Esther

di Alessandro Fratta Pasini
Copertina di Julio Armenante

Di Lea F.

Nella semioscurità, lungo sconfinati corridoi e pareti e mura di calcare, tra meandri che non hanno fine, attraverso vie anguste e piccoli chiostri, inseguendo una ragazza dai capelli corti, mentre svolta poco avanti, distante, non raggiungibile, accelerando il passo e persino correndo, percorrendo scalinate in salita, in discesa, svolte, porticati, portoni di legno massello, distese di pietre angolari, iscrizioni in latino, in inglese, e infine un giardino, una collina, un terreno alberato che al centro rivela una gradinata, in cima c’è una piccola terrazza che affaccia sul… nulla. Non mi ricordo nulla. Non ricordo la stanza né questo letto.

Mi alzo sui gomiti. Guardo intorno ancora in dormiveglia. Piante grasse, disegni sulle pareti, tazze sparse ovunque. Noto il corpo disteso vicino a me, la carnagione più scura della mia, i tatuaggi blu. Rune, sigilli, un polpo sul ventre coi tentacoli che risalgono tra i seni a formare una collana all’altezza delle clavicole. Intorno alla coscia sinistra, un nastro di fate e funghi. Mi avvicino per osservare i dettagli iperrealistici, i volti familiari e simili tra loro.


Ci siamo conosciute a febbraio a Jericho. Le avevo notate già da un po’, le guardavo incuriosita da dietro al bancone, parlavano dei mercatini delle pulci, dei nuovi album e dei festival locali. C’è qualcosa di singolare in loro, la sorprendente somiglianza forse, ma non sono gemelle. Hanno capelli castani, corti, tratti delicati. Voci sussurrate e sguardi intimoriti o spavaldi, come di fanciulli. Si sono conosciute nella sala di uno dei collegi, cercando di accordare una chitarra abbandonata da qualche studente. Una sera, con un po’ di coraggio, un po’ di impertinenza, mi sono intromessa. Si chiamano Esther e Anita.

Alla taverna hanno suonato un paio di volte. Quando non ci sono clienti, mi siedo con loro. Oltre a essere una bassista eccezionale, Esther sviluppa videogiochi. Con gli estranei sembra taciturna, ma non lo è sempre. Mi spiega come i giochi che programma influenzino la loro musica e viceversa. Specialmente Circe, che sta scrivendo da anni. Anita invece è sempre silenziosa, so pochissimo di lei, credo anche Esther ignori molto della sua vita.

Hanno un certo seguito, specialmente in rete, ma fanno soprattutto serate nei pub qui in zona. Direi che rientrano in quella corrente “tarocchi e gatti neri” venuta ormai a noia. Ma non nel loro caso. I cliché esoterici li maneggiano con ironia. Durante i loro concerti riescono a creare atmosfere ipnotiche. Ho visto anche i più scettici cascarci, proprio grazie a quel loro dichiarato intento parodistico, che mentre blandisce la ragione, indebolisce la guardia.


Mi hanno chiesto di partecipare a alcuni loro concerti. Esther prepara delle animazioni in realtà aumentata che poi vengono visualizzate, riprese e condivise in streaming. Si presentano come sacerdotesse di una cerimonia pagana e invitano il pubblico a partecipare al rito. In questo evento a metà strada tra messa nera e messa in scena, io fungo da assistente e terza sacerdotessa. Le loro gig sono emozionanti, ma nulla rispetto alla frenesia che si produce in rete, con i frammenti di registrazioni che circolano per giorni, i commenti di chi c’era ma soprattutto di chi non c’era. Tutto è amplificato e propagato, il rito si smaterializza, la taverna sparisce e spariscono i nomi. Dopo settimane, mi racconta Esther, qualcuno in Nuova Zelanda chiede se suoneranno a Auckland.


Anita non si vede da settimane. Esther mi spiega che stanno lavorando al prossimo spettacolo. A luglio saranno al Tandem Festival e al carnevale di Cowley. Non può dirmi altro, ma avrebbero bisogno di me per il secondo. D’accordo, però vorrei almeno qualche indizio, le dico gettando una rapida occhiata al suo tatuaggio. Il punto è che nemmeno lei sa.

Siamo a Cowley, più tardi devo assisterle. Ne approfitto per ascoltare i Count Drachma – ammetto di avere una cotta per i fratelli Steadman, per la loro irritante bellezza raddoppiata. È un’estate straordinariamente affollata, il festival attira migliaia di studenti temporaneamente disoccupati e famelici di esperienze che l’anno accademico ha a lungo inibito. Mentre aspetto, mi godo i gruppi che si susseguono sul palco, li osservo quando scendono per essere intervistati da qualche radio locale, variando i loro comportamenti su un tema comune che forse discende dai Clash o dai Sex Pistols per poi perdersi in chissà quali labirintiche genealogie.

Guardo ad esempio tre ragazze intervistate da uno studente annoiato, costrette a rispondere alle solite domande prive di fantasia. Consapevoli di essersi trasformate nell’ennesimo cliché, in un composto di tic collezionati ovunque, come i tatuaggi sempre meno ispirati che costellano le loro gambe, non cercano risposte ironiche e originali, si arrendono invece a questa farsa per il privilegio di essere là sul palco, più tardi.

Intanto finisce di suonare Ms Thérèse. Dalla sua voce, sottili bave raggiungono il pubblico e fanno tornare infiniti desideri su di sé. Le nostre arterie potrebbero scoppiare in qualunque istante per propiziare la divinità. Sono già decisamente ebbra, un po’ per la birra e un po’ per l’incanto di Ms Thérèse, ma soprattutto per effetto di uno straordinario tramonto dai colori violenti, come irrorato dal sangue di lontani sacrifici. Percepisco appena Ms Thérèse scendere, mentre Esther e Anita hanno preso il suo posto sul palco, in silenzio e quasi di nascosto, per non spezzare il sortilegio. Fra non molto dovrò raggiungerle, credo, mi sembra di essere già in trance.

Da tempo sono sul palco, ben oltre quello richiesto a preparare gli strumenti, e la folla si mostra impaziente, poi inquieta, non potendosi spiegare il motivo del ritardo. Sono lassù, come in procinto di iniziare, e questo precipita tutti in un ansioso stato di attesa. Il silenzio sembra essersi diffuso come un virus tra la folla, e in quel momento Esther e Anita iniziano a suonare ai lati del palco. Un canto tenue – di bambina o di vecchia – si diffonde tra bassi ipnotici e insidiose melodie. Una filastrocca si ripete ossessivamente. Cerco sguardi altrui per uscire dall’autosuggestione che ha iniziato a invadermi, ma quelle smorfie fanno rabbrividire: o la mia paranoia deforma tutto o tutti si trovano nel mio stesso delirio.

Dev’essere tardi, perché il cielo da rosso si è fatto nero. La cantilena procede variando pochi versi in cicli infinti e privi di una trama identificabile. Malgrado la loro maniacale ricombinazione, non una sillaba resta impressa, e solo il motivo sembra incidersi nella testa.

Tra lo sfrigolio degli amplificatori, nessun orecchio umano potrebbe percepire il leggero pop, subito sommerso dall’assordante suono dei sintetizzatori. I bassi si ripetono come cerchi sulla superficie di un lago nei cui abissi serpeggia un rettile. Il tempo cessa di esistere.


Inseguo Esther, svolta poco avanti, nella semioscurità, in un labirinto di corridoi, sempre distante, accelero il passo, corro, supero portoni e iscrizioni in latino, la vista si apre su un prato sterminato, vedo la collina nascosta dalla vegetazione, la grandiosa gradinata che si erge in mezzo, e lei quasi in cima sulla terrazza, mi lancio per raggiungerla.

Fisso imbambolata il microfono, cerco di ricordare ma è inutile. Le casse abbandonate fischiano. Il basso è steso a terra e i sintetizzatori di Anita sono deserti, solo lo striscione con l’eliot – il suo strano simbolo – sventola appeso alla tastiera, ma di loro non c’è traccia. Tutte le luci sono state spente per la loro esibizione e ora il palco è quasi completamente buio, salvo le luci che giungono da Cowley Road. Qualcuno ha staccato gli amplificatori e il sibilo si è interrotto. Si sente solo il chiacchiericcio di chi come me si è appena riscosso. Per un istante, le vedo oltre il cimitero. Lascio in fretta il mio posto per rincorrerle, ma rallentata dalla folla le perdo subito di vista. Tento South Park. Ci sono solo gruppi di ragazzi che fumano.

Chiamo Esther, numero irraggiungibile. Controllo la loro pagina, c’è un video postato da dieci minuti, tutti guardano verso di noi, verso di loro, con occhi assenti. Intanto non riesco a togliermi la filastrocca dalla testa, non le parole, quelle sono svanite, ma il motivo, come quelle musichette che si sentono in ascensore o in sala d’attesa. Provo a andare verso Jericho, ma non mi aspetto di trovarle là. Spero di incrociarle per caso, la città è piccola. A meno che non si siano rifugiate a casa, ma non so nemmeno dove abitano.


Arrivo alla taverna, c’è solo Valdi. Non è venuto al carnevale.

«Già finito? », chiede.

«Non lo so, sto cercando Esther».

«Ah, è passata poco fa».

«Merda, dov’è andata?», ma vedo il suo sguardo ebete e dico di lasciare perdere. Mi siedo avvilita, magari mi aiuta a distrarmi. Ordino una birra.

«Com’erano?»

«Eh?»

I Count Drachma, com’erano?, niente male no? Eh, ah, sì…

Inizia a raccontarmi non capisco bene cosa, annuisco senza ascoltare. Va avanti per un quarto d’ora, ogni tanto afferro quel che dice, funghi, ostriche, rampicanti, un progetto che hanno lui e Robert, non riesco a concentrarmi, deve accorgersi che non sto seguendo così mi chiede del concerto, perché sono andata via così presto.

Stavo cercando Esther e Anita, sono scappate. Mi guarda senza dar segno di capire. Non lo so, ero tra la folla, un attimo dopo mi sveglio sola sul palco con gli amplificatori che fischiano. E Esther e Anita sono scappate? Esatto, la gente sembrava come sotto ipnosi, io stessa… non ricordo nulla, solo il loro pezzo, o qualcosa del genere. Mi rendo conto di sembrare pazza. Ma scusa, mi avevi detto che era successo qualcosa di strano pure al Tandem, no? Sì, ma non parlavo di ipnosi, non ricordo bene di cosa parlavo, forse intendevo quella coincidenza tra me e Robert che ti dicevo prima. Ah quella… fingo di ricordare e mando giù un bel sorso di birra. Lui intanto controlla il cellulare, vedo che cerca qualcosa, poi mi mostra lo schermo. Guarda, questo è stato postato qualche minuto fa, ci siete voi sul palco, tu hai l’aria un po’ fatta, ma non mi sembra che ci sia nulla di strano. Osservo stupita, in effetti la scena è piuttosto banale, la gente muove le mani, ci sono alcuni cellulari alzati. Vorrei che alzasse il volume, per sentire se almeno l’audio rivela qualcosa, ma tira via la mano e inizia a dimenarla in aria. Ci metto un po’ a capire che sta facendo cenno a qualcuno. Mi volto, i miei battiti accelerano.

Ho perso Anita, dice, ignorando Valdi. Persa? Non la trovo più da quando ha disertato il palco, continua. Ma io credevo foste andate via assieme, per il casino che… insomma, mi avete lasciata sola sul palco! Stavo rincorrendo Anita, è scappata, non hai visto? Dice che avete ipnotizzato tutta Cowley, si intromette Valdi. Esther scoppia a ridere. Gli tiro un calcio sotto al tavolo e si rovescia la birra sui pantaloni. E però, perché Esther si sta incupendo? Be’… risponde, come se mi avesse letto nel pensiero, in effetti Anita era un po’ strana ultimamente. Strana, cioè normale? Strana, cioè più strana del solito. Valdi sembra interdetto, ma non importa, Esther mi guarda. L’ultimo pezzo… Non mi esce dalla testa quel dannato pezzo!, mi lascio sfuggire prima che lei finisca. Neanche a me, vedi… è uno dei nuovi campioni, non l’avevo mai sentito e… Ascolta, la interrompo, io non so cosa è successo, ho come un black-out da quando avete iniziato a quando siete sparite, ma quella melodia sembrava non finisse mai. Mai, capito? Hai fumato? Sì, certo, un po’, ma che c’entra, non mi è mai capitata una cosa del genere. Comunque non mi sorprende, taglia corto. Cioè, non credo sia nulla di inspiegabile, lo sai che per noi è un gioco. Sì, lo so, cartomanzia gatti neri realtà aumentata ecc. Be’, almeno, per me è un gioco. Però Anita forse… vedi, mi ha parlato di alcune sue teorie, non capisco se mi prenda in giro. Ogni volta che l’ascolto finisco quasi per crederle.

Mentre parla controlla compulsivamente il cellulare. Forse spera che Anita si faccia viva. Guardo i suoi tatuaggi, almeno quelli esposti. Mi domando se mi lascerebbe vedere il resto, però ho paura a chiederle. Non penso che si imbarazzerebbe comunque. Appoggia il cellulare e continua.

Avete presente i palazzi delle memoria? Come no, sbuffa Valdi, che ormai ha rinunciato a fingere di capirci qualcosa. Aspettate, fa Esther, posso prendere una birra?, non bevo dal… merda, abbiamo lasciato tutto sul palco… va be’, spero ci pensi Thérèse. Traffica col cellulare, forse le manda un messaggio, intanto Valdi ordina. Appena arrivano le pinte, inizia a spiegarci di Anita.

I palazzi della memoria, in antichità servivano per incamerare volumi enormi di informazioni. È una tecnica per associare i concetti a un’architettura virtuale, ad esempio la propria casa. Anita è convinta che il nostro presente sia inautentico, artefatto. L’eternità è troppo vasta e le probabilità troppo basse di trovarsi esattamente in questo momento storico, quello che crediamo di vivere, troppo alte invece di trovarsi in una sua ricostruzione fatta altrove, in qualsiasi altro tempo. Il problema è capire quale di preciso, e perché mai dovremmo trovarci in questa simulazione senza averne alcuna idea. Ecco, Anita crede che il nostro mondo, il nostro presente, non sia altro che una versione ciclopica di un palazzo della memoria. Secondo lei, c’è un momento nella storia in cui il sovraccarico di informazione – in ‘questa’ epoca intravisto appena – è tale che l’unico modo per districarsi è creare una replica virtuale in cui sia più semplice orientarsi. Solo che un palazzo non è più sufficiente, serve un intero mondo, forse addirittura un universo.

Ma scusa ci troviamo in questo colossale database e non sappiamo neanche cosa stiamo cercando?, la interrompe Valdi. Sembra essersi risvegliato. Finalmente un argomento che gli interessi.

No, vedi, è proprio un effetto collaterale di questi ‘database’ a più dimensioni, magari entri per cercare una cosa, ma se per caso la dimentichi, è finita. Come quando vai nell’altra stanza e ti trovi a fissare il muro e non ricordi cosa eri andata a cercare e resti lì imbambolata, il tuo cervello ha già rimosso la ragione dello spostamento. Chiaro, se sei a casa, alla peggio, scrolli le spalle e torni su internet, ma se finisci in uno di questi universi, l’equivalente di una scrollata di spalle è vivere il tempo che ti resta senza una ragione.

Mi sento come se mi fossi appena persa in un magazzino cosmico. Sì, ma questo è gnosticismo a buon mercato, fa Valdi. Sarà, ma Anita ne è convinta e non mi pare sia l’unica a credere a teorie simili ultimamente. Ma… inizia Valdi, ma Esther lo interrompe. Senti, puoi portarmi tutte le prove scientifiche che ti pare, e aggrapparti fino alla morte a quel coriandolo di ragione che ti resta, ma guardati intorno, a che ti serve mantenere quel contegno da secolo dei lumi se ormai viviamo in un istituto psichiatrico su scala globale, non è ancora più folle fingersi sani? Esther beve un po’ di birra poi prosegue. Vedi, Anita non è fuori di testa. Da come ne parla, pare averne una certezza viscerale… lei sta cercando qualcosa che ha dimenticato, chiaramente non sa cosa, altrimenti sarebbe già fuori da qui, ma crede ci sia una ragione se si trova ad esempio in questa città, qualche informazione indispensabile deve annidarsi lungo i suoi canali, nei pub o nelle discoteche, tra questi collegi, per ora segue solo il suo intuito, non avendo altri riferimenti, si affida a quelli che crede siano indizi. Quando ha visto il gioco che sto scrivendo, Circe, dice rivolta a me. Un secondo… fai videogiochi?, esclama Valdi. Sì, ma non te l’avevo detto? No, non me lo sarei scordato! Ma da sola o per qualche compagnia? Per Fairy Circle, ma non è im… FAIRY CIRCLE! Oddio, amo i vostri giochi! Io no, sono solo un lavoro, fa Esther, gli ultimi dico… i primi erano fighi, tipo The Shrine, è stupendo, lo so, ma sono peggiorati da quando Gore ha comprato FC… infatti sto scrivendo Circe proprio per risollevare un po’ il livello, conclude sicura di sé. Non capisco niente di quello che stanno dicendo, odio i videogiochi, non ho idea di cosa sia Fairy Circus, a parte la società per cui lavora lei. Posso provarlo?, insiste Valdi, potrei essere il tuo beta ‘testher’, *occhiolino*. Lei scoppia a ridere.

O… mio… dio, questi due si sono bevuti il cervello.

Volentieri, guarda, è tutt’altro che pronto, ma se vuoi darmi un po’ di feedback… Valdi non sta nella pelle. Anita ne è ossessionata, infatti… era di questo che volevo…

Spengono le luci. Sono già le undici? Ascoltate, fa lei, che dite se andiamo al giamaicano, così prendiamo qualcosa lì e ne approfitto per recuperare gli strumenti, Thérèse mi ha scritto che li ha lasciati da loro. Io e Valdi ci guardiamo, per me va bene, non ho nessuna voglia di andare a casa. Esther paga le birre, dopodiché siamo fuori, verso Park End per prendere l’1 verso Cowley. Da quando ci ha raccontato la teoria di Anita, mi sembra di muovermi tra corridoi e scaffali, chissà Cowley che sezione è. Storie horror? Biografie di musicisti? E io che ci vado a fare, che cosa cerco? Bah, forse solo il bagno…


Siamo sul bus, mi sono seduta in prima fila al secondo piano, loro sono qualche posto più indietro, parlano come invasati di videogiochi. Cos’è questo giro di archi alla radio… l’ho già sentito, in discoteca? Ascolto i violini e guardo la strada davanti a me, i collegi abbandonati, qualche studente senza una meta, i pub in chiusura, adolescenti in vacanza studio, attraversiamo il Ponte di Maddalena, da dove Val si è tuffato il primo maggio, e l’Half Moon, starei sempre lì se potessi, ma cosa rappresentano questi luoghi? Che cosa nascondono e perché non ricordo niente? Come prima, sul palco… ma che mi ha preso? Come ho fatto a immaginarmi tutto… Però anche Esther ha detto che c’era qualcosa di strano in quel loop… Passiamo la Radcliffe Camera, gli stessi edifici delle cartoline che ho trovato al mercatino delle pulci, disegnate da qualche anonimo a fine ‘800, sono lì da secoli, magari da decine di millenni, se diamo retta a Anita.

È la nostra! Sì, sì, lo so. Non ho più tanta voglia di andare al giamaicano, vorrei rimanere sul bus ad ascoltare il resto della canzone, ascoltarla infinite volte mentre me ne sto quassù seduta a guardare la città che scorre. Però voglio sapere il resto. Li seguo canticchiando I’d rather be tra me e me. Oh, si sono proprio trovati quei due… ma non si erano conosciuti l’altro ieri al Tandem? Meno male che non mi è venuto in mente di presentarli prima, sarebbe stato un inferno sentirli parlare di Super Mario tutto il tempo.

…gare di orchi in sella a tigri dai denti a sciabola. Ma è stupendo! Oddio, ‘stupendo’ mi sembra esagerato… meno male che ho dovuto fare solo un po’ di modellazione dei personaggi. A me sembra figo. Un secondo, vado a recuperare gli strumenti, vi raggiungo al tavolo!

Tigri in sella a orchi?, dico a Valdi sarcastica. No, veramente sono orchi in sella a tigri. Ma cosa cambia? E poi davanti a Robert fai il figo a parlare di Catullo… Scusa, ma che t’importa se mi diverto così? Ma l’ha detto anche Esther che è un gioco di merda! Va be’, io prendo rum e coca, tu che vuoi? Anch’io, prendiamone uno anche per lei. E se non le piace? Se non le piace lo bevo io!

Grazie! Dice Esther dopo essersi seduta. Strumenti ritrovati? Sì, sì, Thérèse è un angelo. Comunque, le dico, è assurdo che conosci Ms Thérèse… Te la presento se vuoi, domani facciamo colazione assieme. No, che imbarazzo! È una dea per me, non mi sento degna. Mah, direi più un cyborg che una dea. Eh? Niente, come vuoi, guarda che è una persona normale. Sappiamo niente di Anita? No, risponde Esther un po’ depressa, fa lo stesso, si farà viva lei. In fondo, penso, non mi dispiace se siamo solo noi due. Valdi non conta, è un bravo cucciolo, se ne sta lì buono con il suo drink. Gli sorrido. Mi sorride. Sono di nuovo sveglia, sveglissima. Puoi andare avanti con la storia di Circe?

Non ricordo bene dove eravamo rimaste… ah sì, be’ da quando Anita l’ha provato ne è ossessionata. Ha deciso di occuparsi dei suoni e della colonna sonora. Alcuni dei campioni che ha usato stasera sono tra quelli che ha registrato per Circe. Sai, a volte i miei giochi influenzano i nostri pezzi e viceversa. Anche se di solito lei preferisce comporre in altro modo. In automatico, come se la musica si scrivesse da sé, lei cerca solo di seguirla senza forzature. Allo stesso modo ogni azione per lei è un esperimento destinato a produrre effetti all’interno del palazzo della memoria. Non prova frustrazione quando fallisce, come sarebbe normale aspettarsi, perché i fallimenti non sono altro che tracce. Ad esempio, prima di trasferirsi qui aveva altri progetti. Valdi sta facendo delle facce strane, ma Esther non se ne accorge. Non so molto del suo passato, ma so che questa città è stata una deviazione, frutto di un errore, di un impasse. Valdi, ma che hai? Nulla, scusate. Comunque un errore fondamentale, dice lei. Se non fosse andata così, sarebbe entrata nella stanza sbagliata. Come una password che blocca certi ingressi?, chiedo. Sì, qualcosa del genere. Ora, a Anita non importa granché del nostro piccolo successo locale, per lei equivale a accedere a stanze di minor interesse, con informazioni che non le servono, ma intuiva che dovesse succedere qualcosa a Cowley e così è stato, a quanto pare.

Ma quindi sarei solo una comparsa nella biblioteca virtuale di Anita?!, dice Valdi, fin troppo sconvolto. Forse, risponde Esther, o forse è una biblioteca pubblica, probabilmente stiamo cercando anche noi qualcosa al suo interno e l’abbiamo dimenticato, che ne so, in fondo è la sua allucinazione, anche se ha un certo fascino, va detto. Magari cerchiamo tutti la stessa cosa, dico emozionata, e l’azione di Anita è un indizio rivolto a me. Cioè, non a me, a noi, magari siamo noi le connessioni, per un lettore che si trova uno o più livelli sopra, il ‘link’ di Anita manda a me, il mio a… che ne so. Esther sembra approvare. Valdi, invece, è irriducibile come al solito. Se tutte le azioni fossero indizi, fa lui, nessuna lo sarebbe, sarebbe un caos di segnali o ‘link’, come dici tu, che portano da qualsiasi parte, come fai a distinguere una pista buona da una falsa? Inoltre, se la sua azione è un indizio per te, lei cosa ci guadagna, come prosegue la sua ricerca, vuoi dirmi che finisce lì? Be’, ma è ovvio, non guadagna niente da questo scambio, ma per la stessa logica, magari ha ricevuto a sua volta indizi da chi ha compiuto un’azione sincera nei suoi confronti. Allora è questo il discrimine per te, un’azione sincera? Cos’è un’azione sincera? Mah, non saprei, quella di Anita ha tutta l’aria di essere un’azione sincera, cioè non motivata da ulteriori fini, anche per questo sembra fuori di testa, perché tutti hanno sempre secondi fini e questo ti rassicura sulla loro sanità mentale. D’accordo, però un secondo, stiamo astraendo troppo, ma Anita, cos’ha fatto? Ha composto una melodia che è stata come un incantesimo per me. D’accordo, ma eri fatta. Esther interviene in mia difesa, no, Valdi, non può essere solo quello, te lo assicuro, la melodia aveva qualcosa di insidioso. Va be’ scusa, ma nessun’altro se n’è accorto in tutta Cowley? Intanto, cosa ne sai, e poi, non hanno tutti la stessa sensibilità. E qui mi emoziono, abbraccio Esther, non so che mi prende. Non se l’aspettava, però non… sembra neanche dispiaciuta? Mi viene un brivido a sentire le sue scapole e il suo collo profumato. Ma quella era una carezza? Ascoltate, io… fa Valdi un po’ interdetto, mi avvierei adesso… sarei, ecco, un po’ stanco. Bravo Valdi, rispondo, è ora di andare a nanna.


Occhio a non cascarci dentro, fa una voce che sembra venire dal mare. Mi guardo intorno. Le piante grasse, i disegni, le tazze. Ricordo come sono arrivata qui. Nel tatuaggio di Esther rivedo tutto. Occhio a non cadere nel cerchio delle fate, dice, e mi sorride. Per via di Fairy Circus?, le chiedo. Circle, mi corregge. In realtà no, ce l’ho da molto prima che iniziassi a lavorare per loro. Che coincidenza eh.

Sei tu quella? Chi? Laggiù, la foto vicino alla libreria, quella scattata sul Ponte della Follia, credo. Ah, quella… no, non sono io, è Anita. Curioso che tu dica ‘scattata’. La guardo senza capire. Non è una foto… È un modello che ho fatto a computer. Sembra vero, lo so. Ma è disegnato in 3d, poi il computer simula luci ombre eccetera e lo rende fotorealistico. Ma allora anche le altre foto… No, quelle sono vere, alcune almeno. Posso indovinare quali? Puoi provarci, risponde divertita. Comunque è già qualcosa che l’abbia fatta io. Pare che nei prossimi anni l’intelligenza artificiale arriverà a farle da sé, non solo foto, anche video. A quel punto quanto credi ci vorrà a passare dallo schermo alla realtà? Neurotecnolgia, impianti neurali, transumanismo. Arriveranno… se non sono già qui. Se hai difficoltà a distinguere quelle foto, auguri a orientarti quando arriverà quel giorno. Comunque, se ti piace, prendila pure. Aspetta, che ore sono?, chiede all’improvviso poi guarda il cellulare sul comodino. Dieci e quaranta, merda! Devo correre, Thérèse mi aspetta alle undici… Vuoi venire? Vede che tardo a rispondere. Se non vuoi puoi fermarti qui, c’è del tè, mi dice alzandosi, caffè, qualcosa nella dispensa, non farti problemi, e finisce la frase dal bagno. Non disturbo i tuoi coinquilini? Sono sola!, urla con lo spazzolino in bocca. Non mi ero neanche accorta, penso.

È pronta per uscire.

Devo proprio correre, ci vediamo più tardi, ok? Ok, rispondo cercando di nascondere l’amarezza.

Mi lascio ricadere tra le sue lenzuola. Guardo ancora un po’ la stanza, prima di alzarmi e rivestirmi, il disordine che regna, il basso, nella sua custodia, sdraiato a terra. Due monitor giganteschi di fronte a me sulla scrivania, e tazze colorate ovunque intorno a una tastiera coi tasti rosa buffi, molto grossi e retrò.

Guardo i disegni sui muri, ma non hanno l’aria di essere lì in bella mostra, sembrano più bozze di modellazione, forse per i suoi giochi. Mi alzo per andare a osservare le foto da vicino. Stacco quella di Anita e la confronto con le altre. Dopo quel che mi ha detto sono diventate tutte sospette. La metto in tasca e vado verso la piccola libreria accanto. Tra libri di narrative design e programmazione, c’è una piccola pila di cd tutti uguali. L’album di Esther e Anita? Ma ormai sarà tutto in streaming, perché un cd? Allora di Esther, forse di qualche anno fa, prima che iniziassero a suonare insieme? In copertina c’è una polaroid sfocata. Almeno questa sarà vera. In foto c’è lei, credo, non si vede il viso – è seduta a gambe incrociate coi capelli che cascano davanti – ma deve essere lei, sulla coscia c’è il nastro di fate. In alto a sinistra c’è scritto Ishtar. Vorrei ascoltarlo, ma non ci sono lettori cd, il suo computer non ha nemmeno l’ingresso…

Vado in bagno. Mentre faccio la pipì, cerco l’album su internet, ma trovo solo pagine sulla dea babilonese. Forse YouTube? Provo Ishtar più Esther, niente. Ishtar più… Fairy Circle? Solo pseudo-documentari sui cerchi delle fate. Faccio vari tentativi, provo tutte le associazioni che mi vengono in mente, dopo una decina di parole che non portano da nessuna parte, trovo finalmente una playlist con quella foto. Quasi tutti video di 2 o 3 visualizzazioni. Uno ne ha 43 e un commento ‘noi…’ con un vecchio tag che non manda più a nessun profilo. Lasciato da ‘Mary’. Aspetta, la playlist è di cinque anni fa?! Esther avrà avuto poco più che vent’anni. Mi sciacquo e faccio partire la prima traccia. Vado verso la cucina.

La dispensa è praticamente vuota, mezza confezione di caffè, dei biscotti al burro aperti da chissà quanto, meglio lasciar perdere. Il tè non mi va, in frigo non c’è latte. Vada per il caffè. Lo metto nella pressa francese e accendo il bollitore.

La traccia con 43 visualizzazioni – 44 ora – è… Resisto alla tentazione di scrivere ‘canzone più sottovalutata di YT’. Il testo dice ‘ricordi? Eravamo le migliori in quel momento, ma solo in quel momento… Potevamo raccontarci segreti mai confessati… credevamo alle nostre menzogne… e potevamo tenerci per mano… noi…’. Esther e un’amica? Il suo primo amore? La musica è straordinaria, un po’ acerba forse, un po’ struggente. Non l’ho mai sentita cantare, di solito è Anita. Ma la sua voce… Oddio, sto piangendo, è patetico…

Il campanello!

È già tornata? Ha dimenticato qualcosa? Vado al citofono, rispondo. Anita?? Le apro, intanto verso l’acqua dal bollitore alla caffettiera. Sento la porta chiudersi. Ciao, vuoi del caffè? Mi guarda sorpresa. Spingo giù lo stantuffo, resisto alla tentazione di chiederle dov’era finita. Fa cenno di sì, ma non dice niente, si guarda intorno, forse cerca Esther. È uscita a colazione con Ms Thérèse, dico. Non capisce cosa ci faccia io qui. In effetti, la situazione è un po’ compromettente. Capisce.

«Hai pianto?»

«Io!?»

«Hai gli occhi rossi».

Mi sfrego le palpebre, merda, adesso cosa cazzo pensa. Ah, no, sì, stavo ascoltando…

«Ishtar?»

Ha riconosciuto la musica dal mio cellulare. Allora è lei una dei 3 visualizzatori, ne restano un paio senza nome. Ci sarebbe da investigare. Be’ sì, è che sai, sono un po’ emotiva, la musica mi fa questo effetto, a volte… Scrolla le spalle e si gira. Mi ricordo del caffè. Non ci sono tazze, ovvio. Le dico che vado a prenderle in camera. Mi segue. Da un’occhiata in giro, vede la custodia dei suoi synth e li recupera. Torniamo di là. Mentre lavo le tazze sento la porta chiudersi. ?? È uscita. Così. Neanche un ciao. Fa niente, verso il caffè. Ascolto le ultime tracce che restano. Intanto lavo tutte le altre tazze, disegno un brontosauro su un post-it, lo attacco al frigo ed esco.

Cammino lungo l’Isis, guardo le oche muoversi sul prato, le case galleggianti attraccate a riva. Arrivo alla biforcazione prima del Ponte della Follia. La ricostruzione nella foto di Anita è perfetta. Almeno, io non riesco a notare le differenze. Esther dev’essere davvero brava, tipo una pittrice o una scultrice, ma di ambienti virtuali. Ripenso a quello che diceva Marine delle statue, quando eravamo al Giardino del Lussemburgo la settimana scorsa. Questi oggetti che per noi sono ormai decorativi e quasi invisibili, ma che forse in origine avevano una qualità diversa, più reale, o meglio, più vicina alla realtà di chi architettava quei giardini. Come ad esempio per noi oggi è naturale credere ai fantasmi che vediamo quotidianamente sugli schermi dei nostri cellulari.

Un t-rex, ad esempio.

Dopo un po’ aggiunge, vieni al parco con Valdi e Robert più tardi? Con loro, penso, un po’ delusa. Forse erano già d’accordo, in fondo perché no. Il tempo è delizioso, c’è sole ma fa fresco, oggi non lavoro neanche. Sicuro, rispondo, a che ora?

Continuo a camminare lungo il fiume, arrivo fino al pub che c’è prima della diga. Mi fermo, ordino una Pimm’s con la limonata e delle patatine. Vorrei prendere un po’ di sole, essere abbronzata come lei, ma al massimo mi farei venire un eritema, infatti è meglio se mi metto all’ombra.

Ripenso a Anita. Per un attimo ho creduto che fosse Esther, quando è entrata. La loro somiglianza è allucinante. Però non ne sono attratta. Le manca la vitalità di Esther. Finora non ho processato sul serio quello che è successo. Tutto quello che è successo.

Mi avvio, passo da Tesco, prendo alcune birre e delle patatine.


Arrivo a South Park, ci metto un po’ a trovarli. Dopo aver perlustrato la zona bassa, li vedo in cima alla collina, vicino a un tronco abbattuto, chi appoggiato con la schiena, chi appollaiato sopra, intenti in una fitta conversazione. Il tronco è la nostra casa, dice Valdi, interrompendo Robert appena mi vede arrivare. Esther mi da il benvenuto dall’alto di uno dei rami tranciati e mi invita a ‘entrare’. Divertita, sto al gioco, saluto Robert, che mi accoglie all’ingresso, e raggiungo subito gli altri in terrazza. Stavamo parlando di Wisteria, mi mette al corrente Esther. Wisteria? Sì, sai quello che ti dicevo ieri, insiste Valdi. Non ricordo niente, penso, forse è quella cosa di rampicanti giapponesi. E che si diceva? Il primo numero sarà sui gruppi di Jericho, ci siamo anche io e Anita! Wow, figo! Il primo numero di che? Sono confusa. Il primo numero di Wisteria!, fa Valdi esasperato. Robert aggiunge un po’ di contesto. Wisteria, la fanzina che stanno mettendo insieme lui e Valdi. Hanno alcuni disegni, qualche bozza. Il primo numero è sui gruppi locali, i Count Drachma, Ms Thérèse, Esther e Anita, il Tandem festival. Potresti scrivere qualcosa su Cowley, suggerisce Esther, magari quello che è successo ieri. Robert è interrogativo, non sa nulla, ricapitoliamo tutto, incluso quel che ci siamo detti su Anita, che da stamattina si è di nuovo smaterializzata.

Quindi crede in una specie di predestinazione?, riassume Robert. I fallimenti, gli abbandoni, gli errori e le vie non intraprese non sono possibilità che non si sono concretizzate, ma percorsi che non l’avrebbero mai riguardata, neanche facendo ripartire l’orologio cosmico infinite volte?, dice, guardando Valdi.

Sì, qualcosa del genere, fa Esther, mentre traffica con il cellulare collegato alle casse. Mi dite qualche canzone da aggiungere? È la terza volta che la playlist fa il giro. Qualcosa dei Beach House, dice Valdi mentre prepara filtro e cartina. Sì, anche My Bloody Valentine, aggiunge Robert, tipo Sometimes o Soon, o anche tutto l’album Loveless. Ah, e anche Love Is Stronger Than Death dei The The, fa Valdi. Stupenda, dice Robert. Io sto pensando, non mi viene mai in mente nulla in questi momenti, ah sì, quella di ieri sera in autobus. I’d rather be!, urlo entusiasta. Valdi e Robert si scambiano un’occhiata. Snob. Bellissima quella, fa Esther e l’aggiunge. Make Believe, dico timidamente, ma lei non sente. O finge di non sentire.

Avete mai notato come gli strumenti tendono a portarci su percorsi loro, dice espirando il fumo, se ti lasci condurre, intendo. Su una chitarra è più semplice fare un classico mi minore che un si. Costa caro uscire dall’ipnosi indotta dalle posizioni più semplici. Per allontanarsi dai sentieri noti serve ogni sorta di virtuosismo e un certo orgoglio, il desiderio di padroneggiare la tecnica come fossimo noi i padroni. Per Anita è un errore di prospettiva, cioè, il virtuosismo è un illusione. Per questo si lascia guidare dai suoi strumenti, inclusa la propria coscienza, che considera al pari di ogni altra protesi artificiale, e porta questo metodo fino alle estreme conseguenze. Segue le intuizioni che i sintetizzatori le suggeriscono, senza forzarli nella direzione che vuole lei, o che vorrebbe se intendesse imporsi come autrice dei suoi brani. In questo modo lascia emergere gli indizi che erano stati seppelliti nel labirinto di informazioni. Cerca nelle nicchie delle nostre registrazioni, espande alcuni millisecondi, aumenta i riverberi fino a renderli irriconoscibili. Non sono esperta di effetti, non so bene cosa faccia, ma quando la vedo comporre ho l’impressione che sondi gli interstizi più remoti del suono, sfruttando le equalizzazioni, manipolando le onde, capovolgendo le tracce originarie e portando in superficie quello che altrimenti rimarrebbe sommerso. A volte sembra produrre suoni non di questo mondo: graffi, sibili, versi da altre dimensioni. Ovviamente è un’illusione, chi ascolta può immaginare quei versi, ma non sono lì, eppure è come se lo fossero, e resta il dubbio. Forse è questo quello che ti è successo ieri sera. Molti non se ne saranno neanche accorti, avranno sentito della musica sperimentale poco orecchiabile, si saranno annoiati, ma tu no, dice rivolta a me, mentre attaccano gli accordi sporchi di Sometimes.

Valdi e Robert stappano alcune birre di quelle che ho portato. Tiro fuori anche il pacchetto di patatine, lo apro e lo passo continuando a guardare Esther.

Se dovessi progettarlo io il palazzo della memoria, continua lei, magari farne un gioco, lo penserei come una escape room. Tutta la questione dell’informazione si riduce a averne troppa o troppo poca. Ma se l’hai tutta, diciamo sei onnisciente, che te ne fai? Vai in overdose. Limiti dunque la tua onniscienza fino all’ebetismo, diciamo al grado di intelligenza di Valdi – scoppiamo tutti a ridere – scherzo Val… voglio dire, al grado di intelligenza umana, per avere il brivido di dover ritrovare tutto da capo, col rischio di averlo perso per sempre. Cerchi di scappare da questa cella che ti sei creata. Anita sta cercando questo, credo, si sente un essere in esilio e ogni indizio per lei è un passo verso casa, verso se stessa, insomma, verso… dio.

Stavolta è Valdi che scoppia a ridere, non si tiene più. Dio?! Pensavo scherzassi… va bene se queste cose è Anita a dirle, ma tu… Non sappiamo neanche se per lei sia un scherzo perverso!

Esther lo incenerisce con gli occhi, lui prosegue senza notare. Ma poi a cosa servirebbero tutte queste simulazioni, queste verità nascoste? Questo è tutto quel che c’è, non capisco perché cercare oltre una cortina che nessuno è mai stato in grado di sollevare. In più, non corriamo così il rischio di vederci come meri avatar? Cosa mi impedisce allora di ridurti a un oggetto virtuale, magari farti anche del male se sei poco più che il personaggio di un videogioco in un database a quattro dimensioni.

Ma è questo il punto, urla Esther esasperata, noi siamo già ammassi di informazioni, lo rivela pure la scienza che ami tanto, pensa al codice genetico, agli ultimi studi sulla coscienza, all’illusione di essere se stessi, mentre siamo miliardi di neuroni che pensano se stessi, miliardi di micro-organismi e batteri e cellule che portando avanti la loro esistenza portano avanti la nostra, non siamo neanche noi a decidere di ospitarli, sono loro che scelgono i nostri corpi per vivere! La considerazione che hai verso di ‘me’, l’hai già verso questa sconfinata nebulosa imprecisabile, ridotta per comodità al mio nome, Esther, perché non dovresti fare un passo ulteriore e averla anche verso la mia copia virtuale che si aggira forse in questo palazzo della memoria, in questa simulazione di mondo, o di universo, se per caso avesse ragione Anita, se mai l’originale si fosse persa nella vertigine dell’eternità.

Ma allora che differenza fa essere l’originale o una copia, se poi si riduce tutto alla stessa cosa?!

Nessuna forse! E forse per la maggior parte di noi non fa alcuna differenza, tranne quella di essere qui, su questo tronco, a fingere di essere su una terrazza che in realtà è un ramo spezzato, arrivando fino a litigare, come se tutto questo fosse vero, e forse invece, per alcuni, per Anita, fa tutta la differenza dell’universo, o del mistero al centro dell’universo, un abisso che si può misurare solo attraversandolo. Del resto, puoi chiamarla come vuoi, ricerca di dio, dell’illuminazione, se non ne puoi più dei brodini spirituali e new age, allora chiamala verità scientifica, geometrica, matematica, ricerca dell’origine, del vuoto al centro delle nostre esistenze, accusare Anita di essere pazza solo perché ha il coraggio, o fosse anche l’avventatezza, di ammettere fino al punto di non ritorno quello che sotto sotto ci tormenta tutti, è così vile e disonesto, è… indifendibile e… è inutile che ridi, sono pronta a giocarmi la faccia per difenderla e tu puoi continuare a vivere nel tepore delle tue mezze verità, che tanto evaporano da sé, se almeno hai le palle di guardare in faccia… di guardare in faccia…

Esther mi guarda ed è terrorizzata. Sono febbricitante. Forse fraintende la mia espressione, a vederla incenerire Valdi sono vicina a un orgasmo, vorrei baciarla qui sul terrazzo, ma non posso perdere la calma. Se non è altro che una nuvola di dati, se è solo un fantasma, il personaggio di un videogioco, un’ombra nel teatro della memoria, com’è possibile che il mio desiderio di fondermi con lei sia tanto reale quanto la corteccia ruvida che ho sotto le unghie o le briciole del nostro aperitivo, come la sua pelle tatuata e il profumo delle sue lenzuola. Valdi è un imbecille, ma non può aver ragione Anita, no, Esther non può essere una copia.

Merda, sospira.

Vorrei dirle che va tutto bene, che…

Forse… si intromette Robert e sembra pesare bene le parole, Valdi forse esagera col suo scetticismo però, ecco, non è detto abbia torto. Teorie simili a quelle di Anita, per quanto popolari, aprono la strada a domande insidiose. Di tutti i palazzi della memoria che potevano essere sviluppati, perché proprio questa versione del ventunesimo secolo, nel migliore dei casi noiosa, ma più spesso crudele. Perché questo universo con le sue leggi fisiche, biologiche, storiche e sociali che a molti vanno strette? Perché non una simulazione più divertente, meno dolorosa, meno ingiusta? E l’unica risposta convincente è quella complottista. Se non ci venisse nascosto, non staremmo a cercare. O quella pessimista: la vita è sofferenza e non vogliamo che finisca mai. Però mettiamo che Anita, come tutti gli epigoni di Ermete Trimegisto, sia sulla strada giusta, mettiamo che arrivi pure al suo scopo, il momento in cui le verrà rivelato senza preamboli che tutto quello che la circonda è contraffatto, un parco a tema di questo universo, o un database per recuperare informazioni disperse, infine ritrovate… la realtà che le è tanto familiare ma sospetta a questo punto si sgretola. Cosa prova in quel momento? Sollievo? Terrore? Niente?

Guardo Esther, immagino che tutto evapori ora, tutto improvvisamente negato, precipitato altrove, e non riesco a desiderarlo, preferisco una menzogna, voglio lei, voglio poterla accarezzare, non voglio scambiarla per la verità e perderla per sempre.

C’è silenzio. Nessuno osa aggiungere altro. Parte una nuova traccia, Love Is Stronger... Il tronco è tornato a essere un tronco e mi domando se la realtà nuda e cruda non si mostri esattamente così, in modo tanto banale: fine dei giochi.

Ascoltate, mangiamo qualcosa da me e Valdi?, chiede Robert.

Nessuno risponde, io annuisco sovrappensiero, incantata dalle parole di questa canzone. Here come the blue skies. Here comes springtime.

Il cielo, come al solito, è cambiato senza che me ne rendessi conto.


La facciata fa venire i brividi. Vernice scrostata intorno alle finestre a bovindo, erba bruciata sotto i bidoni della spazzatura. La porta di colore rosso scuro, con il numero 9 visibile solo grazie all’alone lasciato dalla targhetta che non c’è più. Siamo rimasti solo io e Robert. Valdi ‘aveva da fare’. Traditore. Esther si è defilata senza spiegazioni. Che senso ha pisciare sulla tela? Eppure, questo quadro dovrà sapere di urina. Faccio le mie preghiere ed entro. Robert non si scusa nemmeno per il disordine. La casa abbandonata all’entropia. I coinquilini non ci sono e a giudicare dalla sua espressione, è bene così. Non so neanche perché sono qui, lo conosco appena, voglia di cenare noi due soli non ne ho, mi aspettavo sarebbero venuti anche gli altri, almeno Esther. Invece, per pietà, per onorare la parola data, non ho saputo tirarmi indietro, e dunque eccoci. Forse meglio che starmene a casa a tormentarmi. La porta del salotto è chiusa, forzandola un po’ Robert riesce ad aprirla. Dentro è il caos. Valige aperte, biancheria sporca che pende da un mobile antico, sul tavolo basso al centro, uno specchio appoggiato con tracce di cocaina. Al momento, il divano e il salotto sono occupati dalla roba di un amico di uno dei coinquilini. Sta qui da settimane. Robert non ne sembra felice. Ci guardiamo e sappiamo che questa stanza non ci servirà, così chiude la porta e ci spostiamo in cucina. Il pavimento è lurido, il secchiaio pieno. La finestra da sul giardino dietro, e riesco a intravedere sacchi di spazzatura colmare tutto lo spazio che in altre case ospiterebbe bici, piccoli orticelli e grill per le serate estive come questa. Robert intanto apre la dispensa e il frigo, mi chiede se ho voglia di una birra. O di un gin tonic. Che gin hai? Gordon. Merda. Andrei per la birra, penso, ma ho bisogno di alcool, quindi vada per il Gordon. Tonica di sotto marca. Chiaramente non ci sono limoni. Mi piace la consapevolezza con cui offre tutto questo, la sua rassegnazione, forse il sospetto che a cena sarebbe stato meglio non invitare nessuno. Sembra preoccupato. Visti i ripetuti spostamenti tra frigo e dispensa, non mi stupirei se non avesse niente da cucinare. Chissà come avrebbe fatto se fossero venuti anche gli altri. Ti piace Domino’s?, azzardo, sperando non ci resti male. La sua espressione di sollievo mi tranquillizza. Ho già il cellulare pronto. Margerita, va bene? Devo aver fatto centro perché non riesce a nascondere l’entusiasmo. Forse si nutre solo di questo. Da quando siamo rimasti soli è un’altra persona. Sul tronco, oggi, sembrava più sicuro di sé, almeno, rispetto a Valdi. Sembrava sapere quello che diceva. Era silenzioso, d’accordo, ma non come adesso. Ora pare proprio impacciato, inibito, come se cercasse qualcosa da dire e non la trovasse. Vorrebbe farmi sentire a mio agio, si sente in dovere, ma è paralizzato. Non ce ne sarebbe neanche bisogno, sto bene qui con lui, in fondo, in questa cucina che cade a pezzi, in questa casa deserta, che ha qualcosa di sinistro, è vero, ma la presenza di Robert, non so perché, mi rassicura. I trenta minuti che ci separano dalla consegna delle pizze devono essere strazianti per lui, non passeranno mai. Per un po’ osservo la cosa divertita, è il 14 luglio, penso, a Parigi Marina e Marine si staranno preparando per i fuochi d’artificio, proprio in questo momento, tutti stanno andando in piazza per sentirsi parte di una nazione, della storia, di una qualsiasi storia, d’amore forse, potremmo essere io e Esther, chissà, se non noi, qualcuno esattamente come noi, in attesa di sentire il rumore ovattato dei botti, le scintille cadere, sempre più grandi, sempre più luminose, e la speranza di essere così per sempre, che tutto resti com’è, in eterno, congelati in quell’istante felice, penso questo e sono qui sola, cioè con Robert, che non trova niente da dire, mi sorride, sperando che io capisca, capisco, questa è la mia realtà, non un’altra, non ci sono fuochi d’artificio, non c’è Esther, solo l’attesa di una pizza Domino e se non mi faccio andare bene questo, per me resta poco d’altro. È ora di soccorrerlo, nel suo imbarazzo, fa molta tenerezza. Gli chiedo di Wisteria. Sai, Valdi mi aveva accennato ieri sera, e poi ne parlavate oggi, ma non ho capito molto. In effetti, nemmeno io, dice lui, si corregge subito, cioè, sì è un’idea nostra, mia e di Valdi, è un po’ che ci pensiamo, però è tutto confuso. Ci piace il glicine, per varie ragioni che non sto a spiegare, è partito da lì… per ora vorremmo occuparci dei gruppi emergenti, come Esther e Anita, ma forse ci sarà altro da dire, poi, se non muore al primo numero… Esther diceva che potresti scrivere del carnevale di Cowley, ti andrebbe? Beh, rispondo, non ho mai pubblicato nulla, però perché no, di cosa avete bisogno? Mah, niente di ché, saranno dieci pagine al massimo, qualche disegno di amici nostri più due o tre articoli brevi, ne fotocopiamo un centinaio di copie, vuoi vedere il prototipo, cioè, quel che abbiamo messo insieme finora? Certo! Ci spostiamo dalla cucina, andiamo al piano di sopra, dove sono le stanze, la sua è nel mezzanino. Lo scorcio mi ricorda i quadri di Sam Szafran, che Marina ci ha portate a vedere all’Orangerie, quelli della tipografia Bellini, la distorsione degli spazi, i colori, il disordine. Camera sua è un loculo buio con la moquette di un colore probabilmente mutato nel tempo, ci sono un letto, una scrivania e una mensola con alcuni libri. Vedo il Don Chisciotte e Poe, tra gli altri. Ci sono tele serigrafiche e barattoli di acrilici ovunque, foglietti di prova sul pavimento, devo seguire attentamente i suoi passi in questo campo minato. La scrivania è piena di libriccini fotocopiati, fatti in casa, fanzine, forse il loro prototipo, o altre trovate in giro. Su alcune pagine è impresso il simbolo di un’ostrica, guardo i titoli: La Pazzia del Signor Jones, Die Acht Exariole, The Shellfish Meme. Cos’e questo, chiedo, divertita dal gioco di parole. Ah, niente, una sciocchezza nata da un’intervista che abbiamo fatto a Michael Rodgers, l’editore di Dawkins, almeno finché pubblicava a OUP. È per questo che ci sono ostriche stampate ovunque? Potrebbe essere… non ricordo, dovresti chiedere a Valdi.

A proposito di Valdi, noto la sua raccolta, ne riconosco il titolo, V.D., non l’avevo ancora vista impaginata. Chiedo se posso sfogliarla. Fa pure, tieni quella copia se vuoi, è per te, mi dice mentre continua a cercare le bozze di Wisteria. La chat del racconto di Valdi è stata ricreata tipograficamente, in una versione stilizzata di Facebook, tutto incorniciato da disegni e giochi grafici. Mentre sfoglio, l’immagine profilo di uno dei personaggi salta all’occhio, è il simbolo di Anita, l’eliot, quello che porta sempre ai concerti appeso ai sintetizzatori. Chiedo a Robert perché si trovi lì. Eccola!, risponde, senza alcun legame. Wisteria, aggiunge sventolando le bozze. Poi si ricorda della mia domanda. Ah, quello… storia lunga. Aspetto che aggiunga il resto, ma squilla il telefono e subito dopo suona il campanello. Le pizze! Robert si lancia giù dalle scale. Lo seguo senza fretta, cercando di ripercorrere al contrario il labirinto di pagine sparse sulla moquette. Robert ha già le pizze in mano e fa segno di andare verso la cucina. Velocemente prepara il secondo gin tonic, mentre io apro i cartoni. Si siede coi bicchieri pieni e iniziamo a divorare i primi tranci ancora caldi. Volevi sapere di Anita? Cioè, perché il suo simbolo si trovi nel libro di Valdi, giusto? Annuisco con la bocca piena. Robert appoggia l’avanzo di pizza che ha in mano, beve un lungo sorso del suo drink e poi guarda verso la porta. Tu sai perché Valdi vive qui? Lo guardo interrogativa. Hai presente la famosa @a_bulia che compare nelle chat di V.D.? Non lo seguo, forse pensa che l’abbia letto. Non so di che parli, Robert. Ok, lascia stare V.D., Valdi si è trasferito in questa città per seguire Anita. COSA??, dico gettando la pizza nel cartone. Non ha alcun senso. Sembra una storia scritta male. Mi ricompongo. Ma scusa, ma se si conoscono appena. Oddio, forse non li hai mai visti insieme, o non li hai mai sentiti parlare l’uno dell’altra, ma per conoscersi si conoscono… bene. Sorrido maliziosa, voglio i dettagli. Vedi, ci sono alcuni trascorsi. Qualche anno fa, prima di trasferirsi…

Sentiamo un rumore alla porta, qualcuno è entrato. Vedo l’ombra in corridoio avvicinarsi alla cucina. Robert si gira, Ehi Caleb. Ciao, fa Caleb, piacere, dice rivolto a me. Mi sforzo di sorridere, mentre lui dice alcune cose a Robert, intanto sfoglio meccanicamente le bozze di Wisteria, di cui mi ero completamente dimenticata, tanto per fare qualcosa, per nascondere la mia impazienza. Vorrei che se ne andasse subito per sapere come continua la storia di Valdi e Anita. Noto le sue scarpe infangate, ma da dove arriva questo? Se ne accorge pure lui, a quanto pare, perché… orrore!, con lo strofinaccio per i piatti inizia a pulire le orme in cucina. Guardo Robert, gli faccio capire che sto per vomitare. Robert si alza, dice a Caleb di non preoccuparsi, fa lui più tardi. Caleb lo ringrazia, sollevato di non dover far nulla, ci saluta e se ne va in camera, infangando tutto. Brucia quello strofinaccio Robert, ti prego, dimmi che non è mai successo. Guardo il gin tonic disgustata. Almeno per le pizze non avevamo posate. Robert è imbarazzatissimo, mi giura che non l’ha usato per asciugare i bicchieri.

Usciamo nel giardinetto a prendere una boccata d’aria. Guardo la spazzatura sparsa ovunque, che comunque è un sollievo rispetto alla scena di poco fa. Mi aspetto che riprenda la storia, gli chiedo timidamente se può andare avanti. Tutto qui, è per questo che il simbolo di Anita appare in V.D. Comunque è acqua passata, taglia corto. Non oso chiedere di più. E in Wisteria affrontate anche questo? Voglio dire, simulazioni, palazzi della memoria, insomma quello di cui parlavamo oggi, chiedo dopo alcuni secondi di silenzio. Spero di riportare la conversazione su Anita, magari per altre vie. A dire il vero no, però la cosa a me interessa, a Valdi un po’ meno… hai mai letto Laing? Mai sentito. Non importa, è un po’ datato ormai, ma posso prestarti un paio di libri se vuoi, edizioni Pelican, copertine stupende. Ah ok. Devo apparire poco interessata. Scusa, deformazione professionale. Comunque, a sua detta, viviamo in sistemi di fantasia condivisi dai gruppi di cui facciamo parte. Ad esempio, la famiglia o una cerchia sociale. Chi non accetta questi sistemi, generalmente viene invitato a ‘curarsi’, cioè andare in terapia, per tornare a vedere il mondo nel modo corretto, secondo il sistema comunemente accettato, e questo, va da sé, per il bene suo e specialmente della collettività. Vedi, quello che ho osservato, è che Esther e soprattutto Anita hanno un certo talento a plasmare e deformare i confini di tali sistemi di fantasia. In questo senso si possono considerare delle maghe, almeno in chiave moderna. Sanno come fare o spezzare un incantesimo. E questo è piuttosto evidente ai loro concerti. Esther mi ha raccontato di ieri sera, del tuo spaesamento. È di questo che parlo. Forse tu l’hai vissuto in modo particolarmente acuto, ma non sei l’unica. Anche Valdi, per quanto si vanti di non credere a nulla di tutto ciò, è rimasto scottato da Anita e per questo ne è ossessionato. Lei stessa ha difficoltà a controllare il suo talento, se così vogliamo chiamarlo. E secondo me, si è persa nei suoi stessi labirinti. La sua eccentricità, per usare un eufemismo, non è altro che questo. Ora, credere a tutte le sue storie di palazzi della memoria, simulazioni in cui ritrovare ciò che è andato perduto e via dicendo… sembra troppo anche a me. Temo sia molto più banale di così. Non c’è nessun mondo virtuale, solo specchi della psiche. Gli accessi sotterranei, oltremondani, che Anita disperatamente cerca, non sono altro che il suo inconscio, proiettato al di fuori, nel mondo. Il mare è l’inconscio, lo spazio è la psicosi, la realtà virtuale è…

Sì…? Cos’è?, chiedo, ormai completamente smarrita nelle sue idee. Mah, non saprei, taglia corto Robert. Non so neanche se il paragone abbia senso, magari non ce l’ha, non importa. Sono un po’ delusa, però che cosa mi aspettavo. Almeno sembra tutto più sensato, più banale, ma sensato. Restiamo in questa specie di giardinetto dove non cresce l’erba, sulle due piccole sdraio che hanno intelligentemente messo di fronte al teatro d’immondizia. Ce ne stiamo qui in silenzio a contemplarlo, né lui né io aggiungiamo altro, e in fondo è bello così.

Qualcuno ha aperto la porta d’ingresso, rientriamo in cucina. Valdi!

È già qui Caleb? Sì, in camera sua. Sta arrivando anche Ben, l’ho visto per strada. Che palle, dice Robert. Non ho nessuna voglia di vederlo. Ascoltate, mi intrometto, forse è meglio se vado. Guardo l’ora, sono le undici. Peccato che non eri qui con noi Valdi, è stata una bella serata. Spiace anche a me, pazienza, faremo un’altra volta, magari con Esther.

Esther! Devo chiamarla. Li saluto, guardo Robert, sorrido indicando con gratitudine la copia di V.D.

Ma è il mio…!

Valdi non riesce a finire la frase. Sì sì, gliel’ho regalato, dai leviamoci prima che arrivi Ben. Poi dimmi che ne pensi!, riesce a urlare Valdi prima che Robert chiuda la porta. Guardo ancora qualche secondo la spazzatura che dai loro bidoni arriva fin quasi alla strada, dopodiché mi lascio alle spalle il numero 9 di Bolster St.

Non risponde alle chiamate, le mando un messaggio, invio un brontosauro. Cammino senza fretta, in direzione di Jericho, dove abita. Ci vorrà almeno mezz’ora da qui. Intanto attraverso St Clements, e se proprio non dovesse farsi viva, berrò l’ultima pinta alla taverna prima che chiudano, poi torno in bus. O in taxi. Non importa.

Vibra il telefono.

Un t-rex.

I miei battiti accelerano. Sta digitando.

Mi raggiungi?

SÌ vorrei dirle subito. Aspetto a rispondere. Ci provo almeno. Non sarà passato neanche un minuto… va be’, che senso ha fingere. Tanto non ci crede nessuno.

Dove?

Qui da me.

Mezz’ora?

Ok. Luna che sorride.

Allungo il passo, l’1 si è appena fermato all’inizio di High St, salto su, fino a Westgate, poi praticamente corro a Jericho.

Verso la fine rallento, non posso arrivare troppo presto. Sono passati solo dieci minuti.

Mi ricordo di V.D., nella tasca del giubbino. Lo tiro fuori, sfoglio senza interesse, capito sulla pagina dove è menzionata @a_bulia, vicino al simbolo di Anita, l’eliot. Sembra una A capovolta, o un ometto stilizzato, un artiglio forse. Non penso abbia un significato, forse uno scarabocchio. Al diavolo, non ci capisco niente, mancano ancora cinque minuti e non passeranno mai. Fanculo le mie ansie, cosa vuoi che glie ne importi. Sono di fronte al campanello. Suono.

Esther dorme da un po’, io non riesco a prendere sonno. Rigiro tra le mani l’oggetto che Anita le ha lasciato. È partita. Non le ha neanche detto dove andrà, forse non lo sa neanche lei. Le ha dato alcune cose che non è riuscita a vendere, o che non può portarsi dietro. E questa chiavetta USB all’interno di un guscio d’ostrica, che rigiro tra le mani.

Non ha ancora avuto tempo di guardare cosa contiene, mi ha detto, ma io muoio dalla curiosità. So che dovrei aspettare domattina, guardare assieme a lei, però non penso di riuscire, il suo pc è lì che mi chiama. E se contiene un virus e le infetto il computer? C’è la sua vita lì dentro, tutto il suo lavoro. Ma perché Anita dovrebbe averle lasciato un virus. Mi alzo silenziosamente, non voglio svegliarla. Muovo il mouse, il computer è già acceso. Una luce lattea invade la stanza. Esther fa alcuni versi nel sonno. Abbasso la luminosità. Osservo la chiavetta, prima di inserirla. Perché è partita? Valdi c’entra qualcosa? Dov’era stasera, prima di rientrare a casa? Comunque non credo, è acqua passata come diceva Robert. Allora, Anita avrà trovato quello che cercava in questa città, si sarà ricordata di quello che aveva dimenticato? Magari un nuovo indizio la spinge in altri luoghi, dove? Avrà lasciato qualche informazione a Esther? Sarà in questa chiavetta?

La inserisco.

Non so da quanto stia girando nel caos di cartelle e documenti, un labirinto di dati. Inutile provare una direzione, pesco a caso. Ma non c’è nessuna risposta qui dentro. Niente che chiarisca il passato o il futuro di Anita. Solo note sconnesse.

Dalla cartella Léa F.:

In una delle prime che scrissi, ma che non postai sul forum, c’era un essere, chiamato Hermeto, ai piedi di un sarcofago. Hermeto si muoveva all’interno della sala mortuaria, interrogava i muri e le colonne, che rispondevano con enigmatiche frasi, poi riemergeva e camminava tra le piramidi nel deserto, infine attraversava una porta disegnata sul lato di una sfinge. Sulla porta era dipinto l’universo buio su cui brillavano alcuni corpi incandescenti.

Dal Diario dei sogni e degli incubi:

Nel sogno sto giocando con una bambina, si affeziona a me, mi rende partecipe di tutti i suoi giochi, mentre i grandi se ne stanno altrove, forse vorrei essere altrove con loro, ma sono sotto il suo incantesimo, le passo i colori per i disegni – ma questo è grigio!, ti avevo chiesto il rosa… Scusa sai, non riconosco alcuni colori, dico mortificata – e mentre non si accorge piango, per una cosa tanto banale, per me stessa e il mio difetto alla vista, intanto la ascolto mentre inventa decine di storie inanellandole tra di loro, passato un po’ di tempo però è ora, devo andare, salutare lei e sua madre, è ancora allegra, convinta che le voglia bene, mentre la mia era solo una recita, scambio frasi di circostanza con i grandi e mi sono già dimenticata di lei, si era affezionata a un fantasma, io non amo nessuno, amo solo me stessa.

In un’altra cartella c’è la foto di una pagina ingiallita, a margine riesco appena a leggere:

In altre parole – attendere. La paura di perderti e di non essere più ritrovata.

Apro una cartella chiamata Circe, ci sono 8 tracce audio salvate in ordine: qx1, qx2 etc. Collego le cuffie e faccio partire la prima. È come un brusio continuo, non sembra evolvere, eppure non è mai lo stesso. Ogni traccia è associata a un simbolo, tutti simili all’eliot ma in dozzine di varianti. Mi torna in mente @a_bulia, vado a cercare l’account su internet. Esiste davvero, non era un’invenzione di Valdi. C’è anche il simbolo con la A rovesciata. Segue solo tre persone, una di queste è Robert. Comincio a scorrere le bacheche dei suoi follower, aprire commenti e link di account che si diramano, mi perdo tra profili che vedo per la prima volta e che non rivedrò mai più, decine, centinaia di condivisioni, risalgo i post nel tempo, pensieri spiritosi o tristi, invettive contro costumi ormai accettati e sistemi politici scomparsi, eventi pubblicizzati su locandine dai caratteri fuori moda, un accumulo di parole e immagini cristallizzate nel tempo, riflesso di un’umanità che nemmeno la fine di questa tecnologia ha potuto cancellare qx2 cerco di dare un senso all’infinità di voci, vorrei incanalarle in un’unica direzione, vorrei vederle prendere una forma univoca, indistinta, perfetta, non riesco a accettare che siano tutte così incoerenti, contraddittorie e prive di significato, voglio assoggettarle, farle convergere in una persona, la mia, fatta da versioni molteplici di me, tutte allineate, tutte in accordo, tutte in ascolto di un solo ronzio continuo che mi dia finalmente pace, una sola voce, come quella che cantava a Cowley ed era la mia, ero io a ipnotizzarmi, per allontanare l’inquietudine, per reprimere l’ansia di non poter essere altro che me, di non poter far mia l’alterità pur essendone attratta, pur amando questo caos che mi respinge qx3 Anita non ha trovato una nuova traccia nel palazzo della memoria, Anita è scappata, com’era scappata da Valdi, ed è scappata da chi voleva piegarla alla propria volontà, come chi cerca di forzare la musica entro i propri confini, e non sapevo, o fingevo di non sapere quando mi sono avvicinata, forse non avrei dovuto, ma allora non avrei conosciuto Esther, allora non sentirei il suo respiro agitato venire dal letto, no, non posso non averla conosciuta, non si può vivere come monadi e però non si può nemmeno conciliare l’inconciliabile, come tutto quello che scorre rapidamente davanti a me, sto andando alla deriva tra profili anonimi, tra i loro post allusivi, sembrano riferirsi proprio a me adesso, sono assorbita da immagini sempre più curiose, ne scorro i commenti, lasciati da account falsi o da bot, indistinguibili come le foto di Esther qx4 nomi che non hanno alcun senso, nessuno sano di mente sceglierebbe questi avatar, ne clicco qualcuno, per curiosità, non hanno mai più di due o tre follower, ma perché esistono? Chi sono queste persone, se sono persone? O sono davvero soltanto bot generati per aumentare il caos? O magari per ridurlo? Per riferire tutto a un unico individuo, quello che guarda, il mio occhio assuefatto da quel che piace a me, da ciò che non mi provoca dolore, finalmente un incessante mormorio che posso tollerare, che posso sentire senza attriti, slitto tra profili illusori, sempre più anonimi e incomprensibili, o allusivi e profetici, si rivolgono a me, è evidente, e infatti le coincidenze si moltiplicano, le sincronicità, le parole e le immagini familiari qx5 troppo familiari, che mi riguardano intimamente, come il vortice di riferimenti, correlazioni, richiami, intorno allo schermo tutto si sta dissolvendo, non me ne rendo subito conto, ma lo percepisco in modo sempre più irreversibile, tutto evapora tranne il bagliore latteo, l’alone viola che lo incornicia, il profilo di Roqx6bert, ci ricapito per caso, e non sembra un caso, qualcuno dentro di me urla ed è straziante, l’ennesima coincidenza, la foto di novembre, e l’irrealtà che mi circonda, il vuoto nelle viscere, lo schermo esattamente come nella foto, e l’intuizione improvvisa, la crudeltà, l’imperdonabile crudeltà di chi ha permesso tutto questo, la crudeltà a cui non voglio credere, non serve più voltarsi per sapere che…

Nqx7ON VOGLIO SCOMPARIRqx8E!

Mi giro terrorizzata…

Ma lei è lì, Esther è sempre lì.

La stanza riprende forma, il basso steso a terra, le piante grasse, la sua gamba scoperta, il nastro delle fate intorno alla coscia abbronzata. Si muove appena nel sonno, forse infastidita dal rumore. Dalle cuffie viene solo silenzio ora. Aspetto che il mio cuore rallenti.

Spengo lo schermo e torno da lei.

Fuori – non mi ero neanche resa conto – è già chiaro.


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