Avete mai pensato di morire? – divagazioni attorno a Barbie (parte prima)

di Stefano Trucco
Copertina di Daria Pesce

Dovendo parlare di ‘Barbie’, il film miliardario diretto da Greta Gerwig (e scritto insieme al suo compagno Noah Baumbach) che a questo punto è indiscutibilmente, insieme a ‘Oppenheimer’ di Christopher Nolan, il film dell’anno con una intensità e pervasività tali che passate generazioni di film dell’anno possono solo rosicare per l’invidia, si potrebbe cominciare dalla ‘National Lampoon’s European Vacation’, un film del 1985 con Chevy Chase e Beverly D’Angelo, distribuito in Italia col titolo ‘Ma guarda un po’ ‘sti americani!’, il secondo dei cinque film, all’epoca molto popolari, sulle vacanze della famiglia Griswold. A un certo punto, in Francia, i Griswold passano accanto a un cartello che annuncia un ‘Barbie Museum’. La figlia insiste per andarlo a vedere ma il museo non è dedicato alla bambola Mattel: è una roba neonazista dedicata a Klaus Barbie, il criminale di guerra tedesco noto come il Boia di Lione. Facce sconvolte dei turisti americani. Tutto un film così, con le gag che si vedono arrivare con chilometri d’anticipo e quando arrivano sei già abbondantemente oltre anche se poi ridi lo stesso perché perso per perso meglio ridere, no?, specie se uno, come feci io, ha imprudentemente pagato il biglietto per vederlo.

Ok, come non detto. Meglio cominciare con Philip K. Dick.

(Sia chiaro, non voglio fare una recensione del film. Basti sapere che mi è piaciuto tantissimo – cioè, i miei due generi preferiti sono i musical e i cartoni animati e Barbie è praticamente un mix dei due senza essere esattamente nessuno dei due e in più diabolicamente intelligente: cosa posso chiedere di più a un film? – e che ovviamente mi identifico con Allan, quindi l’’ideologia femminista’ che ha dato fastidio a molti non mi fa alcun effetto. Le critiche del tipo ‘inizia alla grande ma poi si perde e il finale è moscio’ possono anche essere sensate ma lasciano un po’ il tempo che trovano. Quello che voglio fare è un po’ di genealogia).

Come ci racconta Emmanuel Carrere in ‘Io sono vivo, voi siete morti’, la formidabile biografia romanzata dello scrittore di fantascienza preferito da quelli a cui non piace la fantascienza, Barbie e Ken entrano di prepotenza nel mondo dello scrittore californiano a metà degli anni Sessanta, nel periodo più creativo della sua carriera.

La più grande delle figlie ricevette una bambola Barbie fornita di diversi abiti, di accessori per le acconciature, di occorrente per il trucco, e di un amichetto di nome Ken. Passato il primo riflesso di sarcasmo che a un veterano di Berkeley quelle rappresentazioni idealmente caricaturali del sogno americano ispiravano, Barbie e Ken affascinarono Dick. Immaginava degli archeologi del futuro, oppure dei marziani, che ricostruissero la nostra civiltà a partire da queste sole vestigia… Ma forse gli archeologi del futuro non si sarebbero stupiti di niente, per la semplice ragione che sarebbero stati del tutto simili a Ken e a Barbie (che) prefiguravano l’umanità di domani, destinata a sostituirci. Oppure – perché no? – erano l’avanguardia di un’invasione extraterrestre”.

Carrere è un grande e la sua biografia di Dick, scritta come se fosse un romanzo dello stesso Dick, è fantastica, anche a livello critico, ma è, appunto, romanzata e ha i suoi limiti, come biografia e soprattutto come cronologia. Sul fatto che Barbie avesse impressionato l’autonominato Horselover Fat però non ci sono dubbi.

Trasformata in Perky Pat ma perfettamente riconoscibile, la bambola più popolare d’America fa la sua prima comparsa nel racconto ‘The days of Perky Pat’, pubblicato nel numero di dicembre 1963 di Amazing Stories.

In una desolata California post-atomica post-atomico quel che resta dell’umanità sopravvive solo grazie alla disinteressata generosità degli alieni, che periodicamente lanciano nel deserto rifornimenti di cibo e materie prime. I sopravvissuti però non sembrano per nulla riconoscenti: prendono il minimo indispensabile e lasciano molti carichi a deperire, preda degli animali mutanti che popolano il deserto. Pare non abbiano la minima intenzione di ricostruire la civiltà ma solo di rimpiangerla.

Tutte le energie, fisiche e soprattutto psicologiche, dei sopravvissuti sono dedicate al ricordo del mondo di prima della catastrofe, ricordo mantenuto in vita grazie a elaborati plastici incentrati attorno alla bambola Perky Pat.

Norman Schein fissava i loro plastici combinati, con i negozi alla moda, le strade ben illuminate con le scintillanti auto ultimo modello parcheggiate, e l’elegante casa su due livelli dove Perky Pat viveva e intratteneva Leonard, il suo boy friend…”

E non ci sono davvero dubbi sull’identità della bambola: Barbie era sul mercato da meno di quattro anni ed era popolarissima.

Il guardaroba di Perky Pat, per esempio, lì nel grande armadio a muro nella camera da letto, con i suoi pantaloni Capri, i suoi shorts di cotone bianco, il suo bikini polka, i suoi maglioncini lanuginosi… e sempre lì, nella stanza da letto, il suo impianto hi-fi con tutti i suoi LP…”

In compenso Leonard sembra un po’ più classy di Ken con le sue “giacche di cashmere and completi in tweed e camicie italiane e scarpe fatte a mano in Inghilterra” oltre alla sua Jaguar XKE sempre nuova fiammante.

Non solo i ‘flukers’, cioè quanti per puro caso (‘fluke’) sono sopravvissuti alla guerra atomica, utilizzano le risorse inviate dagli alieni per la loro sopravvivenza nella costruzione dei plastici di Perky Pat, ma questi sono la posta per interminabili partite a un gioco dalle regole complesse in cui gli accessori e le bambole stesse vengono vinte e perdute, probabilmente una stoccata contro un’altra delle ossessioni di Dick in quel periodo, cioè i giochi da tavolo (vedi, sempre del 1963, ‘I giocatori di Titano’). La stabilità nevrotica del rifugio dove vive Norman Schein, il Buco di Pelote, viene poi messa alla prova dall’arrivo dal Buco di Oakland di una nuova bambola, Connie Companion, adulta e sposata, più complessa rispetto alla teenager Perky Pat, che costringe i sopravvissuti di Pelote a scelte di vita radicali.

La morale della storia è però data dai bambini nati dopo la guerra e per i quali Perky Pat non significa nulla: non ricordano com’era la vita prima e si stanno adattando alla nuova vita in un mondo difficile ma che è reale ed è loro, loro e degli animali mutanti e degli alieni caritatevoli. Quindi alla fine, malgrado la situazione di partenza decisamente weird, tipicamente dickiana, il messaggio è abbastanza convenzionale: abbandona la nostalgia e abbraccia la realtà. Inoltre, il consumismo, rappresentato dalla profusione di oggetti che caratterizza l’eterna adolescenza di Perky Pat, è una Brutta Cosa e ovviamente Dick non vede in Barbie la benché minima possibilità di empowerment femminile (nessuno ce la vedeva all’epoca, la cosa è venuta fuori solo di recente) e se l’avesse vista molto probabilmente non gli sarebbe piaciuta per niente. Specie nei racconti, Dick spesso cedeva al panico morale tipico della fantascienza seria (ma in realtà di tutta la cultura americana del tempo) di quegli anni. In fondo la condanna di concetti e oggetti spauracchio come il Consumismo, la Televisione o il Conformismo (quest’ultimo visto come anticamera del Totalitarismo) non differiva troppo dalle isteriche campagne mediatiche contro i fumetti, il rock’n’roll, le minigonne o i giochi di ruolo. Per essere un genere votato al futuro e quindi al nuovo le attitudini culturali della fantascienza guardavano spesso indietro, anche nei suoi esponenti migliori e più originali, come Philip K. Dick. Il Consumismo, cioè il fatto che sempre più beni di consumo, sia utili che inutili, fossero ora alla portata di classi che da sempre se l’erano potuti solo sognare (e Barbie ne era un simbolo perfetto) era unanimemente condannato: dai liberal perché la proliferazione di bisogni nuovi e indotti sostituiva la vita autentica delle classi virtuose con l’accumulo e la competizione di status un tempo privilegio dei ricchi filistei, e dai conservatori perché, benché fosse una prova della superiore efficienza economica del sistema capitalista rispetto a quello comunista, la suddetta proliferazione minacciava le gerarchie familiari, i rapporti di deferenza sociale e la fibra morale necessarie a una politica di potenza imperiale.

Da dire che, malgrado la ricca produzione di ottimi racconti, la misura di Dick è decisamente il romanzo, nonostante la sua frequente tendenza a perdere il controllo della trama. Infatti, nel 1964 Dick rifonde ‘The Days of Perky Pat’ in uno dei suoi romanzi più importanti, ‘Le tre stimmate di Palmer Eldritch’ e i temi del racconto vengono in gran parte ribaltati, specie perché probabilmente (la cronologia delle sue esperienze con la droga è notoriamente oscura) il 1964 è l’anno in cui Dick prova l’LSD (l’edizione da cui cito è la vecchia Fanucci del 2003 con la traduzione di Umberto Rossi e la prefazione di Carlo Pagetti, cioè dei due massimi esperti italiani di Philip K. Dick).

Il set up del racconto è in qualche modo ribaltato: la Terra del 2016, per motivi ignoti, si sta surriscaldando, è quasi impossibile uscire di casa durante il giorno e le uniche zone dal clima mite sono i Poli, e fra pochi decenni sarà inabitabile (sounds familiar, innit?), perciò le Nazioni Unite costringono la gente a emigrare verso i pianeti e satelliti del sistema solare dove la vita però è assolutamente miserabile. In pratica è la stessa vita dei sopravvissuti del racconto post-atomico e difatti ritroviamo Norman Schein e gli altri sfigati del Buco di Pelote trapiantati su Marte nel tugurio Chicken Pox Prospects, sempre decisissimi a fare solo il minimo indispensabile per sopravvivere, lasciando che gli orti secchino e gli attrezzi agricoli arruginiscano, insieme a Perky Pat, al suo ragazzo Walt (che per qualche motivo ha sostituito Leonard) e ai suoi plastici pieni di oggetti di consumo ormai irraggiungibili.

Stavolta però l’avatar di Barbie è al centro di un rito ben più intenso. I riluttanti coloni grazie all’allucinogeno Can-D possono letteralmente incarnarsi in Perky Pat e Walt e vivere per brevi periodi nel lusso e nella licenza. ‘Durante la traslazione si poteva commettere un incesto, un omicidio, qualsiasi cosa, ma dal punto di vista giuridico ogni atto legale restava una mera fantasia, nient’altro che un desiderio impotente’. Inoltre, possono farlo in gruppo, fino a tre per bambola, in una allucinazione condivisa carica di sottotesti religiosi, dato che la ‘traslazione’ si richiama direttamente all’incarnazione cristiana e alla Trinità: ‘Le onde dell’oceano lambirono i due mentre restavano in silenzio, sdraiati insieme sulla spiaggia, due figure che racchiudevano le essenze di sei persone. Sei in due, pensò Sam Regan. Il mistero ripetuto: come si compie? Ancora la vecchia domanda’.

Se poi considerate che il Can-D, ufficialmente illegale, è spacciato, con la tacita complicità delle autorità, dalla stessa corporation, la Plastic P.P., che produce Perky Pat e i suoi accessori, lo scenario distopico è completo e privo di qualsiasi possibilità di fuga.

Ma una via di fuga si presenta, sia pure profondamente ambigua se non esplicitamente malvagia: Palmer Eldritch, un avventuriero miliardario, torna dal sistema stellare di Proxima Centauri con una nuova droga aliena, il Chew-Z, i cui effetti sono molto, molto più radicali del Can-D.

“DIO PROMETTE LA VITA ETERNA.
NOI POSSIAMO METTERLA IN COMMERCIO”.

Per mezzo del Chew-Z gli umani possono vivere letteralmente qualsiasi esperienza per quanto tempo desiderano, rivivendo i loro momenti di felicità o correggendo i loro errori passati. Rapidamente, gli scoraggiati coloni abbandonano il facile edonismo di Perky Pat per una ‘autentica’ esperienza spirituale.

Il Can-D è kapputt; è troppo difficile da rimediare, costa troppe bucce e personalmente mi sono scocciato di Perky Pat… è tutto troppo artificiale, superficiale e la materialistità in… scusate; è il termine che usiamo qui per… Beh, è una successione di appartamenti, automobili, prendere il sole sulla spiaggia, vestiti griffati… ce lo siamo goduti per un po’, ma non è abbastanza da un punto di vista, come posso dire, di non materialistità”.

Peccato però che le nuove esperienze spirituali soffrano tutte di uno sgradevole retrogusto alieno e unheimlich…

Non ve lo anticipo, come non vi riassumo tutto il romanzo perché se non l’avete fatto dovete leggerlo: basti dire che segna l’avvento della fase più intensamente religiosa della narrativa di Dick e che, malgrado occasionali momenti di caos nel plot, il tono di allucinazione fredda è mantenuto rigorosamente fino all’ultimo.

‘Le tre stimmate di Palmer Eldritch’ può essere inteso anche come un manifesto dell’occasionale conservatorismo politico di Dick, quello riassunto dal titolo con cui fu pubblicato il famoso e sconcertante discorso alla convenzione di fantascienza di Metz del 1977, ‘Se questo mondo vi sembra spietato, dovreste vedere come sono gli altri’ (a pensarci sembra proprio il riassunto perfetto di cosa voglia dire essere un conservatore non fanatico). Vi si può vedere il passaggio da un consumismo ancora prettamente materiale, tipo quello dei nostri nonni e genitori negli anni Cinquanta e Sessanta che si avventavano con furia sui nuovi prodotti come se avessero paura che potessero sparire improvvisamente come erano comparsi, così perfettamente rappresentato dalla primissima Barbie, la Barbie Stereotipo interpretata da Margot Robbie, al consumismo esperienziale, Barbie come modello aziendale di empowerment femminile, che sarebbe seguito, quel tipo di consumismo che se la tira e che con la rete ha celebrato fasti un tempo impensabili. Vi si può anche leggere il dogma dell’Incarnazione e della discesa dello spirito nel sesso e soprattutto nella morte, che è l’immagine portante del film dal momento in cui durante la solita festa Barbie Stereotipo non esclama all’improvviso ‘Non vi capita mai di pensare alle morte?’ fino alla clamorosa battuta finale, e non è che un film sulla morte risulta meno serio se invece di cavalieri medievali in bianco e nero che giocano a scacchi abbiamo bambole vestite di rose che combattono il patriarcato e l’obsolescenza commerciale.

Metti poi che il film di Gerwig risulta poi essere l’ennesima riproposizione di quello che si sta rivelando uno dei miti portanti della modernità, quel Pinocchio scritto quasi per caso 142 anni fa da un mediocre scrittore toscano, Carlo Collodi, o meglio da uno scrittore che sarebbe assolutamente mediocre se non avesse scritto uno dei miti portanti della modernità. Quello, e il mito della caverna di Platone, con Barbie e Ken che escono dalla caverna e scoprono il mondo reale e tornano nella caverna per dirlo agli altri, solo che ci sono due differenti interpretazioni del detto mondo reale, e poi c’è il fatto che il rapporto fra Ken e Barbie ricalca la dialettica hegeliana servo-padrone, dove Ken raggiunge l’autocoscienza attraverso la lotta per il riconoscimento da parte del superiore. E naturalmente la scelta finale di Barbie è prettamente esistenzialista, quando chiede di essere fra quelli che immaginano (e sentono e amano e muoiono) e non essere un’idea, e giuro, non sono io che ci appiccico arbitrariamente un bignami di filosofia classica e continentale a un film di bambole, è tutta roba che c’è dentro: siamo talmente disabituati a film che esprimano una qualche forma di pensiero che è quasi impossibile riconoscerla.

Cambiando tema, uno dei principali sub-plot di ‘Barbie’ ha a che fare con la politica di Barbieland, dove il Presidente e l’intera Corte Suprema sono Barbie e i Ken non hanno praticamente alcun diritto (non hanno neanche una casa vera e propria, tanto che le Barbie ignorano dove passino la notte) e con il tentativo del Ken interpretato da Ryan Gosling di rovesciare questa situazione instaurando un patriarcato basato sui cavalli (cosa forse giusta in senso antropologico ma abbastanza futile nel XXI secolo, tanto che Ken comincia a perdere interesse nel patriarcato non appena se ne rende conto). Permettetemi quindi di presentarvi altri due prodotti commerciali usciti in quel 1964 attorno al quale si piazzano ‘The days of Perky Pat’ e ‘Le tre stimmate di Palmer Eldritch’.

Il 1964 fu un anno presidenziale: il Presidente in carica, il democratico Lyndon B. Johnson, sconfisse il candidato repubblicano Barry Goldwater con una delle maggioranze più schiaccianti del XX secolo.
Il 1964 è anche l’anno in cui c’è la prima candidatura seria di una donna alla nomination di uno dei due partiti maggiori, quella del Senatore del Maine Margaret Chase Smith. L’elezione di un Presidente donna è il plot di una mediocre commedia di quell’anno, ‘Kisses for my President’, con Polly Bergen e Fred McMurray. Lei viene eletta alla Casa Bianca dal compatto voto femminile e lui si ritrova intrappolato in una serie di modestissime gag nel ruolo di First Gentlemen, che ovviamente non ha precedenti storici. I conflitti politici nel film sono del genere più soft possibile: c’è un dittatore sudamericano interpretato da un Eli Wallach che gigioneggia felice e un cattivo senatore maccartista che accusa la Presidente di essere debole col comunismo, ma chiaramente se lo fai interpretare da Edward Andrews non può essere molto pericoloso (e come non segnalare John Banner, il Sergente Schulz degli ‘Eroi di Hogan’, come ambasciatore sovietico? Scusate, ma quando parto con i caratteristi hollywoodiani del secolo scorso non finisco più. Basta così).
Tutto finisce bene, le crisi si risolvono e non appena la Presidente si scopre incinta dà le dimissioni, permettendo a McMurray la memorabile battuta finale: ‘Quaranta milioni di donne l’hanno messa alla Casa Bianca ma è bastato un uomo a farla uscire’. All’anima del patriarcato…

Sempre nel 1964 il bestsellerista Irving Wallace pubblicava il romanzo ‘The Man’ in cui un nero diventa Presidente degli Stati Uniti. Per farlo arrivare nello Studio Ovale Wallace ha bisogno di una strage: prima il Vicepresidente muore d’infarto, poi il Presidente e lo Speaker della Camera muoiono quando un castello in Germania gli crolla addosso durante un incontro al vertice con i sovietici. Così il Presidente pro tempore del Senato, il senatore di colore Douglass Dillman si ritrova Presidente. Ovviamente si scatena l’inferno: i bianchi razzisti si mobilitano si scatenano e lo mettono in stato d’accusa, mentre i neri radicali (in particolare un odioso scrittore chiaramente modellato su James Baldwin) lo accusano di essere uno Zio Tom.
Dilmann però è un uomo di assoluta integrità e coraggio: sconfiggerà tutti i suoi nemici eporterà a termine il suo mandato, anche se al prezzo di rinunciare a candidarsi alle elezioni, dato che è sottinteso che non avrebbe alcuna possibilità di essere eletto Presidente (se vi interessa c’è un film del 1972 con James Earl Jones e la sceneggiatura di Rod Serling).

La letteratura popolare americana è piena di Presidenti, oltre che di Governatori e Senatori (ma anche quella alta non disdegna: ci sono ben due romanzi di Philip Roth che hanno un Presidente come protagonista, il Nixon di ‘Our Gang’ e l’ucronico Charles Lindbergh di ‘The Plot against America’, per non parlare dei numerosi romanzi storici di Gore Vidal e senza dimenticare che i grandi scrittori dell’Ottocento scrivevano biografie elettorali di Presidenti oscurissimi e a volte pure pessimi, come Melville per Zachary Taylor e Hawthorne per Franklin Pierce). Ebbene, nei numerosi romanzi di fantascienza e fantapolitica americani fra gli anni Cinquanta e Ottanta che immaginano il vicino futuro, l’elezione di un Presidente donna è data per scontata e generalmente non problematica, solo questione di tempo; mentre l’elezione o l’arrivo alla Casa Bianca di un Presidente nero era invariabilmente drammatica e portava il paese sull’orlo della guerra civile o proprio dentro.

Fast forward al 2023, in una timeline in cui Barbie Presidente è sul mercato dal 1992: un Presidente nero, Barack Obama, è stato eletto per ben due volte con confortevoli maggioranze. Le conseguenze politiche e culturali sono state forti, contribuendo alla radicalizzazione razzista del partito Repubblicano, ma è un fatto che non c’è stato un solo tentativo serio di ucciderlo o di provocare un’insurrezione contro di lui. In compenso il primo candidato donna alla Presidenza, Hillary Clinton, è stato letteralmente ricoperto di merda e persino i giornali mainstream, tipo New York Times e Washington Post, che nominalmente avrebbero dovuto appoggiarla contro un candidato così poco convenzionale come Donald Trump, fecero del loro meglio per indebolirla concedendo credibilità a uno scandalo montato ad arte dai Repubblicani sulla gestione delle sue email quando era Segretario di Stato e registrando senza particolare indignazione la promessa di Trump di farla arrestare come prima cosa appena eletto, vedi il popolare slogan ‘Lock her up!’ (ovviamente non se ne fece niente e lo scandalo evaporò nel nulla non appena Trump fu eletto). Notiamo di passaggio che anche l’aver scelto, nel 2008, Obama come candidato democratico rispetto alla Clinton richiese dosi massicce di maschilismo, non da parte sua ma da parte dell’ala più liberal del partito, che preferì la carica simbolica di un candidato decisamente moderato ma nero rispetto a quella di un candidato donna.

Barack Obama è ancora relativamente rispettato e per esempio ha avuto un suo popolare podcast insieme a Bruce Springsteen, mentre Hillary Clinton si fa vedere in giro il meno possibile. Insomma, negli anni Sessanta sarebbero stati molto sorpresi dallo scoprire che sarebbe stato più facile eleggere un Presidente nero che un Presidente donna. Senza sottovalutare (come sarebbe possibile?) il ruolo strutturale del razzismo nella politica e nella società americane, oggi bisogna ammettere che la questione femminile, un po’ a sorpresa, invece di svanire poco a poco (in fondo oggi, ci sono 25 Senatori donne su 100 rispetto alla solitaria Margaret Chase Smith del 1964) è tornata a essere altrettanto strutturale, specie dopo la svolta totalitaria del partito Repubblicano e la sentenza della Corte Suprema che aboliva la protezione costituzionale del diritto all’aborto stabilita nel 1972 dalla stessa Corte con la sentenza Roe vs Wade e che ha dato il via a un’ondata di leggi repressive nei ‘Red States’, cioè gli stati controllati dai repubblicani. Del resto, pare che i temi economici, sui quali si è strutturata la dialettica politica del XX secolo pare non interessino più a nessuno e non muovano voti: tipo, cosa ne pensate della politica economica del Presidente Biden? Ecco, appunto (fra l’altro, una delle battute più memorabili del film è quando quattro ragazzine che sembrano proprio le Bratz accusano Barbie di essere fascista e lei, piangendo, dice che non può essere fascista ‘perché non controllo le ferrovie o il flusso del commercio’, giusto per ricordarci dei tempi in cui queste cose contavano…).

Detto così, la Barbie Presidente del film (l’attrice afro-americana Issa Rae, che non può non far venire in mente l’attuale Vice Presidente Kamala Harris) appare molto meno scontata e pacifica e inquadra sia la bambola che il film in un frame di riferimento di Femminismo della Seconda Ondata, che benché apparentemente superato dai femminismi intersezionali (credo) di Terza e Quarta Ondata si rivela ancora perfettamente attuale, in un contesto dove i movimenti non solo anti-femministi ma anche proprio anti-femminili diventano sempre più prominenti e radicali grazie alla regressione del discorso pubblico garantito dalla democratizzazione dell’accesso ai media digitali (cioè, un tempo gli incel si sarebbero vergognati di dichiararsi tali ed erano giustamente bullizzati e disprezzati mentre ora fanno stragi in scuole, chiese e discoteche, applauditi e canonizzati dai loro compagni di merende social) sotto la copertura della lotta alla famigerata ‘ideologia Woke’ o, peggio ancora, ‘religione Woke’.

I maggiori guru anti-Woke, gente come Bill Maher o Ben Shapiro, hanno sparato a zero sul film, scatenandogli contro le loro orde di soldati semplici digitali arruolati nella guerra culturale che, secondo me, prima o poi si tradurrà in una guerra civile vera e propria. Le accuse si concentrano in particolare sul monologo di Anna Ferrera (‘Devi essere magra, ma non troppo…’), visto come manifesto programmatico femminista e condannabile sia in quanto manifesto programmatico che in quanto femminista, e sul dialogo finale fra Barbie e la sua creatrice, Ruth Handler (interpretata da Rhea Perlman, moglie di Danny De Vito), quello in cui Barbie sceglie la vita e la morte, oltre che all’uso disinvolto dalla parola ‘patriarcato’. In breve, Barbie non è solo ‘woke’ ma proprio anti-uomini, grondante d’odio e predicatorio, un tentativo di indottrinare le masse, ma per fortuna sarà un fiasco, aveva predetto Ben Shapiro.

Per questo motivo il gigantesco successo di ‘Barbie’ ha più significato di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Mentre scrivo ha appena toccato un box office mondiale di 1 miliardo e 118 milioni di dollari e probabilmente non si fermerà qui, finendo in una posizione molto alta fra i film di maggior successo di tutti i tempi, almeno in una di quelle classifiche farlocche che si usano adesso in cui si paragonano gli incassi di film dei tempi in cui l’ingresso al cinema era di 50 centesimi con quelli in cui il biglietto costa in medio 10 dollari: beh, se va bene per pompare Avatar o l’ennesimo reboot di Batman allora va bene anche per Barbie.

L’incasso di Barbie conta anche perché uno dei più popolari slogan della destra americana è ‘Go woke, go broke’, cioè la narrazione per cui un popolo legato ai veri valori americani resiste i tentativi delle elites liberal metropolitane e mondialiste di imporre i propri valori ‘inclusivi’, LGBTQ+ e comunque anti-americani facendo fallire i film e i prodotti di consumo in genere ‘woke’, sia con campagne di boicottaggio concertate che con il semplice rifiuto. Ogni esempio a favore di questa tesi (che so, le recenti difficoltà di Disney e Pixar) viene sbandierato dai portavoce dell’America ‘profonda’ mentre gli esempi contrari vengono semplicemente passati sotto silenzio o negati come ‘fake news’. Stiamo sostanzialmente parlando delle stesse persone, tanto negli Usa che in Italia, convinte che Trump abbia vinto le elezioni del 2020.

Solo che a questo punto è difficile nascondere il successo veramente sproporzionato di ‘Barbie’ (Shapiro ha detto di aver sopravvalutato il gusto del pubblico americano). Un successo tale da trascinarsi dietro un film potenzialmente meno popolare, cioè l’’Oppenheimer’ di Christopher Nolan, che ha raggiunto a tutt’oggi 650 milioni di dollari di incasso mondiale, anch’essi destinati a crescere. Fra l’altro Nolan, autore decisamente più conservatore politicamente di Gerwig e Baumbach, sembra ben felice di seguire la scia del film in rosa. Avrà pure diretto ben tre Batman ma i suoi film più ambiziosi sono altri, tanto spettacolari quanto intensamente personali, ed è a tutti gli effetti quel che la teoria definiva un ‘auteur’. Oltretutto ‘Oppenheimer’ (che non ho visto, premetto) pare come minimo ambivalente sulla bontà della bomba atomica e del suo uso a Hiroshima e Nagasaki, un tema pochissimo gradito alla destra americana, sia tradizionale che trumpiana. Quest’ultima si è consolata col buon successo americano, difficilmente replicabile su scala mondiale, di ‘Sound of freedom’, un thriller col povero Jim Caviezel che sfrutta le disgustose teorie cospirazioniste di QAnon (secondo cui i democratici sono tutti satanisti pedofili e rapiscono i bambini – il livello della propaganda anti-woke può scendere molto in basso. Negli Usa si discute seriamente su cosa fare per essere dei conservatori o anche dei liberal anti-woke rimanendo moderati e razionali, senza cadere nell’abisso del totalitarismo cospirazionista, un dibattito che vorrei ci fosse anche in Italia).

Hai voglia a dire che non tutto dev’essere per forza politica…

Però, sempre senza fare una recensione vera e propria, vorrei giusto far notare alcune cose che a me paiono importanti, in particolare sullo stato dell’esperienza cinematografica e su cosa voglia dire dire qualcosa con l’arte. Sarà uno dei temi della seconda parte.

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