di Antonia Caruso
Copertina di Caterina Ferrante
L’amichettismo non è solo un glorioso scambio di fluidi culturali e vino senza solfiti, è un sistema protettivo.
Quando il precariato cognitivo verticale ostacola, l’amichettismo risponde. L’amichettismo salva. Rimane precariato cognitivo, non tanto orizzontale, ma almeno obliquo, diffuso, aromatico.
L’amichettismo è quel sistema relazionale familiare che ti fanno fare le visite mediche senza fattura ma con lo sconto, è coesione sociale, nucleo base della società, il familismo nella sua variante harawaiana, una delle tante varianti strategiche volte alla tenuta sociale. Senza sarebbe guerra civile.
L’amichettismo è l’amichettismo: in sé non è malvagio, se lo intendiamo come il welfare per amichettinare chi non ha frequentato un master in editoria, lo diventa se rimane sul piano della prossimità, permane l’idea romantica del salotto culturale, ora nell’era dell’hub espanso di fiera perenne. Una rete vicina e lontana che non contempla, diciamo, le marginalità.
Ogni gruppo, si sa, si tiene sull’esclusione dell’esterno. Con cv e colloquio al massimo si ottiene un tirocinio, con l’amichettismo si può arrivare addirittura a un lavoro retribuito.
Ma l’amichettismo è anche una garanzia: si chiama chi si sa che può svolgere un buon lavoro, come lo può fare quel tuo cugino che mette le zanzariere che non vengano giù al primo monsone.
La critica negativa, la stroncatura, poi, quasi un’arte perduta che va contro ogni sforzo di marketing, ma come, demo svortà e stronchi un libro?, vanno inevitabilmente a ledere l’ego dell’autore o dell’autrice, quindi: non possibile.
L’amichettismo dovrebbe avere quel pizzico di solidità da fornire il supporto per accettare la critica, la sconfitta; copre le fragilità. Tutto il dibattito di dividere l’opera dall’artista, no? Tutto il dibattito dimenticato perché nulla può contro la forza fondante dell’io, della morte dell’autore, no?
L’amichettismo copre anche le infamate altrui. Non è che sessismo e molestie non ci siano anche nell’editoria, anche perché non dovrebbero non esserci? Dov’è lo scudo spaziale?
La coesione, sono leggermente ossessionata dai meccanismi di coesione in gruppi che si dicono volti alla cultura, alla libertà, alla vita, al piacere, al desiderio mimetico.
Il problema è anche un altro. Il problema è che il rapporto col pubblico è strano. Troviamo una infantilizzazione del pubblico al quale si sussurra nelle orecchie che i libri sono come se fossero oggetti delle fiabe, di mille ce n’è di gialli estivi da narrar; ma meno, anzi nullo, quel rivolgersi alla parte infante più inventiva e anarchica, quindi: la meglio.
Assistiamo a quel meccanismo omeostatico per cui all’emergere di un nome che acchiappa si chiama solo questo di nome, il pubblico si affeziona, brama solo quel nome, fort da, non ci può essere nessun altro a parte quel nome, se poco poco si prova a cambiare non c’è nessuno, sedie deserte.
Qui giochiamo al gioco della fiducia e dell’efficacia. Se io che organizzo gli eventi ho la tua fiducia io spero, lo spero e lo vorrei, che ti fidassi di me anche quando ti offro una variazione sul menu che non comprenda il tuo piatto preferito. Ma ti devi fidare di me che organizzo, non solo del nome. Ti devi fidare di me, perché mannaggia al puparuolo non puoi mangiare sempre e solo le patatine.
Quindi: l’infantilizzazione è offerta, ma è anche richiesta. Ci si incontra lì.
Alla base della fruizione culturale rimane il godimento, come la sapiosessualità, ma per i libri, per l’esserci, per sentirsi parte di, sentirsi in decostruzione con la sola presenza e il solo sapere. L’offerta culturale può causare godimento ma può non ispirare il desiderio. Quindi quali sono le pratiche politiche della fruizione?
L’amichettismo è anche questo: coesione, godimento, romanticismo, zanzariere montate bene.
Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?