Avete mai pensato di morire? – divagazioni attorno a Barbie (parte seconda)

di Stefano Trucco
Copertina di Daria Pesce

Qui la prima parte.

Al cinema, al buio, piccoli, impotenti e silenziosi, guardavamo le gesta dei giganti che vivevano sullo schermo. Oggi consumiamo i nostri film e serie su schermi sempre più piccoli, in piena luce, controllando noi i tempi e le modalità di visione, da padroni.

Questo secondo metodo, grazie al quale i film possono essere visti decine di volte e ogni singolo fotogramma fermato e studiato a fondo, permette una maggiore comprensione ma a costo delle emozioni che un tempo si vivevano nel buio delle sale. Vivisezionare i cani può essere utile dal punto di vista scientifico e pratico, ma poi difficilmente ti faranno le feste quando torni a casa. Ma se l’impatto emotivo è cancellato o ostacolato o attenuato dalla modalità di visione che ha accompagnato l’intera storia del cinema, anche la comprensione critica diventa difficile: letteralmente, facciamo fatica a capire cosa succede. La scelta di Pauline Kael di vedere i film che doveva criticare sempre e solo una volta sola (in realtà occasionalmente li rivedeva, ma solo dopo aver pubblicato la sua recensione) può essere un po’ estrema ma ha una sua logica di rapporto viscerale con l’esperienza del cono di luce sopra di noi che attraversa il buio della sala per allagare il grande schermo davanti a noi, cioè l’esperienza dei primi cent’anni di storia del cinema.

La frequentazione dei cinema è in declino da molti anni, specie fra i giovani, e la recente epidemia non ha certo aiutato (full disclosure: è una delle cose che più mi fanno soffrire del nostro tempo, abituato come sono ad andare al cinema almeno una volta la settimana). I reboot, remake ed esplorazioni di angoli sempre più remoti degli universi Marvel e DC, come pure di vecchie franchise a volte dormienti da decenni, sembrano finalmente obbedire alla legge dei rendimenti decrescenti, mentre interi generi un tempo popolarissimi paiono del tutto spariti dal menù hollywoodiano in quanto non funzionano nel box office globale da cui ormai dipende l’industria (quell’industria che un tempo dominava il mondo e oggi è costretta a tener conto di di cosa può piacere o non piacere ai cinesi, tanto il pubblico che il governo). Così l’idea di presentare nello stesso weekend i due film più attesi dell’anno è stata vissuta come un’ultima carica di cavalleria per la salvezza dell’esperienza cinematografica tradizionale anche se c’erano seri dubbi sull’opportunità di far uscire lo stesso giorno due film così diversi, anche dopo una campagna di marketing così lunga, meticolosa e capillare da eguagliare quasi quella di Giulio Mozzi per ‘Ferrovie del Messico’. Ma invece di ostacolarsi a vicenda i due film hanno finito per produrre un feedback virtuoso, soprannominato Barbienheimer, col film più serio e difficile trascinato da quello più pop e divertente e la gente che discuteva in quale ordine vederli lo stesso giorno.

Così è finito che, in Italia, un bel po’ di gente che è andata a vedere Barbie al cinema era talmente disabituata (Buio! Sei circondato da sconosciuti! Non puoi parlare! Non c’è il tasto di stop! Né quello di rewind!) che ha avuto serie difficoltà a processare l’esperienza e parliamo di gente che il cinema l’aveva praticato fin da bambina.

Una delle scene per me più divertenti del film è verso la fine, quando le Barbie devono ingannare i Ken che hanno instaurato il patriarcato e impedirgli di trasformare Barbieland in Kendom. Il mezzo? Farsi spiegare le cose dagli uomini, che non aspettano altro. Così una Barbie chiede a un Ken cinefilo di spiegarle Il Padrino scena per scena parlando tutto il tempo sopra il film. Cioè, il Padrino di Francis Ford Coppola, un film sicuramente canonico (pure di enorme successo) e presente in tutte le storie del cinema, non un Fast and Furious qualsiasi o lo Snyder Cut della Justice League, soggetto di un’altra battuta che avrà bisogno di una nota a piè pagina in un vicino futuro.

A parte la saggia lezione di vita – puoi avere anche buon gusto e buone letture e essere lo stesso un rompicoglioni galattico (lo so, sto correndo un bel rischio qui) – e il coraggio di prendere affettuosamente per il culo non solo i Ken cinefili ma proprio la vacca sacra stessa, questa scelta si lega non solo alle critiche al film in quanto ‘woke’, ‘predicatorio’, ‘ideologico’ e ‘che ci fa la morale’ ma anche alla sua relazione con Il Padrino e la storia del cinema in genere.

Prima di passare a quello che mi piace davvero – suggerire un abbozzo di teoria critica sulla base di frammenti di oscuri autori del passato che conosco solo io usati più per il potere evocativo di un’autorità immaginaria che per effettiva forza logica – sbrigo un attimo la pratica critica: ma stiamo scherzando?
Per gli Allan come me, grazie al loro punto di vista privilegiato, l’unica spiegazione possibile è una reazione istintiva e un po’ isterica di certi maschi verso QUALSIASI discorso femminista, anche così giocoso e rosa come nel caso di Barbie.
Il discorso di Anna Ferrera non è solo efficace e, come dire, vero, ed è pure usato efficacemente come strumento comico, nella scena in cui viene usato come formula magica per decondizionare la Barbie rese insensate dalla parodia di patriarcato messa su dai Ken guidati da Ryan Gosling. E diciamo, di recente si sono visti di rado al cinema maschi così adorabili  (c’è persino il Kingsley Ben-Adir che faceva il medico legale in una delle mie serie tivù preferite, ‘Vera’), adorabili persino nella lora fase ‘patriarcato’ e persino giustificati nelle loro pretese, visto che all’inizio si trovano – comme par hasard! – al posto delle donne in quella classica e scomoda posizione che persino un predatore sessuale non pentito come Lord Byron capiva benissimo, come dimostra la lettera dal convento di Donna Julia a Don Juan:

Man’s love is of man’s life a thing apart, 
’Tis woman’s whole existence; man may range
The court, camp, church, the vessel, and the mart;
Sword, gown, gain, glory, offer in exchange
Pride, fame, ambition, to fill up his heart,
And few there are whom these cannot estrange;
Men have all these resources, we but one,
To love again, and be again undone.

– che in un certo senso è quello che succede nel film, con la differenza che la povera Julia passerà la vita in un convento e non ne sentiremo più parlare nei successivi 15 canti del poema mentre i Ken torneranno sottomessi ma un po’ meno di prima, dato che le Barbie si sono finalmente accorte di loro e quindi potranno vantare una maggiore consapevolezza sé – I’m Kenough.
(Poi se proprio è necessario, ammettiamo che il lungo finale col discorso di Ruth Handler e i filmini casalinghi delle donne che hanno lavorato alla produzione del film possa essere stato un po’ prolungato e tranne la memorabile battuta finale funzioni un po’ meno bene – cioè, secondo me no, però capisco l’obiezione).
Se da una parte – quella del ‘non tutti i maschi’ – c’è una reazione istintiva che si finge estetica, quella per cui i film non devono ‘predicare’, dall’altra Barbie è stato criticato perché non abbastanza ‘rivoluzionario’, un film ‘aziendale’ che gioca col femminismo ma che non ha nulla di davvero radicale.
Esticazzi, verrebbe da dire, visto che si tratta di un mix, con momenti di incertezza (tipo le scene negli uffici della Mattel), fra la sensibilità di una regista femminista indie e un gigantesco spot pubblicitario per un prodotto da rilanciare: davvero ci si aspettano messaggi rivoluzionari da un film del genere?
Se poi uno considera che ad aspettarselo è gente che da tempo sconfitta su praticamente tutti i campi di battaglia e che si è ridotta a credere di poter lottare attraverso opere d’arte prodotte e promosse da quelli che dovrebbero essere i suoi nemici (sono loro stessi a dirlo) invece che attraverso l’azione politica organizzata, vista come troppo sbattimento; se poi uno considera che lo scenario sia globale che nazionale vede la contrapposizione fra forze capitaliste e forze ancor più capitaliste, fra ‘liberali’ e ‘sovranisti’ e in cui il messaggio femminista finisce per essere tollerato più facilmente dalle prime, qui rappresentate dalla Mattel, graziosamente pronta a prendersi un po’ in giro, che dalle seconde e quindi gli spazi d’azione sono quelli che sono, visto che in certi paesi il film viene pure vietato perché incoraggia l’omosessualità (?!?); se poi uno considera che la natura dei messaggi che possono essere fatti passare in un medium così costoso è sempre più ambigua (pensate alla prima puntata dell’ultima serie Netflix di Black Mirror in cui l’accusa contro la piattaforma di streaming viene trasmessa proprio sulla stessa piattaforma e sul punto che pochi mesi dopo è al centro dello sciopero degli attori americani, cioè la possibilità di registrare l’immagine degli attori per poi manipolarla digitalmente a piacere e francamente uno a quel punto si chiede come sia possibile che l’abbiano passata); se poi uno considera che la satira è uno dei generi più discutibili del canone, perché se ‘la poesia non fa succedere niente’, come ricorda W.H. Auden, con la satira, che pretende di avere una funzione morale e sociale, è anche peggio, se come diceva William Cowper nel Settecento, cioè un secolo famoso per la sua grande satira, questo genere funziona giusto contro qualche moda ridicola o figura di secondo piano ma fallisce miseramente contro i vizi eterni e il potere vero perché ‘Alas! Leviathan is not so tam’d’; se poi uno considera, come ricordavamo sopra, che il cinema comico, almeno negli Stati Uniti, è praticamente scomparso perché non funziona dal punto di vista del box office globale (e figuriamoci il cinema satirico, che non è mai stato particolarmente popolare in quanto troppo legato a personaggi e fenomeni spesso effimeri e ancor più spesso locali) e quindi la comicità si è ritirata in televisione dove fra serie e stand up se la cava alla grande, beh, allora direi che Gerwig e Baumbach (e Mattel) hanno fatto del loro meglio con le carte che avevano in mano.
E hanno fatto bene a farlo, anche con tutti i limiti, sia storici che attuali, del genere satirico ma in generale di tutta l’arte che pretenda di dire qualcosa sul mondo, che poi è l’arte che conta sul serio (benché io sia il primo a riconoscere che anche l’arte come decorazione ha un suo perché).

Nel 1948 il futuro Accademico di Francia Roger Caillois pubblica un suo breve ‘Vocabulaire Estétique’ (l’edizione Bompiani che ho io riporta anche il discorso commemorativo su di lui che i nuovi membri dell’Accademia devono fare sul loro predecessore scomparso e Caillois fu così fortunato da essere commemorato da Marguerite Yourcenar). Caillois prima della guerra era stato un surrealista, vicino in particolare a Bataille, Leiris e Klossowski, i fondatori del Collége de Sociologie, ma tornò dall’Argentina, dove trascorse la guerra, un convinto e determinato classicista.
Uno dei brevi capitoli del Vocabulaire si intitola ‘Letteratura edificante’ e comincia con una dichiarazione di guerra estetica:

“Lo confesserò senza esitare: in genere, mi piace solo la letteratura edificante”.

Il bersaglio polemico di Caillois è la dottrina dell’arte per l’arte, una dottrina nata alla fine dell’Ottocento e che si è reincarnata in varie forme nel successivo secolo e mezzo, comprese le teorie post-strutturaliste per cui conta solo il testo e il suo rapporto con altri testi, scartando il rapporto col reale, dal significato al significante senza passare per la cosa, e le ricorrenti polemiche ‘contro l’impegno’ e a favore del sogno di Flaubert di scrivere un romanzo ‘sur rien’, sogno realizzato pienamente solo più di un secolo dopo da Jerry Seinfeld.

“L’arte per l’arte: la cosa non esiste che per i tappeti, a condizione di appenderli al muro. Per il resto, l’idea non è chiara né pensabile. Perché voi non potete impedire che le parole abbiano un senso che comporta un’adesione del cuore o dello spirito. Come riuscirete, adoperandole, a non fare un’opera che non implichi, in qualche misura, la morale o il pensiero? Volete fare in modo che non ce ne sia per niente? Sia pure; ma intanto non ci arriverete mai, e il vostro stesso sforzo denuncia un atteggiamento etico e intellettuale. Negativo, è vero, ma pur sempre un atteggiamento e per di più volontario”.

Insomma, le parole hanno un senso sempre e comunque e non si può far finta di non saperlo. L’unica è farlo consapevolmente e bene, oppure farlo inconsapevolmente e quasi automaticamente male. Questo senso è spesso, se non sempre, politico. Ora, per fare un esempio un po’ stupido, io negherò sempre con tutte le mie forze che vi sia un messaggio morale o politico o sociale nelle comiche di Laurel e Hardy, che amo tantissimo, ma si tratta di prodotti commerciali con uno scopo semplice e dichiarato: far ridere. In questo si tratta di arte estremamente funzionale e tutt’altro che indifferente al suo scopo: il cliente paga per ridere e se non ride l’opera fallisce, per quanto raffinata e originale possa essere.

“Che si direbbe di un falegname che, costruendo un tavolo, non si preoccupasse che dell’approvazione di amatori e curiosi e non di quella di chi l’userà?”

Mettiamola in un altro modo: viviamo in un paese che contiene circa il 5% di tutti i siti Unesco per l’arte. Non il 50% o il 70% come spesso si sente dire dai, ehm, ‘patrioti’: ma considerato che siamo l’1% della popolazione mondiale restiamo ampiamente sovrarappresentati. Bene, quasi tutta questa grande arte, tutti le opere nei nostri musei, le nostre chiese, i nostri palazzi, le nostre piazze, è arte di propaganda, religiosa o temporale, tutta arte che cercava di far giungere un messaggio al suo pubblico e se è vero che a un certo punto ha cominciato a trovare una sua autonomia estetica, cioè non è stata considerata più solamente dal punto di vista funzionale ma anche per il talento e il ‘genio’ dell’autore, la sua funzione propagandistica ha continuato a predominare fin quasi ai nostri giorni, visto che anche l’arte che pretende di combattere o smascherare quei poteri che un tempo commissionavano chiese e palazzi e affreschi celebrativi non può fare altro che propaganda, bene o male. Del resto lo sappiamo, l’unica propaganda che ci da davvero fastidio è quella degli altri: nessuno degli ammiratori dei Rocky e dei Rambo di Sylvester Stallone si è mai lamentato delle massicce dosi di propaganda, anzi, arrivano pure a negare che ci sia o che sia importante. E quanto al ‘Trionfo della volontà’ di Leni Riefenstahl hai voglia a dire che, beh, è un congresso di partito con un mucchio di discorsi politici: i competenti ti diranno che non è quello il punto e devi considerare solo l’indubbia maestria tecnica (e poi sono gli stessi che trovano divertente ripetere che ‘la Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca’. Insomma, quelli).

“So di cultori dell’arte che si irrigidiscono, se solo sospettano in un’opera il minimo disegno di moralità. La trovano subito detestabile. Stupirebbe il contrario, perché essi si sono preventivamente impediti di gustarla. Si gonfiano come il riccio, tutto spine al di fuori”.

Nella realtà non visitiamo i musei condannando le Crocifissioni o le Madonne con i Bambini perché si tratta di propaganda o, peggio ancora, perché ‘è tutto falso’, così che quando un Odifreddi contesta l’importanza della Divina Commedia perché la cosmogonia dantesca è ‘sbagliata’ e Inferno, Paradiso e Purgatorio ‘non esistono’ lo consideriamo con il disprezzo che merita, pur senza sottoscrivere la teologia o le teorie politiche di Dante: basta sapere che furono importanti per lui e che senza la sua fede nell’aldilà o il suo odio per i Neri non ci sarebbe stata Commedia (così che non possiamo seguire nemmeno il ben più rispettabile Benedetto Croce quando pretende di giudicare solo la poesia di Dante, i frammenti lirici ritagliati dal tessuto teologico-politico come pure intuizioni).

Il problema vero poi è un altro e a pensarci è pure un po’ ridicolo.

“Alcuni decidono. Li abbiamo visti difendere le Lettere solo dai buoni sentimenti. E’ con questi che, a loro giudizio, si fa cattiva letteratura (…) Perché avvantaggiare così i sentimenti che l’opinione comune fa ritenere i più detestabili? Si lascia quasi pensare che con essi si faccia immancabilmente della buona letteratura, come se ne fa di cattiva con quelli buoni. Non è vero niente, si sa bene!”

Ed è talmente tanto il vero problema che ci torneremo un’altra volta. Basti sapere che quel che un film o qualsiasi altra opera d’arte ‘dice’ conta. E questo ci riporta al Padrino.

Non so chi disse che non esiste un capolavoro perfetto e che se un’opera d’arte è perfetta allora è indubbiamente degna di stima e ammirazione ma non è un capolavoro.

Ora, il Padrino (si intendono le prime due parti, quella del 1972 con Marlon Brando e quella del 1974 con Robert DeNiro, oltre che Al Pacino, Robert Duvall, Diane Keaton etc – il terzo, mi dispiace, proprio no) è problematico proprio per quel che dice esplicitamente oppure non dice.

Prima dell’uscita del primo Padrino ci furono parecchie proteste da parte della comunità italo-americana, tanto che una sedicente Lega per i Diritti Civili degli Italo-Americani, guidata da un, ehm, ‘uomo d’affari’ di nome Joe Colombo (che finì per prendersi qualche pallottola proprio a un raduno della Lega) e dedita a combattere gli stereotipi etnici che colpivano il buon nome della comunità, in particolare l’idea che tutti gli italiani fossero mafiosi, tanto fece che in tutto il film non vengono mai pronunciate le parole ‘Mafia’ e ‘Cosa Nostra’.

Quando poi il film uscì, beh, gli italo-americani lo amarono, specie i mafiosi. Questi ultimi, come molti americani, ricorrevano alla cultura popolare, all’epoca quindi soprattutto al cinema, per trovare modelli di comportamento adeguati e in effetti fino a quel momento non li avevano trovati. Ora, invece, sì, oh sì, eccome! Ecco, questa è la real thing! Questi siamo noi, come non siamo mai stati! Vi risparmio le numerose citazioni ma fidatevi, andò così. Del resto, lo disse anche Orson Welles, uno che di gangster degli anni Quaranta ne aveva conosciuti un bel po’: ‘Il Padrino è l’esaltazione di una banda di straccioni che non è mai esistita. I migliori? Gente che al massimo potrebbe guidare un camion. Bifolchi. Il gangster di classe fu un’invenzione di Hollywood. Divenne l’ideale di tutti i gangster veri, che all’epoca di George Raft iniziarono a vestirsi come George Raft, tentarono di comportarsi come George Raft, e così via’.

Ovviamente non era l’idea di Coppola, ma dovendo portare sullo schermo con un minimo di fedeltà l’improbabile polpettone di Mario Puzo la sua sensibilità, per la quale il potere corrompe (e indubbiamente lo vediamo corrompere il vero protagonista, Michael Corleone) dovette scendere a vari compromessi. Tanto per cominciare, la causa scatenante della guerra fra cosche del primo Padrino è il rifiuto di spacciare droga da parte del saggio padrino Don Vito Corleone. Quando questi è ferito e l’erede designato Sonny è ucciso, il figlio che doveva essere tenuto lontano dagli affari di famiglia, Michael, è costretto a prendere in pugno la guida della famiglia e eliminare tutti i rivali. Quindi niente droga? In fondo i buoni hanno vinto, no? Ecco, non proprio; il tema viene in un certo senso lasciato cadere: facciamo finta che Cosa Nostra, così protettiva dei valori familiari, non distrugga le famiglie americani con tutta quella brutta droga.

In compenso il Don Vito Corleone di Marlon Brando e Robert De Niro è presentato come un modello weberiano di dominio sia tradizionale che carismatico e ovviamente molto maschile, mentre il più freddo e tormentato Michael di Al Pacino si trasforma in una versione dark del potere razionale-legale.

Cinematograficamente, lo sappiamo, è un film fantastico: il giovane Francis Ford Coppola esce dalle sue difficoltà tematiche con un clamoroso salto in avanti stilistico e siamo costretti ad ammirare i Corleone, come siamo costretti a esultare quando il Settimo Cavalleria arriva per salvare la diligenza piena di bianchi dall’assalto degli indiani in Ombre Rosse. Ma secondo alcuni esperti il Padrino potrebbe aver allungato di qualche anno la vita della mafia italo-americana, già all’epoca in crisi di vocazione (cioè, c’è già nel film, Michael è costretto a succedere al padre, molto contro le sue inclinazioni e anche contro il volere di Don Vito: chi vorrebbe davvero fare il criminale se può avere di meglio? Chi vorrebbe vedere il proprio figlio più intelligente fare il criminale?).

Le storia del cinema è costellata di grandi film che vengono male intesi dal pubblico. A volte chiaramente contro la volontà degli autori: Dino Risi non voleva esaltare l’Italia del Boom nel ‘Sorpasso’, anzi il contrario, come Scorsese non voleva fornire un modello a una generazione di tech bros con il Leonardo di Caprio di ‘The Wolf of Wall Street’. Altre volte, come nel caso dello ‘Scarface’ di Brian De Palma o dell’’Arancia Meccanica’ di Stanley Kubrick non sappiamo esattamente cosa passasse per la mente del regista anche se probabilmente non era quella di fornire esempi di criminalità. Il caso peggiore resta però sempre ‘Nascita di una nazione’ di D.W.Griffith. È ben possibile che Griffith non volesse specificatamente alimentare la violenza razziale negli Stati Uniti, ma fu quello che fece. E se non se ne rese conto, e decisamente non se ne rese conto tanto da fare l’offeso di fronte alle critiche e ai boicottaggi delle organizzazioni nere e progressiste (tanto da lamentarsi con un secolo d’anticipo della cancel culture e del politically correct) la sua falsa coscienza era decisamente monstre. Il film provocò riot razziali con numerose vittime subito dopo la prima, un successivo netto aumento dei linciaggi che da anni erano numericamente stazionari e la rivitalizzazione del KKK, che negli anni Venti si estese anche fuori dal Sud e giunse a un passo dal conquistare l’intero partito Democratico.

Aggiungiamo poi che il Padrino finisce per essere ammirato anche dai non italo-americani come film ‘maschile’ che fornisce modelli di comportamento anche se i suoi ammiratori della manosphere più che alla saggezza di Don Vito e alla freddezza chirurgica di Michael finiscono per somigliare a Sonny (James Caan) e Fredo (John Cazale), i due figli che fanno una brutta fine, sbruffone il primo e incapace il secondo. Mettici poi che quando il Ken Cinefilo comincia a esaltare il film non cita Coppola ma il produttore, Robert Evans, una versione parecchio più sexy e più drogata di Harvey Weinstein (quest’ultimo, che io sappia, non fu mai indagato per omicidio) – well, you get the point.

Concludendo. ‘Barbie’ merita tutto il successo che sta avendo e non merita le critiche che generalmente gli vengono rivolte. Gerwig e Baumbach entrano nel vivo delle guerre culturali americane, guerre che negli Usa hanno già provocato e ancor provocheranno dei morti veri, con un’intelligenza critica viva e un tocco splendidamente leggero, armati solo di un budget miliardario, di una discutibile icona e delle armi spuntate della satira. Se vogliamo trovare un difetto al film, difetto che forse gli impedirà di diventare davvero memorabile, è proprio la troppa intelligenza, il far capire troppo chiaramente quel che vuol dire e pure tenendo conto delle opinioni degli avversari, mentre l’arte, se non si fa coi cattivi sentimenti del politicamente scorretto (se proprio ci dev’essere mediocrità allora meglio a fin di bene che a fin di male), vive pur sempre di una certa ambiguità polisemica e a tratti pure confusa.

Ok, direi che basta, per questa volta. Andatelo a vedere e mi raccomando, anche ‘Oppenheimer’.


Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *