Il Desert Rock Museum e altre storie

di Valentino Szemere
Copertina di Ivan Jakovlevič Bilibin – Cartolina di folklore russo

Lo incontrai per caso quel menestrello agghindato sulla panchina di un parco. Aveva un accento americano, ma parlava sciolto e forbito. Una folta barba bianca e due occhi azzurri, vivaci. Senza preamboli volle raccontarmi una storia.
«Mio nonno era medico condotto nell’Oregon.
Era il 1922, il Far West all’epoca.
Un giorno arriva uno trafelato a dirgli che John Qualcosa è stato morso da un serpente a sonagli. Mio nonno salta in sella. Due giorni al galoppo, pancia a terra. Arriva che il poveraccio è già morto. La vedova non gliene fa una colpa, anzi, si impietosisce per quel disgraziato coperto di polvere con la schiena a pezzi.
‘Come compenso prenda gli stivali di mio marito,’ gli dice ‘Sono nuovi.’ Mio nonno li prova, gli vanno un po’ stretti, ma comunque li tiene, ringrazia e rimonta in sella. E non fa caso al fatto che c’era qualcosa in quegli stivali che gli ha graffiato il piede. Mentre ritorna inizia a stare male, arriva a casa e dopo un giorno muore. Senza neanche sapere perché. Senza capire che in quelli stivali c’erano conficcati i denti del serpente a sonagli. Capisci? Secco a quarant’anni per una buona azione. Meglio non pensare alla morale di questa storia.»

Il vecchio si fermò, lo sguardo verso l’orizzonte, tirando brevi boccate dal sigaro.
«Così tanti ricordi…» disse infine sospirando «Quando scendi da Las Vegas, dal Nevada verso la California, c’è una strada a destra che entra nel deserto della Death Valley. Le montagne sono colorate come se le avesse disegnate Walt Disney: azzurre, rosse, rosa, uno spettacolo. C’è questa strada dritta come un fuso che finisce in un punto davanti e in un punto dietro, i pali del telefono come una teoria di T fino all’orizzonte. Ci sono serbatoi di emergenza per l’acqua in caso ti vada in ebollizione il radiatore e contenitori in cima a dei pali con dentro foglietti che avvisano che nel deserto si muore e di non lasciare la macchina qualunque cosa accada che altrimenti non ti trovano più.
Giusto prima di entrare nella valle, c’è una casupola di legno con il portico davanti e un’insegna. Belle lettere rosse e verdi, su un asse lunga come il portico. The Desert Rock Museum.
Quando esci dall’auto ti assale un caldo secco, come mettere la testa nel forno, ti prende alla gola. Tutto attorno è luce. Il bianco accecante dei laghi salati, le rocce calcinate, il cielo di un azzurro intenso, il vibrare dell’orizzonte dietro alla velina ondulata dell’aria calda che sale. In ogni motel c’è la macchina del ghiaccio e io ci riempivo una scatola di polistirolo prima di partire e, guidando nel deserto, me ne mettevo dei pezzi sulla testa – pezzi di ghiaccio, non di polistirolo. Avevo una vecchia Chevrolet rosa comprata da un nero a Los Angeles. L’aria condizionata non funzionava, se per questo neanche i tergicristalli, ma era una gran bella macchina. Quando passavo di lì mi fermavo sempre al Desert Rock Museum. Scendevo dall’auto e battevo i piedi sulle assi del portico per liberare gli stivali dalla polvere e anche per avvisare che stavo arrivando. La porta aprendosi suonava un campanello e bisognava fermarsi ad abituare gli occhi alla penombra. A sinistra c’era un banco con la cassa registratrice, in mezzo al locale delle vetrine basse piene di sassi e minerali, punte di frecce indiane, vecchi monili, tronchetti di legno pietrificato, strumenti dei cercatori d’oro, ossa di animali, e persino, a dar credito ai cartellini, piccoli meteoriti. Tutto cercato e raccolto nel deserto dal padrone del museo.
In fondo al locale c’era una tenda a strisce colorate e, dietro, una stanza, una cucina e un cesso. Dopo un po’ che ti aggiri con la schiena curva guardando opali, turchesi, fossili e punte di frecce, la tenda si scosta ed entra lui. Di solito ha in mano una tazza di caffè, jeans lisi e strappati, una camicia scacchi, stivali alti di pelle di serpente. Uno Stetson in testa, naturalmente, anche in casa. Senza parlare va a sedersi dietro alla cassa. Possono succedere due cose: che il turista dica una stronzata, tipo: ‘cos’è quella pietruzza azzurra?’ oppure: ‘ma sono frecce vere?’ e allora lui si alza e sparisce dietro la tenda. Oppure che il visitatore dica la cosa giusta: ‘prendo quell’opale’ o ‘non sapevo che i Chichones si spingessero tanto a sud’, allora sorride, guarda il tuo acquisto quasi volesse salutarlo, fa un pacchettino di carta marrone e ti accompagna alla porta. In fondo è felice quando torna il silenzio.
Per me fece molto di più. Mi raccontò la sua storia.
Sai come si chiamava? John Smith? Bill Coyote? No, Ernst Imholz, di Immensee, Svizzera. Uno che dov’era nato non poteva sputare senza prendere un altro abitante, che non ha mai potuto guardare oltre il suo braccio senza vedere una montagna, in un paese dove anche le mucche quando s’incontrano si salutano, è andato a vivere in mezzo al deserto.
Lui in realtà voleva andare in California. L’avevano trovato a letto con una ragazzina di 17 anni, a Immensee. Oddio, non proprio a letto, ma insomma, non giocavano a carte. Ma non era un pedofilo. Cioè non era uno che correva dietro ai bambini. Era un tranquillo impiegato che nel tempo libero costruiva treni a vapore. Da zero, con il tornio e non so quali altri macchinari, ogni ingranaggio, la caldaia, tutto.
Lei abitava nella casa a fianco e la domenica veniva a vedere i treni e chiedeva cos’è quello? e rideva e diceva sei bravissimo! Poi gli raccontava che suo padre era sempre arrabbiato, che suo fratello la fotografava nuda e vendeva le foto a uno che portava una cravatta rossa e che il fratello a furia di foto si era comprato un motorino e sua madre aveva fatto spallucce dicendo che per una fotografia non era mai morto nessuno. Quel giorno la ragazzina si era messa a piangere perché il fratello aveva detto che il cliente voleva qualcosa di più e non fare la stupida che ti fai il walkman.
Da non crederci: Ernst l’abbraccia e decidono di scappare insieme, come in un romanzo rosa. Lei dice di sì e si lascia abbracciare.
Che ne so, la ragazza avrà pensato che se doveva farlo era meglio cominciare con uno che costruiva trenini.
Li scoprirono e il legame del sangue fu più forte del grande amore. Lei disse ‘Papà, mi è saltato addosso, ho avuto così paura, portami a casa.’. Il padre della ragazza pestò Ernst per un pomeriggio intero. Poi il fratello della ragazza gli incendiò la macchina, e la gente gli tirava sacchetti pieni di merda di cane contro la porta. Una bambina era stata violentata in un bosco l’anno prima e due più due fa sempre quattro. Prima che la polizia venisse ad indagare, se ne andò in America. Qualcuno a cui chiese un passaggio gli spiegò che per vivere in America ci vuole un permesso di soggiorno e lui questo come svizzero lo capiva benissimo. Oppure che poteva pagarsi un po’ di protezione e comprarsi dei documenti, e questo lo capiva molto meno. Gli disse anche che se restava nel Nevada, in un posto fuori mano, testa bassa e non dava noie, ci avrebbero messo anni a trovarlo. E così è finito nel deserto. Parola mia quando quello muore ne faranno una leggenda e la gente andrà visitare la sua catapecchia dove ci saranno dei cartellini che dicono qui dormiva, qui mangiava. Un vero pioniere, forgiato dal sole e dal vento, magari gli fanno una statua.
Vicino al letto ha ancora la foto della ragazzina e un biglietto scritto da lei che dice che lo ama. Aveva il biglietto in mano mentre il padre lo pestava e non l’ha più mollato. La foto è una di quelle che ha fatto il fratello: Ernst ha ritagliato la testa e ha gettato il resto. Un quadratino lucido che gli impedisce di dimenticare. Perché se dimentica potrebbe avere voglia di tornare…».

«E quella volta che sono andato a sparare ai coyotes nel deserto?
Mi trovavo in un paesino del Nevada. Avevo fatto amicizia con due ragazzotti in un bar del paese. Uno era un militare di stanza in una base dell’aviazione lì vicino, l’altro un povero cristo che girava a vendere assicurazioni. Alla decima Bud, uno dei due dice: c’è un cartello in piazza: danno cinque dollari per ogni coyote morto che porti allo sceriffo, per via delle pecore uccise negli ultimi tempi…
Il militare picchia una sberla sul tavolo e urla ‘great! Let’s go get’em. Ho la jeep. Di notte restano abbagliati dai fari e bang!’.
Partiamo e iniziamo a scorrazzare per le dune. Uno spasso! ‘Eccolo, guarda, a destra! Dove, dove che non vedo? To your right, asshole! There it is!’ Bang! E giù birra e risate.
La mattina dopo, con il nostro bottino ammonticchiato sul cofano, parcheggiamo di fronte all’ufficio dello sceriffo e iniziamo a scaricare i cadaveri.
Ci si fa attorno una piccola folla. Silenzio di tomba.
Noi si rideva e ci facevamo la foto con il piede sui coyote e il fucile in mano. Esce lo sceriffo, sigaro in bocca, dita nella cintola. Guarda i coyote, si avvicina a noi e dice: ‘Consiglio: girate la macchina e sparite in fretta e ringraziate il vostro amico in divisa se non vi sbatto dentro. Ho un debole per i G.I. ma gli altri qui in paese saranno meno teneri quando si accorgono che avete ammazzato quattro cani da pastore…
I tell you, we left that place come fulmini, senza voltarci indietro’.
L’uomo puntò il bastone a terra alzandosi. Si girò verso di me disegnando l’aria con il sigaro.

«Ci sarebbe così tanto da raccontare… Ce le portiamo dentro le storie, ma se non le racconti muoiono.
Le auguro una buona giornata».

Poi si allontanò picchiettando il bastone sulla ghiaia del viale.


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