Il tempio

di Mariel
Copertina di Alessandra Procaccio – Oltre il limite (incisione su lastra di zinco)

Comoda, al bordo del letto, apro piano le gambe davanti a lui, seduto su una sedia a un metro da me. Sempre la stessa scena. Mi guarda negli occhi. Gli sorrido appena. Avverto un fremito nelle sue pupille. Le sta costringendo a star fisse sul mio volto. Vacillano. Quella sinistra sta per crollare, lo vedo chiaramente, ma forse è solo colpa dello strabismo.

Lucio sta per varcare la porta del tempio. Ma la prima cosa che fa è pensare al Cristo in croce. A testa in giù. Come un albero – gli alberi, pare, abbiano il capo nelle radici e i piedi liberi per aria. È un cattolico che vuole sperimentare un dio diverso. Quello cristiano lo deprime, lo castra e lo colpevolizza, ma non lo lascia. È l’unica certezza che ancora ha. A cui si sforza di credere.

Prima di cambiare, prima del salto oltre il recinto – vuole evitare la parte della pecorella smarrita –, vuole certezze. Di un aldilà, di una possibilità di redenzione, di una libertà del corpo, di un cazzo di contratto. Un patto col diavolo, pure, purché resti. Vuole fisicità. Contatto. Un pezzo di carta che possa tenere in tasca. Nel taschino della camicia lisa, vicino al petto. Che lo senta battere quando è felice, che non gli dia noia.

Lucio ha chinato gli occhi. Prega. Prega la mia vulva: che gli mostri l’infinito, che gli sveli un arcano, un grande senso di carne, che gli sputi fuori la chiave per il paradiso.

«Avvicinati!», lo incito, lo invito. Lo stuzzico con le dita di un piede. La mia vulva gli fa l’occhiolino. Lui ancora tentenna. Mi esaspera. Cosa cerca? Cosa aspetta?

«Svuota la mente. Il piacere è adesso, qui, anche solo per un istante… proviamo a raggiungere il nirvana insieme, dai…», sussurro.

Lucio, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, lavora in fabbrica. Un edificio che lo incasella e lo piega, come la sua chiesa. Tutti i sabato, poi, va al casino Dell’Osso, civico 6. Cerca lei. Sempre. E tutte le domeniche va a confessare i suoi sabato di ricerca. E tutti i sabato tradisce la chiesa col tempio.

Dispiegami i significati della carne e rendimene degno. Dammi la forza di godere, libero, di farla godere senza il peso addosso del peccato. Senza disprezzare l’odore e il sapore della carne che sto per leccare. Amen.

Si inginocchia davanti a me. S’immagina su un altare?! E io, la statua del suo peccato?! La sua Eva?

C’era una tradizione nel mio paese. Raccontano di un miracolo – un caso fortuito, certo: un vitellino s’inginocchiò ai piedi della statua del santo patrono durante la grande festa. Poi, ogni anno a maggio, però, il miracolo doveva replicarsi. A tutti i costi. Il vitellino veniva invogliato a piegarsi, a suon di mazze e pungoli e zampe rotte. Sanguinava, tanta era la sua devozione; il dolore a provarne l’autenticità. Ad anticiparne la sorte già scritta. Poi “gli animalisti hanno rovinato tutto!”, hanno spezzato il miracolo, e le macellerie son state sollevate dalla ricerca del prescelto. Un caso fortuito, certo.

Ma qui non c’è violenza, nessuna costrizione…

Lucio si piega in avanti e chiude l’occhio sinistro. Forse lo sta punendo per aver ceduto per primo, senza permesso. Con l’altro guarda dentro la vagina come attraverso un telescopio; ma non troverà stelle a luccicare nel buio. Solo tenebra e spasmi.

Lucio vuole arrivare in fondo, al fondo. Si allontana. Strizza gli occhi. Mette a fuoco. Riprende a scrutare.

Io sono qui. Respiro e inizio a provare disagio. Il respiro si accorcia. È un tipo strambo, sì, ma innocuo e di solito parla molto. Perlopiù tra sé e sé. Oggi, dopo il rituale della preghiera e del segnarsi addosso la croce, si è perso nel mio tempio…

Lucio alza gli occhi, al soffitto ammuffito, a un ipotetico cielo coperto. Fa una smorfia che non decifro, ma non è rivolta a me, è in un dialogo muto col suo dio.

Lancia un urlo che sembra un’invocazione, solleva le braccia e poi, deciso, porta le mani agli occhi. Se lo toccassi toccherei la disperazione.

Non ho molti compagni fissi. La maggior parte si accontentano di uno svago qualsiasi – mezz’ora al massimo – per svuotare la mente, con chiunque sia liberə.

C’è Marco, che non mi guarda e non vuole essere guardato – mi chiede gentilmente di chiudere gli occhi: mi scopa e via, eppure vuole solo me. Son sicura che, a occhi chiusi, studi i miei lineamenti.

Il signor G, invece, mi lega e mi accarezza tutta fino allo spasmo. Sono inerme. Mi porta al limite, s’interrompe – per pochissimo – e ricomincia daccapo. Mette Beethoven in sottofondo: ne segue il ritmo. Torna due volte alla settimana e resta per due ore. Non lo sopporto ma paga benissimo. Non so nulla di lui.

Un altro urlo e vedo le dita di Lucio affondare nella carne: afferrano i bulbi e li tirano via. Li ha divelti. Gli occhi nelle mani gocciolano sangue e le pupille, di un blu vivido, roteano impazzite. I nervi sfilacciati si dimenano come la coda tagliata di una lucertola. Quanto resiste un corpo reciso?

Adesso ho paura. Ancora un urlo, il terzo, rovinoso: infila gli occhi, con le mani e le braccia fino al gomito, su per la vagina. Ne seguo mentalmente il percorso, ripasso la mia anatomia: oltrepassa la cervice, poi conduce il suo sguardo strappato ai lati del mio utero e attraverso le singole tube arriva alle ovaie e ce li accomoda. Ce li pianta. Sono terra fertile. Il sacro ventre per la nascita del suo personale dio.

Intanto ho raggiunto l’orgasmo, tra gemiti incontenibili per la doppia penetrazione. Dolore e stupore e fastidio e terrore sono montati ed esplosi nel piacere. Lui lo vede dall’interno, vede colare il mio liquido. E io lo vedo, ora, lo vedo estrarre e rialzare le braccia mucose al cielo, il volto con le nere orbite vuote, e lo sento mormorare qualcosa: ringrazia dio? impasta sangue.

Sputa. Forse, stava bestemmiando per non aver trovato nulla. Neanche questo sabato. Né in nessun altro.

Chi toglierà ora i suoi occhi a scrutarmi dentro?


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