppe Fenoglio o Pietro Germi. Ecco, no. La loro influenza fu indubbiamente forte nell’immediato dopoguerra, durante la stagione Neorealista, ma prima la Ricostruzione e poi il Boom la ridussero di molto. Nel 1956 Pasolini e Moravia poterono criticare aspramente il PCI per la sua posizione strettamente filosovietica riguardo all’invasione dell’Ungheria e Calvino uscire dal partito senza che questo danneggiasse sensibilmente il loro status nella Repubblica delle Lettere o sul mercato. Ma poi pensate a Feltrinelli, l’editore mainstream allora più decisamente di sinistra e più vicino al partito che, in una logica puramente commerciale e di prestigio, pubblicò in prima mondiale ‘Il dottor Zivago’ di Boris Pasternak malgrado l’esplicita proibizione dell’Unione Sovietica (che impedì a Pasternak di accettare il Nobel per la Letteratura) e  la condanna del PCI stesso per bocca di Mario Alicata, di nuovo senza apprezzabili conseguenze per gli affari e per lo status dell’editore, Giangiacomo Feltrinelli, editore che allo status ci teneva parecchio almeno quanto teneva all’azienda e alla sua idea di rivoluzione per cui morì quindici anni dopo.

Il rapporto di Pasolini col PCI, poi, fu un caso a sé, conflittuale ma soprattutto dialettico. ‘Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947’. Malgrado Porzus (1944) e malgrado l’espulsione dal partito dopo i fatti di Casarsa (1949 – ma diciamolo, QUALSIASI partito italiano di allora si sarebbe comportato allo stesso modo, non solo DC, MSI e monarchici, ma anche il PSI, il PRI, il PLI e il PSDI) Pasolini si proclamò sempre e comunque fedele al partito: la sua ultima dichiarazione di voto a suo favore fu per le amministrative del 1975, quando il PCI insieme al PSI conquistò il governo di tutte le grandi città – Roma, Napoli, Milano, Torino, Genova etc.: ‘Voto comunista perché questi uomini diversi che sono i comunisti continuino a lottare per la dignità del lavoratore oltre che per il suo tenore di vita: riescano cioè a trasformare, come vuole la loro tradizione razionale e scientifica, lo Sviluppo in Progresso’. Questa fedeltà però non gli impediva di criticare il partito come e quando voleva, su temi politici e culturali, a volte in maniera molto tagliente. Il PCI reagiva spesso con insofferenza ma i rapporti non si interruppero mai: non solo Pasolini a più riprese collaborò con giornali e riviste vicine al partito ma questo fu sempre presente nei momenti difficili della persecuzione giudiziaria: sospetto non sia un caso che l’avvocato di Pasolini al processo per rapina a mano armata si chiamasse Berlinguer…

L’altro fattore strutturale, anche più importante, per descrivere la letteratura italiana durante il Secondo Rinascimento, è il suo rapporto strettissimo con il cinema, cioè con l’arte regina del periodo.

Come disse Orson Welles chiacchierando con Bernard Jaglom (‘A pranzo con Orson’, Adelphi, 2015) a Cinecittà ‘hanno le condizioni economiche e i teatri di posa migliori al mondo. Cinecittà fu costruita da Mussolini, sai’. Se il cinema americano era ancora assolutamente dominante il cinema italiano era produttivamente il secondo del mondo – pazzesco, vero? –, se con contiamo Bollywood, i cui prodotti però all’epoca non uscivano dall’India. Il cinema italiano godeva di un immenso prestigio fin dalla stagione del Neorealismo, subito dopo la guerra, ammirata e imitata ovunque, persino a Hollywood.

C’era un cinema d’autore, il primo livello, che dominava la discussione critica e il circuito dei festival internazionali: con Fellini in testa, che vinse ben cinque Oscar, poi Antonioni, Visconti, Rossellini, e in seguito Pasolini, Pontecorvo e Bertolucci; un terzo livello di cinema iper-popolare, con film prodotti in due o tre settimane in tutti i generi possibili e immaginabili, dal peplum all’horror, dal poliziottesco al boccaccesco (nato per sfruttare il successo del Decameron di Pasolini, fra l’altro) e soprattutto lo Spaghetti Western e la commedia, da Totò a Franco e Ciccio; e la solida colonna portante del secondo livello, un buon cinema commerciale, di solito comico ma anche romantico o civile, il cinema di Monicelli, Scola, Germi, Risi, Rosi, Petri, Cavani e Lizzani. C’erano autori che alternavano agevolmente primo e secondo livello, come Vittorio De Sica e altri che saltavano acrobaticamente dal terzo al primo, come Sergio Leone. Un cinema che andò in crisi più o meno contemporaneamente alla morte di Pasolini e che da allora non si è più ripreso.

Gli scrittori italiani vivevano in simbiosi con questo cinema al tempo stesso popolare e colto. Gran parte di loro finiva per lavorarci (Pasolini cominciò come sceneggiatore, per poi passare alla regia) e il rapporto era così stretto da dar vita a un fenomeno bizzarro, cioè scrittori che recitavano nei film.

Abbiamo già detto della Notte di Antonioni, con i cameo di Salvatore Quasimodo e Umberto Eco. Ma ecco una ‘Giulietta e Romeo’ di Renato Castellani del 1954. E’ una grossa produzione rivolta al mercato internazionale, infatti i protagonisti sono Lawrence Harvey e Susan Shentall e c’è pure John Gielgud. Ma una parte importante, quella del Principe di Verona è riservata a Elio Vittorini (Giuseppe Marotta, che fu anche il più popolare e divertente critico cinematografico del tempo, fu sarcastico: ‘nei panni del Principe ho riconosciuto Elio Vittorini, è marmoreo, la solennità rigida e frigida che probabilmente Castellani agognava’) e Ennio Flaiano fa una comparsata come uno dei popolani. Flaiano aveva avuto una parte più importante in un precedente film di Castellani, ‘Mio figlio professore’ (1946), con Aldo Fabrizi e Giorgio De Lullo: insieme a Flaiano compaiono anche Mario Soldati, Francesco Jovine, Ercole Patti, Gabriele Baldini, Vincenzo Talarico e – chi si rivede! – Paolo Monelli. Mario Soldati, ricordiamolo, era stato un regista importante anche se, curiosamente, allo scrittore raffinato corrispondeva un regista simpaticamente commerciale, alieno dalle suggestioni del ‘cinema di poesia’ (Soldati, guarda caso, fu anche una delle prime stelle della televisione degli anni Cinquanta). Oltre a Soldati e Pasolini, altri scrittori arrivarono a dirigere film, sia pure con minor successo, tipo Curzio Malaparte (Cristo proibito) e Alberto Arbasino (La bella di Lodi). E naturalmente Bernardo Bertolucci, figlio di Attilio, aveva cominciato come poeta.

Ma è nei film di Pasolini che questo curioso fenomeno diventa veramente imponente. In ‘Accattone’ compare, nella parte del giudice istruttore, Stefano D’Arrigo, quello di ‘Horcynus Orca’. In ‘Mamma Roma’ hanno parti importanti Paolo Volponi (il prete) e Elsa Morante (una carcerata). Francesco Leonetti e Gabriele Baldini compaiono in più film ma il vero boom è quello del Vangelo Secondo Matteo. Se Gesù è un giovane studente catalano, Enrique Irazoqui, e la Madonna anziana è la madre di Pasolini, Susanna, per il resto ci sono Alfonso Gatto, Enzo Siciliano, Natalia Ginzburg, Rodolfo J. Wilcock, Giorgio Agamben e Marcello Morante, fratello di Elsa. (Ve l’avevo detto che avrei fatto i nomi).

E giusto per completezza notiamo che ogni tanto Pasolini recitava in film d’altri, specie per Carlo Lizzani, in particolare il ‘Monco’ nel film ‘Il gobbo’ e questa parte di criminale ebbe un certo influsso su alcuni dei processi che dovette subire. Qualche anno dopo fu un leader contadino, Don Juan, nel western ‘politico’ Requiescant.

In effetti la presenza di letterati nei film di Pasolini è così pronunciata e abnorme da sembrare una specie di moneta di scambio nei ‘traffici letterari, politici e mondani’ di cui parlava Fortini. Tanto abnorme da portarlo alla bizzarra avventura de ‘La Rabbia’, il film documentario girato insieme al ‘destro’ Giovanni Guareschi, con l’idea di fornire due versioni opposte dell’attualità del 1963. L’avventura non finì bene: Guareschi nella sua metà se la prendeva con ‘comunisti’ e ‘omosessuali’ e Pasolini non la prese benissimo, così che il film venne ritirato dopo tre giorni. Però notate il dettaglio: mentre i narratori del segmento di Guareschi sono due doppiatori professionisti, in quello di Pasolini sono altri due del ‘giro’, Guido Bassani e Renato Guttuso…

Ma c’è un fatto più importante, a dimostrare lo stretto legame fra cinema e letteratura di qualità nell’Italia di allora: mentre gran parte dei romanzi importanti finivano sullo schermo, e basterebbe citare, oltre a tutti i Moravia e Pratolini, ‘Il Gattopardo’ di Visconti, ‘Il Pasticciaccio’ di Germi, il ‘Giardino dei Finzi Contini’ di De Sica, ‘La vita agra’ di Lizzani, i romanzieri più popolari e di massa, con l’eccezione di Guareschi, al cinema non ci arrivavano. Non ci sono film tratti dai romanzi di Liala, per dire. Il primo film tratto da un romanzo di Scerbanenco, il maggior precursore del giallo italiano, il genere letterario oggi dominante, arrivò solo nel 1969, l’anno della sua morte.

Proviamo a riassumere, pasticciando un po’ di sociologismi alla Niklas Luhmann: la Repubblica delle Lettere era un sotto-sistema autonomo, con sue proprie caratteristiche e istituzioni, di una moderna società funzionalmente differenziata come era e stava sempre più diventando quella italiana. Era in stretto rapporto di feedback con altri sistemi, come la politica, e sotto-sistemi all’ìnterno del più generale sistema dell’arte, come il cinema, ma aveva le sue specifiche regole interne ed era, appunto, autonomo. Era parte fondamentale del processo di ricerca del senso e della produzione e distribuzione del capitale simbolico necessario all’economia del prestigio.

Oggi che gli scrittori sono innumerevoli mentre i lettori paiono latitare e, soprattutto, ci sono molto meno soldi in giro, così che dove un tempo sopravvivevano di scrittura e collaborazioni giornalistiche anche scrittori di medio livello ora è un privilegio concesso solo ai bestselleristi più famosi, è d’uso lamentare, anche con ragioni, la prevalenza del marketing nelle decisioni editoriali, l’ascesa del cosiddetto ‘neoliberismo’, che ai tempi di Pasolini si usava chiamare ‘neocapitalismo’, ma anche quello che viene chiamato ‘amichettismo’, cioè l’incessante ricerca di appoggi, alleati, conoscenze e raccomandazioni necessarie a essere pubblicati e una volta pubblicati a essere considerati (io recensisco te e tu recensisci me, visto che oggi in genere le recensioni le fanno gli scrittori stessi e spesso quelli di uno stesso editore, lo stesso editore che non pubblica critiche contro i suoi autori perché danneggerebbe il brand) in un’economia dell’attenzione sempre più frammentata e in cui la lettura profonda, ma anche quella superficiale, dei testi deve competere con attrazioni elettroniche e digitali più facili e immediate.

Enzo Siciliano, che abbiano già incontrato fra i clientes di Moravia e Pasolini, aveva detto che l’Italia era ‘tutta un frou-frou di do ut des’. La frase pare risalga agli anni Novanta ma il fatto è che lo era sempre stata e lo era in particolare allora, durante quella che col senno di poi pare un’epoca d’oro di serietà culturale e meritocrazia. Se oggi sentir parlare di ‘salotti’ contro cui ribellarsi fa un po’ sorridere (a me poi da proprio fastidio) non è solo perché quei salotti, specie romani, non ci sono più, ma perché sono stati a lungo un presidio della qualità e un principio organizzativo importante della Repubblica delle Lettere. Se, ci pare oggi, emergevano i migliori, questo non dipendeva da un generico ‘merito’ riconosciuto da un altrettanto generico ‘pubblico’, ovvero dal mercato. Emergevano perché il sistema culturale-editoriale correva su un doppio binario, quello per cui Topolino e i gialli (o al limite i romanzi di Mario Soldati e Piero Chiara) permettevano a Mondadori di pubblicare autori ‘difficili’, selezionati e testati dalla critica autorevole e da funzionari editoriali ancora largamente provenienti dallo stesso ambiente (i ‘salotti’, in pratica) in un epoca in cui essere ‘difficili’ conservava un certo prestigio fra il pubblico e non era sempre e solo un suicidio commerciale e anzi, a volte poteva portare al best seller e al film di successo, e spesso a rientrare nell’investimento.

Come scrive Gianluigi Simonetti nel suo recente libro sullo Strega, nell’attuale sistema letterario ‘viene sostanzialmente esclusa la critica letteraria tradizionalmente intesa… i meccanismi consueti di smistamento, selezione e promozione dell’opera perdono significato quanto più acquista importanza l’attenzione a ciò che potremmo definire il contesto’ e quindi ‘si disarticola, di conseguenza, quel luogo canonico di mediazione e integrazione che è il salotto letterario; epicentro della Repubblica delle Lettere, sorgente di tanti premi della modernità otto-novecentesca…A lungo il salotto ha costituito uno spazio privilegiato d’incontro e influenza tra scrittori e società: il territorio in cui il potere prova a imporre la propria visione agli artisti (mentre assorbe l’energia di consacrazione e legittimazione che essi detengono); ma anche lo spazio dove gli artisti cercano di controllare le diverse gratificazioni materiali e simboliche che i poteri possono offrire loro…Il salotto letterario moderno, tra Otto e Novecento, prevede appunto il sostegno e la sponda dei grandi giornali, e della critica specializzata, nel dirigere il traffico degli scrittori e degli intellettuali consolidati o nuovi entranti nel campo letterario’ – proprio come fece con Pasolini negli anni Cinquanta.

I social oggi non funzionano allo stesso modo e non hanno le stesse potenzialità (del resto nelle comunità letterarie social, comprese quelle che si presentano come alternative al mainstream e puntano sulla letteratura di genere, specie di generi anglofoni come il fantasy, la fantascienza e il cosiddetto ‘weird’, il ‘frou-frou di do ut des’ pare ancor più frenetico e abbietto che nell’odiato mainstream). Abbiamo il Salone del Libro, che è un’ottima opportunità, proprio dal punto di vista umano, per conoscere o rivedere gente che si frequenta solo online, ma, di nuovo, non è la stessa cosa.

Insomma, c’è una contraddizione evidente fra il lamentare il peso dei ‘salotti’ oggi e provare nostalgia per un passato letterario favoloso in cui proprio i ‘salotti’ avevano un peso determinante. Posso essere un po’ cinico? Se oggi i ‘salotti’ ci fossero e sapessi dove stanno farei di tutto per poterci entrare: del resto per riuscire a farmi pubblicare non ho esitato a partecipare a un talent televisivo…

Comunque, quel sistema letterario s’è sfilacciato con gli anni e le protezioni critiche e corporative che accompagnavano una carriera letteraria (termine che all’epoca non sarebbe piaciuto per niente) non ci sono più o sono del tutto residuali, trasformando, secondo Tricomi, gli scrittori ‘in meri imprenditori di se stessi, in individui che solo al mercato chiedono il riconoscimento della propria esistenza… [e a cui] consegnano esclusivamente le loro opere e le loro firme, perché esso le trasformi in introiti e altresì ne attesti valore e credibilità’, così che, aggiunge Simonetti ‘lo scrittore è quindi indotto, per acquisire una posizione centrale nel campo letterario, a trasformarsi in perfomer, attivo su diversi fronti, abile su diversi tavoli, mediaticamente (e non solo) virtuoso’ – beh, che io sia dannato se a parte la storia del ‘virtuoso’ questo non è il nostro vecchio amico Pier Paolo Pasolini, così capace a inserirsi nei giri, così versatile nei generi praticati, così avido delle luci dei riflettori, quello che secondo l’amico/nemico Flaiano sarebbe ‘morto in odore di pubblicità’! E nulla mi toglie dalla testa che oggi Pasolini passerebbe un mucchio di tempo su Twitter e si farebbe bannare da Instagram un giorno sì e l’altro pure.

Quello che interessa a me, però, è non tanto il contesto socio-economico quanto quello più strettamente culturale del vecchio sistema letterario, la cui decadenza fa sì che, come ci ricorda Matteo Marchesini, ‘da decenni manca una lingua comune, quella che permetteva a Pasolini e Sanguineti di litigare capendosi’

Un sistema letterario integrato, oltre che in grado, in qualche modo, di fornire, in cambio della relativa difficoltà d’ingresso, una rete di protezione anche personale e un meccanismo che permettesse la creazione di una memoria condivisa, permetteva e a tratti persino incoraggiava la discussione interna. Abbiamo citato il poeta genovese Edoardo Sanguineti, una delle figure di riferimento dell’avanguardia letteraria nata proprio all’interno del Secondo Rinascimento, il Gruppo ’63. Non mi metterò a rifarne la storia, a parte citare alcuni dei nomi più importanti – Umberto Eco, Alberto Arbasino, Giorgio Manganelli, Nanni Balestrini, il futuro direttore di Rai3 Angelo Guglielmi. Ora, il Gruppo ’63 fu, legittimamente, visto come un’operazione di scalata a posizioni di potere editoriale e giornalistico, operazione con aspetti vagamente teppistici (tipo gli attacchi a Cassola, Bassani e Tomasi di Lampedusa, oltre che, in misura minore, a Moravia e a Pasolini stesso); un po’ meno legittimamente, come copertura ideologica del famoso ‘neocapitalismo’ citato in precedenza; accusato, secondo me a torto, di non aver prodotto opere ma solo teorizzazioni, provocazioni e se va bene satire; ma è un fatto che le loro teorizzazioni si inserivano in un discorso comune cercando di aggiornarne certi principi alla luce del nuovo paesaggio mediatico, cosa di per sé commendevole. Soprattutto si trattava di un discorso (e di una scalata) resi possibili da un contesto che considerava la letteratura ‘importante’ e quindi importanti le discussioni al suo interno, e si rifaceva, in modi diversi e a volte contrastanti, a una eredità condivisa.

Mutato il contesto i successivi tentativi di creare movimenti letterari furono sempre meno seri e sempre meno presi sul serio. Il lancio dei ‘cannibali’ alla fine degli anni Novanta, una fortunata iniziativa commerciale presa sul serio da qualche critico convinto di dover stare dietro al ‘nuovo’; l’idea del New Italian Epic, lanciata dai Wu Ming nei primi anni Duemila, niente più che un tentativo di marchiare del territorio; la Generazione TQ (Trenta Quaranta) nei primi anni Dieci, intorno a scrittori come Christian Raimo e Giorgio Vasta, che pose il problema del peggioramento delle condizioni di vita e lavoro di chi lavorava nell’editoria ma esteticamente non aveva molto da dire e sparì subito; fino alla patetica farsa degli Imperdonabili, un ‘movimento’ lanciato nel 2019 dal Fatto Quotidiano e poi finito nell’indifferenza o nei No Vax.

Nel suo famoso articolo sul Processo al Palazzo, proprio subito dopo l’’Io so. Ma non ho le prove’ Pasolini dice una cosa viene meno citata: ‘Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero’. Io so perché sono un intellettuale: come vi suona oggi? Del resto, parlando con Monelli del famoso processo per la rapina a mano armata, Pasolini si indigna sulla decadenza dei tempi e si chiede ‘se la parola d’un ragazzo qualunque debba valere più di quella di uno scrittore’. Già, anch’io.

Qual è la spiegazione di una simile trasformazione? Non ne so nulla, e non sono ansioso di saperlo’, disse Paul Veyne nel suo capolavoro ‘I greci hanno creduto ai loro miti?’. E se questo vale per il passaggio nell’età classica da una concezione naturalistica degli Dei a una moralistica questo può valere anche per il passaggio da uno stato in cui l’opinione degli intellettuali conta perché questi godono di un certo prestigio istituzionale a una in cui questo prestigio non c’è più e quindi anche l’opinione più profonda, informata e intelligente cade nell’indifferenza generale e gli intellettuali, di nuovo seguendo un malinteso esempio pasoliniano, si mettono a rincorrere i media dando addosso ai politici, cioè un esercizio a rischio zero, talmente zero da obbedire alla logica dei rendimenti decrescenti.

Perché sia successo non lo so, che sia successo non ne dubito, e comunque, secondo me, se il tracollo definitivo è avvenuto solo nel XXI con Internet, l’inizio della fine era stato in quegli anni Settanta tagliati a metà dalla morte di Pasolini. Vi ricordate cosa diceva il vecchio maestro di boxe secondo cui il declino della boxe non dipendeva dalla mancanza di campioni ma dalla mancanza di interesse della gente e che se ci fosse stato l’interesse ci sarebbero stati anche i campioni? Più o meno la stessa cosa che disse Voltaire, cioè che le streghe avevano smesso di esistere quando s’era smesso di bruciarle – e il giorno in cui ci crederemo di nuovo le bruceremo di nuovo e pure in diretta streaming.

Da un lato l’accresciuto radicalismo politico, che il Partito Comunista, mai pienamente accettato ma a suo modo affidabile, sembra non riuscire più a controllare, tanto che gli studenti tirano i pomodori sulla pelliccia alla prima della Scala e costringono alla fuga il leader dei sindacati; dall’altro la piena accettazione del modernismo letterario che a questo radicalismo politico si dice alleato (vedi ‘I Quindici’, la rivista del Gruppo ’63, che nel 1968 mette in copertina un ‘Forza Giap!’ che sa già di futuro) e quindi di una letteratura e di un’arte che rifiutano il loro ruolo all’interno dei meccanismi della distinzione: beh, alla fine è andata che le buone sciure milanesi, quelle che s’erano vestite bene per andare al Piccolo a vedere il Brecht e il Beckett messi in scena da Strehler, pure convinte che facesse chic l’aver letto il Proust o almeno fingere credibilmente d’averlo letto (come tutti, avranno letto solo il primo volume), si sono sentite tradite. Non solo vogliono fare la rivoluzione ma anche farci leggere della roba noiosa, che non ci si capisce niente… Detto più seriamente, quel genere di borghesia colta cui si rivolgeva la letteratura meno commerciale e l’arte ancora detta d’avanguardia, comincia a perdere interesse e improvvisamente il salotto si svuota, tutti hanno altri impegni e il buffet è sempre peggio… e scrittori capaci di autoconvincersi di parlare al ‘popolo’ non possono più nascondersi che il loro pubblico era tutto borghese, proprio nel momento in cui se ne va…

Ci sono numerosi eventi che nel corso degli anni Settanta puntano alla disarticolazione del sistema letterario, alcuni puramente stilistici o critici. Ne cito solo, tra i tanti, tre.

Nel 1974, il fiasco del capolavoro annunciato ‘Horcynus Orca’ di Giuseppe D’Arrigo, il Giudice Istruttore di Accattone, che avrebbe dovuto essere l’Ulysses del Novecento italiano, il capolavoro modernista ma al tempo stesso radicato nel passato e in un’Italia ancora neorealista, la Calabria del 1943. Malgrado tutta la potenza di fuoco della Mondadori, non raggiunge il suo pubblico (e non lo raggiunge nemmeno una recente ristampa) e rimane un feticcio per una piccola setta di fanatici: è un romanzo enormemente ambizioso, estremamente letterario e ben poco cordiale coi lettori. La cosa non è subito avvertita, forse, ma questa rappresenta per l’Italia la campana a morte del romanzo ‘sperimentale’.

Lo stesso anno invece un romanzo che ha in comune con quella di D’Arrigo l’ambientazione nella Seconda Guerra Mondiale (inutile, si torna sempre lì) diventa  un clamoroso best seller: La Storia, di Elsa Morante, la prigioniera di Mamma Roma e la moglie separata di Moravia. È proprio il successo sproporzionato per il romanzo a provocare critiche e malumori in buona parte dei letterati italiani. Moravia, per ovvi motivi, tace; Pasolini non è soddisfatto – ‘manierismo’, ‘decadentismo’, ‘elementarità disarmante’; ma è Calvino a rivelare l’inconfessato segreto: La Storia è un romanzo che ha come ‘primi lettori proprio i non lettori’ ma se far ridere il lettore o fargli paura sono oggi ‘procedimenti letterari onesti, farlo piangere no’. Una grossa parte dell’esperienza umana, scopriamo, è artisticamente ‘disonesta’: segnamocelo.

Infine nel 1980 Umberto Eco, che aveva esordito come vate dell’avanguardia più radicale, uno che nel suo primo saggio importante, Opera Aperta (1962), aveva applicato all’arte le nuove teorie cibernetiche (che facevano molta impressione), irridendo il declinante crocianesimo e pagando solo un rispetto formale alle teorie marxiste, pubblica un altro best seller, stavolta mondiale, ‘Il nome della rosa’, che si rivela essere il miglior romanzo giallo di tutti i tempi, favolosamente leggibile malgrado le vagonate di erudizione, e che sdogana una volta per tutte la narratività e pure il successo come compatibili con la letteratura ‘seria’, tanto che gli danno subito lo Strega, al primo romanzo. Non sarà grande letteratura ma that’s entertainment!

Intanto, fuori, negli anni Settanta, fra una cosa e l’altra, si spegneva qualsiasi credibile (ma anche incredibile) ipotesi di cambiamento radicale della società italiana quando i rivoluzionari accertarono una volta per tutte che gli altri erano più forti.

Il cinema italiano, in compenso, entrava in quella crisi da cui non s’è più ripreso, crisi artistica ma anche e forse soprattutto produttiva. All’inizio del 1970 c’erano a Genova 82 cinema in attività, divisi in Prime Visioni, Prosecuzioni, Seconde Visioni, Altre Visioni e Delegazioni (cioè periferia); alla fine del decennio erano quasi dimezzati, 49: sparite le Seconde Visioni erano comparsi Cineclub e Cinema d’Essai, per quei film non più in grado di sostenere una normale visione commerciale. Nel mio quartiere nel 1970 ce n’erano tre in duecento metri: il Supercinema (Seconda Visione), l’Alba e il Capitol (Altre Visioni). Erano cinema in cui si entrava e usciva quando si voleva, anche a metà film, e si fumava pure. Nel 1980 era rimasto solo il Supercinema, che però ora si chiavama SuperSexyMovie.

Generalmente si dà la colpa alla televisione e in effetti gli anni Settanta vedono l’inizio dell’espansione televisiva: non sola la Rai aggiunge un terzo canale e nascono le prime tivù private, all’inizio rigorosamente locali, ma tivù straniere in italiano – TeleMontecarlo, Capodistria, Svizzera – possono trasmettere sul territorio nazionale. Questo basta a mandare in crisi il cinema. Ma la letteratura? Alla televisione si dà la colpa di tutto, è un villain multiuso: in una recente ristampa del 1984 di George Orwell, quella di Sellerio con la bella traduzione di Tommaso Pincio, c’è un televisore in copertina anche se nel romanzo praticamente non c’è (come non ci sono i computer, già che ci siamo, altro inesistente tormentone orwelliano) mentre ci sono i giornali, il cinema e la radio. Ora, l’ostilità di Pasolini per la televisione è fin troppo nota, comune praticamente a tutti gli intellettuali di una qualche importanza del secondo Novecento (pochissimi, tipo Umberto Eco, che in tivù lavorò, hanno una posizione più sfumata). Sue citazioni contro la nefasta influenza della televisione sono comunissime online (oh, l’ironia!) ma per indicare l’unanimità del disprezzo e del timore preferisco citare il titolo e sottotitolo di un articolo del nostro vecchio amico Paolo Monelli per ‘La Stampa’ del 1953: ‘SPERAMMO INVANO CHE IN ITALIA LA TELEVISIONE NON SI AVVERASSE MAI – Lo zelo degli italiani nell’adottare le novità – La moda sgarbata delle radio portatili, il neon spettrale – Si chiede un po’ di tregua in attesa della fine del mondo – Inutile illudersi: s’avanza la società dei meccanizzati e dei conformisti – In ogni casa uno schermo, subdolo strumento di dittatura dello spirito’.

(poi, tornando alla letteratura, il periodo di predominio della televisione, all’incirca dai primi anni Cinquanta ai primi anni del XXI secolo, coincide con un’industria editoriale florida e pure in crescita: il crollo o almeno il declino, che quella del libro è ancora l’industria culturale più florida d’Italia e d’Europa, arriva con la Rete, che avrebbe dovuto salvarci dal ‘barbaro dominio’ della televisione. Già. Del resto nella prima metà del Novecento, senza la televisione, giornali, cinema, telefono e radio erano stati più che sufficienti a organizzare due guerre mondiali e un certo numero di genocidi di massa oltre che a varie dittature e una spettacolare Grande Depressione – ma che Grande Arte, in compenso!).

Insomma, armati di un perfetto all-purpose Villain, la televisione, e giustamente cauti nel parlare criticamente di un villain più recente che sanno essere pericoloso ma che usano come strumento di lavoro, la Rete, gli scrittori affrontano un mondo oscuro e frustrante in cui è difficilissimo essere pagati, un miraggio vivere di scrittura e un’impossibilità di principio poter essere importanti, vista la distruzione di tutti gli enti di intermediazione eccetto quelli che si sono inseriti, a volte sorprendentemente nel nuovo sistema mediatico, come il Premio Strega. Per dire, chi avrebbe pensato, cinquant’anni fa, nel 1973, che il Festival di Sanremo e il Premio Strega sarebbero stati nel 2023 più importanti che mai sia per l’industria musicale che per quella editoriale?

Nel suo libro sullo Strega Gianluigi Simonetti è giustamente severo nei confronti di alcuni recenti vincitori e non è una severità gratuita perché servita da un’analisi testuale precisa e piuttosto approfondita, non pregiudiziale. Costruisce la categoria del romanzo di ‘nobile intrattenimento’ – cioè romanzi scorrevoli, ben intenzionati, senza spigoli ma senza eccessive concessioni alla cultura di massa  (notoriamente, lo Strega non premia i gialli, cioè i romanzi che gli italiani effettivamente leggono) ma che prendono a prestito, annacquandoli, gli stilemi della letteratura ‘alta’ per un pubblico più pretenzioso che preparato e più moralista che curioso, parente di quel ‘best seller di qualità’ di cui parlava Gian Carlo Ferretti molti anni fa riferendosi a Eco, Morante e Calvino, e ancor più indietro al Midcult di Dwight McDonald. Quella famosa e brillante polemica dei primi anni Sessanta indicava come nemico della ‘cultura alta’ non solo il Masscult destinato alle masse (Hollywood, fumetti, romanzi di genere, rock’n’roll – insomma, tutto quello che piace a noi prolet) ma soprattutto il Midcult, cioè prodotti commerciali destinati a un pubblico che desidera pensarsi colto e pensoso ma senza troppo sforzo, che fingono la difficoltà e l’impegno della ‘cultura alta’ che è per principio ‘difficile’, se no non sarebbe ‘alta’, cioè fuori portata delle masse e dei filistei, insomma ‘distinzione uber alles’.

La polemica di MacDonald è tanto brillante quanto preda di pregiudizi d’epoca non esaminati. Considerando come ‘alta cultura’ le avanguardie storiche del Novecento che si stavano lentamente esaurendo, MacDonald definisce quindi il Modernismo,  attraverso i suoi maggiori e ormai canonici esponenti, Stravinskij, Picasso, Joyce, Eliot e F.L. Wright (niente sorprese, eh?), come un ‘atto di volontà dettato dalla necessità (la necessità di sopravvivere come creatori, anziché come tecnici), [in cui] ciascuno di essi respinse la tendenza storica della cultura occidentale posteriore al 1800 e ricreò l’antica, tradizionale situazione in cui l’artista comunicava con i suoi pari anziché rivolgersi agli inferiori’. (Ho controllato l’originale: dice proprio ‘inferiors’).

Grazie, Dwight, è sempre un piacere. Ci sentiamo. No, guarda, chiamo io.

Comunque, il problema, negli anni Settanta, per la letteratura italiana ‘seria’ non fu tanto la diserzione degli ‘inferiori’, persi fra televisione, discoteche, campeggio al mare e tutte quelle donne improvvisamente a disposizione che tanto irritavano Pasolini, ma quella della classe colta e benestante che l’aveva sostenuta fino a quel punto. MacDonald e tanti altri ancor oggi sono convinti che il problema sia il mercato e la necessità di abbassare il minimo comun denominatore per attirare più gente possibile ma guardate il destino delle arti visive, che ora sono un puro mercato proprio grazie al fatto che il pubblico di massa vero e proprio è stato da tempo escluso dall’equazione. Opzione aperta per le arti decorative ma chiusa per gli scrittori e chi pratica arti narrative.

Torniamo al libro collettivo sulla ‘cronaca giudiziaria, persecuzione e morte’ di Pasolini. Se la prima parte racconta in dettaglio la persecuzione giudiziaria e politica e resta una lettura impressionante, la seconda, in cui una serie di intellettuali impeccabilmente borghesi proclama a gran voce la responsabilità della ‘borghesia’ nella morte del poeta e chiede giustizia, smentisce polizia e magistratura, ricostruisce trame e complotti fascisti, e se la prende col PCI per non aver difeso abbastanza il povero Pasolini e in genere per non essere abbastanza rivoluzionario, risulta oggi una lettura impressionante ma in senso molto diverso. Tanto per capirci: gli interventi raccontano un’Italia in cui le Brigate Rosse non esistono.

Proprio in fondo al libro c’è un momento di verità straordinario e che a me pare un indizio determinante per l’idea che sto tentando abbozzare. In pratica l’editore che aveva pubblicato Pasolini fin dagli esordi e l’aveva sempre sostenuto, Livio Garzanti, interviene in prima persona per dissociarsi dal libro che ha appena pubblicato.

‘Nell’amicizia, ritengo autentica, con Pasolini, io ho sempre tenuto le distanze per un naturale rispetto verso l’uomo, che sapevo quanto fosse seducibile anche da povere manifestazioni d’affetto e perché non volevo che la posizione equivoca dell’editore compromettesse la mia sincerità. Una sincerità che mi è costata. Ora desidero tenere le distanze anche da questo libro che promosso dalla furia d’amore e di dolore di Laura Betti, raccoglie scritti di diversissimo tono e di impegno critico diverso’. Il resto delle due pagine è strano, persino enigmatico, incerto fra la rivendicazione della fedeltà all’autore e bizzarre richieste d’aiuto al PCI, e si conclude con una frase commovente e inquietante: ‘Per quanto grande sia stata la persecuzione, io non mi credo corresponsabile dei mandanti di Pelosi e dei suoi complici. Non mi pare che fosse buona la religione di chi andava dicendo “Gesù lo abbiamo ucciso tutti noi”’.

Giusto per fare un esempio apparentemente distante: poco più di dieci anni prima, nel 1963, c’era stato un grosso scandalo al Premio Viareggio, all’epoca prestigioso e che comportava un ricco premio in denaro. Una giuria stellata – Pasolini, Moravia, Montale, Ungaretti, Zavattini, Giacomo Debenedetti… – aveva deciso di conferire il premio a Guido Piovene per il suo nuovo romanzo, ‘Le furie’. A quel punto lo sponsor che ci metteva i soldi, Arrigo Olivetti, aveva detto no: Piovene non era stato solo fascista – chi è senza peccato… – ma anche pesantemente e crudamente antisemita – cosa questa un po’ meno comune fra i letterati italiani – e questo era troppo. Il premio dateglielo pure, disse in pratica Olivetti, ma con i vostri soldi. Ci furono grosse polemiche, proseguite poi sulla stampa per settimane, e alla fine il premio fu assegnato, postumo, a Antonio Delfini, un simpatico scrittore per scrittori che in vita non aveva fatto male a una mosca.

Insomma, non con i miei soldi. Garzanti sembrava echeggiare Olivetti.

A questo punto, per tornare a Pasolini, dobbiamo parlare di Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes, 1917-1994), che non solo è una figura pivotale della cultura italiana del dopoguerra, anche se difficilmente ne avrete sentito parlare e quasi certamente non l’avete letto (a meno di non aver fatto Lettere all’Università), ma anche l’interlocutore privilegiato del nostro protagonista. Poeta e critico, la fama e l’importanza di Fortini sono quasi interamente interne al sistema, sia pure fieramente indipendenti. Fu anche importante nella nascita della Nuova Sinistra, fra gli anni Cinquanta e Settanta: marxista per nulla organico se non alla sua idea di rivoluzione, fu la coscienza critica di tutta quell’area culturale e politica che si riteneva, più o meno credibilmente, parte della ‘filosofia della prassi’ ma la sua filosofia e prassi politica erano talmente rigorose e anti-demagogiche da rivelarsi in ultima analisi auto-sabotanti. Finì completamente isolato, sopravvissuto alla fine del marxismo ‘serio’ come credibile alternativa allo stato di cose esistente, ma dotato comunque di un notevole prestigio che non è del tutto scomparso, non solo nell’Accademia ma anche presso i rari critici autentici ancora in attività.

Tale era il prestigio della cultura e tale era il prestigio di Fortini all’interno di quella cultura che, per esempio, nel 1968, gli viene affidato, dall’Ansaldo, il compito di scrivere il testo di un breve film – ‘Una strada d’acciaio’ – che celebra la costruzione da poco terminata della Sopraelevata di Genova. Fortini, oltre che per Olivetti, come altri letterati italiani come Paolo Volponi, Giovani Giudici e Ottiero Ottieri, lavorò anche come copy per un’agenzia pubblicitaria: pare sia suo il leggendario, ai tempi, slogan del Chinotto Neri: ‘Bevi Neri? NE RIBEVI!’ e no, non lo sto prendendo in giro, anzi, lo trovo ammirevole. Fortini con le parole lavorava e sapeva distinguere da quelle in vendita, le parole di un tecnico delle parole, da quelle che in vendita non dovevano essere.

Devo dirlo, io personalmente mi sento estraneo a uno come Fortini e al suo modo di intendere la letteratura e la politica: si sarà capito che mi trovo molto più a mio agio con un tipo come Monelli o, per fare un esempio un po’ più nobile, con la saggistica di Alfonso Berardinelli, che aveva cominciato come fortiniano per poi sviluppare uno stile più suo – ‘il saggismo scettico, la conversazione media ed elegante, la critica degli estremismi esoterici’, come lo riassume Matteo Marchesini – e criticare il maestro, ma se paragono le ‘Ombre Cinesi’ di Monelli, che ho usato finora come repertorio di esempi, con la maggiore raccolta di saggi letterari di Fortini, ‘Verifica dei poteri’, uscita nello stesso anno, il 1965, beh, è un paragone impietoso, è proprio un campionato diverso, fra quello che è un intelligente e acuto intrattenimento ma non più di quello, e un analisi che da l’impressione di chiamare il mondo e noi tutti individualmente a giudizio, un giudizio che può contemplare la redenzione e forse anche la pietà ma non la clemenza (e niente, sono quel che sono: Fortini lo ammiro, e molto, ma sto con Monelli. Il mio campionato, se va bene, è la B. Pazienza).

Fortini, però, aveva anche un discreto senso dell’umorismo ed è uno dei grandi aforisti italiani del XX secolo: aveva quello che Andrea Pinketts avrebbe definito ‘il senso della frase’. Basti pensare all’incipit memorabile dell’introduzione al libro in cui, poco prima di morire, raccolse i suoi scritti su Pasolini: ‘Aveva torto e io non avevo ragione’.

Di tutti i critici di Pasolini Fortini era il più spietato ma anche il più rispettato da Pasolini stesso, questo anche se Fortini poteva dedicargli versi come questi del 1963:

Ormai se ti dico buongiorno ho paura dell’eco,
tu, disperato teatro, sontuosa rovina.
Eppure t’aveva lasciata, il mio verso, una spina.
Ma va’ senza ritorno, perfetto e cieco.

Le polemiche in versi fra i due non hanno molti paralleli nella letteratura moderna, non solo italiana.

Non imiterò che me stesso, Pasolini.
Più morta di un inno sacro
la sublime lingua borghese è la mia lingua.
Non conoscerò che me stesso
ma tutti in me stesso. La mia prigione
vede più della tua libertà.

Mentre in questi versi del 1956 è dubbio se Fortini si riferisca a Pasolini o a sé stesso o a entrambi, per quella vocazione al martirio che in fondo avevano in comune.

Schema di perfetta catastrofe, arcangelo orgoglioso,
odia, ama, va’, straziati, enfio di siero represso.
Troppo ti piace il martirio, il miracoloso
sketch del Calvario dove coroni te stesso.

(Fortini aveva anche altri bersagli, ben inteso, tipo ‘Cinico bimbo va Calvino incolume’).

Nel volume collettivo sulla persecuzione di Pasolini l’intervento di Fortini è impressionante. Mentre gli altri, come dire, ‘are busy emoting’ e denunciano tutti, i fascisti, la magistratura, la polizia, i fascisti, ma soprattutto quella borghesia alla quale, a occhio, direi appartengono tutti, Fortini, con un tono di voce gelidamente marmoreo e che al tempo stesso sembra trattenere un’emotività ancor più forte di quella degli altri, è l’unico a parlare dell’elefante nella stanza: i ragazzi e la loro eventuale corruzione, cioè il motivo per cui Pasolini era in giro alla periferia di Roma quella notte di novembre del 1975.

Ovvio che gli altri autori non ignorano l’omosessualità di Pasolini, come potrebbero? Sono tutti tolleranti e contrari alla classica ‘omofobia’ borghese (i proletari no, eh?), fascista e cattolica. Mettiamo pure che l’odio della ‘borghesia’ per Pasolini dipendesse molto dalla sua ostentata omosessualità e che fosse quindi causa del suo omicidio. Quel che per i bravi letterati che spaventarono Livio Garzanti è assolutamente certo è che non c’era nulla di men che corretto nelle pratiche erotiche di Pasolini.

Per Fortini questo non basta e va al cuore del problema. Non c’era corruzione nella sua opera, questo è chiaro: ‘L’accusa di corruzione (socratica) indirizzata alla sua opera è insomma un rozzo errore. Altra questione è quella biografica’. Nel modello platonico dell’amore la disparità di condizione fra amante (adulto) e amato (adolescente) è colmato dalla funzione educativa: quando c’è questa, ed educazione equivale a cambiamento, allora non c’è corruzione. ‘A me sembra che il senso negativo della corruzione (ossia del comportamento che induce a dissolvere una qualità di legami preesistenti) si dia quando alla relazione che induce tale dissolvimento succede la interruzione della relazione stessa. Ossia lo stato della solitudine; del “corruttore” e del “corrotto”’. Il male della seduzione sta nel fatto che il sedotto viene poi abbandonato al suo destino dopo essere stato usato, e questo è possibile perché la relazione è sempre ineguale, rispecchia un rapporto di potere. ‘Fra eguali non si da corruzione’ e non ci sono relazioni sessuali fra uguali nella vita di Pasolini: ci va vicino con Ninetto Davoli e i fratelli Citti, la cui vita è difatti cambiata in meglio, ma poi il resto, compresi i ragazzi africani e indiani raccattati lungo la via, fu abbandonato con una certa disinvoltura. Se vi ricordate, nel primo articolo parlavo di come agli occhi di un ansioso ma ben disposto lettore adolescente il rimpianto per  questa ‘disponibilità’ da parte degli ‘inferiori’, così rigorosamente e ferocemente asimmetrica, avesse fatto una pessima impressione, non potendo far altro che identificarci nei presi e usati e non certo in quelli che oggi vengono etichettati come ‘predatori sessuali’.

‘Ci sono dichiarazioni di Pasolini, in prosa e in versi, insistenti sul fatto che la casualità, reale o fittizia del partner, l’estraneità dell’incontro e la reificazione dell’altro, la sua riduzione a mero corpo (momenti ineliminabili da qualsiasi rapporto erotico) erano per lui condizione “normale” del suo piacere. E che l’elemento pedagogico o socratico – inseparabile da ogni rapporto amoroso – era o ridotto al minimo o inesistente o, se c’era, tendeva a dissociarsi dalla mozione erotica’. Ecco.

Per Fortini questo è vero ma non basta. ‘La norma che gli era necessario violare non era, o non soltanto, quella dell’eterosessualità ma quella, ben profonda, del “bene” ossia del riconoscimento di una eguaglianza (cristiana o kantiana) con l’altro. Il sentimento di colpa, quindi, era un sentimento di colpa di classe, tanto più inestinguibile quanto più fingeva di mascherarsi nella immediatezza, nella uguaglianza naturale. Sentimento di colpa che doveva di necessità ingigantirsi quando, col passare degli anni, cadevano le illusioni giovanili dell’eguaglianza naturale e, prima di vedere se stesso come un privilegiato di oltre cinquant’anni che pagava dei prostituti, vedeva gli altri come non aveva voluto vederli prima, e cioè come dei cinici piccoli borghesi senza identità’.

Non credo si possa essere più taglienti e precisi di così, anche perché Fortini, di Pasolini, si considerava e era, a suo modo, amico. Inoltre era sempre morale ma mai moralista. Il ragionamento prosegue, estremamente complesso nella sua brevità aforistica (trovatelo e leggetelo, vi prego), e mette in relazione questo ritratto al tempo stesso pietoso e impietoso con la persecuzione giudiziaria e le fonti interiori della sua poesia, che per Fortini è più che degna di essere letta e amata (senza rinunciare nel caso a una critica spietata, ovvio). Pasolini andava inquadrato nel contesto dell’’estetico porcile dell’Europa moderna’ poiché ‘prima che “corruttore” egli era stato, come tanti di noi, un “corrotto” e una vittima’, Per questo, quindi, ‘più dell’immagine di Pasolini assassinato mi gravano i suoi libri e l’immagine dei suoi assassini, che sono vivi, e la domanda su quel che saremo domani loro e noi, ancora vivi, con loro’.

(Breve pausa di silenzio).

Ok, non so voi, ma a me ha fatto un monte di bene. Non riuscivo a scrivere così tanto da almeno due anni e direi che il blocco dello scrittore è passato. Inoltre, mi ha fatto bene mettere nero su bianco non solo un po’ di erudizione, che quella non è mai stata il problema, ma anche qualche idea, in base al noto principio del ‘scrivo per sapere cosa ne penso’. Spero anche di avervi fatto scoprire qualche aspetto di quella tradizione letteraria italiana a cui, volenti o nolenti, apparteniamo tutti (mettiamolo in chiaro: non si diventa scrittori italiani solo con i fottuti romanzi americani in traduzione).

Un paio di considerazioni finali, giusto per annodare qualche filo. La Mutazione Antropologica c’è stata, e questo è un fatto. Non ha senso leggere Pasolini come se fosse qualcosa da combattere per impedirla in un più o meno remoto futuro. Oggi se vuoi ancora quei rapporti sessuali asimettrici cui tieni tanto devi pagare senza tante storie, esattamente come dovrebbe essere pagato il giusto il lavoro precario, compreso quello editoriale.

Il ritorno al passato, detto alla buona, ha portato sempre e solo disastri, ogni volta che si è trasformato in un programma politico. Il rimpianto pasoliniano del mondo contadino, così puro e disponibile, se va bene si risolve in agriturismo, città d’arte, piste ciclabili e zone pedonali, tutte cose buone e giuste – non ci si rende conto di quanto orribili fossero diventate le città italiane negli anni Settanta e di quanto più belle siano oggi, anche in questa fase di declino nazionale – ma ben lontane dalla radicalità del suo pensiero, e meno male, perché quella radicalità è facilmente appropriata oggi dai movimenti reazionari, sovranisti e turbocapitalisti, perché Pasolini, come ci ricorda Walter Siti, non era davvero una alternativa al consumismo ma un suo luminoso quanto involontario esempio. Quindi trattiamolo da profeta con le debite cautele.

C’è stata la Mutazione e c’è stata, per quelli di noi che scrivono, la dissoluzione della Repubblica delle Lettere (e del cinema) che permise a Pasolini di prosperare e che permetteva ai più forti di entrare nel Canone che difatti è rimasto praticamente fermo a lui e alla sua generazione. S’è rotto il meccanismo che garantiva un cursus onorum e un linguaggio comuni e quindi è ancora possibile diventare famosi ma non più diventare importanti.

E niente, ce ne facciamo una ragione e andiamo avanti, provandoci comunque, perché starcene lì a rimpiangere dei bei vecchi tempi puramente immaginari dove contava il ‘merito’ invece dei salotti non fa bene né a noi né ai nostri libri… Qui potrei tranquillamente tirare fuori altri 30000 caratteri spazi inclusi ma non è il caso… Mi limito a una indicazione: quando Simonetti giudica negativamente il ‘nobile intrattenimento’ della letteratura italiana mainstream ha ottime ragioni ma una cosa bisogna dirla: quella letteratura ha un suo pubblico, mediocre quanto vogliamo ma ce l’ha. Una letteratura migliore deve in qualche modo riconnettersi a un pubblico altrettanto di massa e non rimpiangere il consenso critico di una volta. Gli artisti che si rivolgono agli altri artisti, come voleva MacDonald? Ci siamo già ed è un inferno. Vorremmo tanto uscirne, please. I generi non sono una vera via d’uscita, dato che, eccetto il giallo e il rosa, un loro pubblico italiano non riescono ancora a agguantarlo. Il problema da risolvere resta quello del pubblico e l’unica cosa da fare e scrivere e scrivere ancora a fare in modo che ci senta e che gli piacciamo abbastanza da fargli tirare fuori i soldi del libro. Se no i ricchi di famiglia o quelli col posto fisso scriveranno per la gloria e morta lì, anche se non sottovaluterei il ritorno della figura del mecenate, dato che non mi aspetto risacralizzazioni del ruolo di scrittore a tempi brevi.

E quanto a Pasolini, che qui abbiamo usato come pivot attorno a cui far girare delle storie – beh, sarebbe il caso, come sempre, di uccidere il Buddha quando lo incontri sulla tua strada, e leggere quanto di lui è ancora vivo e leggibile, qualcosa che si possa leggere senza quello che oggi chiamiamo ‘cringe’.

‘La società pre-consumistica aveva bisogno di uomini forti, e dunque casti. La società consumistica ha invece bisogno di uomini deboli, e perciò lussuriosi. Al mito della donna chiusa e separata (il cui obbligo alla castità implicava la castità dell’uomo) si è sostituito il mito della donna aperta e vicina, sempre a disposizione. Al trionfo dell’amicizia fra maschi e dell’erezione, si è sostituito il trionfo della coppia e dell’impotenza’.

Ecco di questo Pasolini a metà strada fra Diego Fusaro, Jordan Peterson e i forum incel non ne voglio sapere, specie dopo aver accertato gli interessi, come dire, materiali dietro questa visione della vita. O almeno voglio avere il diritto di discuterlo senza doverlo accettare come Fonte della Verità.

In una delle ultime cose che scrisse, nelle incompiute ‘Lettere Luterane’, Pasolini scrisse una cosa notoriamente controversa. Qualcuno gli aveva fatto notare che nell’Italia contadina e pre-moderna che lui tanto amava c’erano elevatissimi tassi di mortalità infantile, tassi che oggi non esistono assolutamente più. La mortalità infantile è considerata una brutta cosa un po’ ovunque, a destra come a sinistra, a nord come a sud. Eppure Pasolini sostiene che quei morti erano in qualche modo ‘naturali’ e che il vero problema era che oggi non morivano più ma con il loro istinto di morte ammorbavano la società. ‘Essi sono dunque dei sopravvissuti, e nella loro vita c’è qualcosa di artificiale, di ‘contro natura’. Lo so bene che dico cose terribili, e anche apparentemente un po’ reazionarie’.

Lo pensava davvero? Avrebbe sviluppato, e come, questa intuizione? Oppure era una di quelle cose che ti vengono mentre scrivi e di solito le cancelli o non ci torni più ma ovviamente non possiamo saperlo. Quello che chiedo è solo il diritto, dal mio punto di vista di oscuro scrittore semi-fallito, di dire che mi pare un po’ una ‘boiata pazzesca’ senza sentirmi dire che io, verme che sono, ho infangato la memoria di un gigante. Siamo d’accordo, spero?

Ma poi alla fine cosa ne resta, almeno per me?

‘Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti pragmaticamente se non ancora nella coscienza, modernissimi: e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene’.

Ecco, depurato di quegli elementi troppo personali e troppo datati, questo a me pare un programma ancora valido e degno di essere portato avanti.

E in linea generale per me uno che a poco più di 20 anni, nel tormentato 1943, riesce a scrivere questo è degno di essere studiato con attenzione. Senza sconti e senza miti ma con molta attenzione.

‘Ogni immagine di questa terra, ogni volto umano, ogni battere di campane, mi viene gettato contro il cuore ferendomi con un dolore quasi fisico. Non ho un momento di calma perché vivo sempre gettato nel futuro: se bevo un bicchiere di vino, e rido forte con gli amici, mi vedo bene, e mi sento gridare, con disperazione intensa e accorata, con un rimpianto prematuro di quanto faccio godo, una coscienza continuamente viva e dolorosa del tempo (…) la mia esistenza è un continuo brivido, un rimorso, o nostalgia. Ho passato perfino un’ora intera a guardarmi le mani, perché sono stato preso dallo scrupolo che in punto di morte l’uomo sa che mani ha avuto: si è sempre rassegnato ad averle, si è troppo abituato a esse; non pensa che fra le infinite mani, quelle sono le sue’.


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