Pelle di serpente

di Tiziana Lunardi
Copertina di Ivan Jakovlevič Bilibin – Vassilissa nella foresta

È ottobre, il mio mese preferito. Sono in aereo, ho preso quindici gocce di Lexotan e ho ordinato una costosissima bottiglia da 25 cl di vino rosso che sa di schifosissimo aceto. In aeroporto ho comprato due libri: Lettera al mio giudice di Simenon e un libro scritto da un ex membro delle Bestie di Satana.
Chissà, forse a vent’anni, se mi ci fossi trovata in mezzo, mi sarei lasciata anche io trascinare dal gruppo. Faccio schifo a dire di no alle persone.

Ieri sera, per entrare nello spirito giusto, ho riguardato The Love Witch. Un cazzo di capolavoro.
Nella prima scena Elaine, la protagonista, guida una macchina guardando dietro di sé attraverso lo specchietto, come in quella scena di Psyco.
Anche lei sta tagliando la corda. Tutte le belle storie iniziano con qualcuno che taglia la corda.

Comunque, avevo una zia che dopo cinquant’anni di lavoro e nemmeno un giorno di malattia è andata in pensione. In quel momento ha cominciato ad ammalarsi. Si ammalava di continuo, come se, all’improvviso, il suo corpo si fosse ricordato di essere solo carne. È morta un anno dopo.
Quindi ciao, un saluto veloce e il bianco grigiastro del mio ufficio è già sfocato, come un incubo quando metti giù i piedi dal letto. Chiudo gli occhi. Il Lexotan sta facendo effetto.

Mi sveglia la voce squillante di un’hostess. Stiamo atterrando, metti la cintura, alza il sedile e bla bla bla. Arriviamo a Bristol in perfetto orario. Solita trafila, controllo passaporti, recupera il bagaglio. Ho prenotato una stanza in un cottage nel piccolo villaggio del Meare, poco lontano da Glastonbury. Meare Manor, si chiama. È un imponente edificio in pietra circondato solo da brughiere. Cerco un autobus, piove e io non ho l’ombrello. Non ho mai avuto un ombrello. I capelli mi si appiccicano al volto, la ruota della mia valigia è difettosa, così ogni dieci metri si gira e si impiglia da qualche parte. La sbatto per terra. Le persone camminano veloci e mi vengono addosso, cercando di evitare le gocce che scendono dal cielo come aghi sottilissimi. È una pioggia fastidiosa, non di quelle belle, con le gocce cicciotte che ti lasciano fradicio e allegro.
Ecco, lo vedo. A una ventina di metri da me c’è un autobus dove lampeggia la scritta Glastonbury. Faccio il biglietto e salgo al piano superiore. Mi piace che all’estero gli autobus abbiano quasi sempre due piani. Le persone guardano meno il cellulare.
L’autobus lascia Bristol e io sprofondo nell’umida campagna inglese. Si susseguono persone con sguardi seri e k-way gocciolanti. Il mio cuore rallenta. Dopo poco più di un’ora un ragazzo gentile mi indica la mia fermata.

Sono la sola a scendere a Glastonbury. Senza che me ne accorgessi il buio ha inghiottito tutto. Lungo la via non c’è nessuno, nemmeno un animale o una vecchietta o una luce. Non c’è nessun cartellone pubblicitario, né lavori in corso. Non c’è nemmeno asfalto. Ci sono solo piccoli negozi che vendono utensili di magia, pietre, candele, incensi e libri.
Un ampio selciato accompagna il mio sguardo fino a quello che sembra lo scheletro di una torre.
Non ho proprio idea di dove andare.

Il navigatore indica che da qui ci vogliono due ore a piedi per raggiungere il cottage. Un taxi, però, sfreccia verso di me. Io mi butto in mezzo alla strada. Si deve fermare.
Do al tassista l’indirizzo del cottage, ma prima gli chiedo di aspettarmi mentre prendo al volo un kebab, patatine fritte e una coca zero nell’unico negozio aperto che trovo. Durante il viaggio il tassista non dice una parola. Forse aveva finito il suo turno. In ogni caso apprezzo il silenzio, non sopporto i tassisti che parlano, come non sopporto i parrucchieri che parlano e ancora meno i massaggiatori che parlano. Dovrebbe essere la prima regola. Se ti pago per fare qualcosa tu non parlare. Parlare per riempire il tempo è logorante. Gli do una bella mancia. Sono felice. Sono sempre generosa quando sono felice.
Osservo il cielo, non c’è nemmeno una stella. Un buco nero. Sento gli insetti muoversi nell’erba. Una sedia a dondolo cigola sotto il portico. Entro nel cottage e una signora paffuta mi accoglie con un sorriso dolce. È assonnata, forse mi stava aspettando. Mi accompagna nella mia stanza fingendo di ignorare l’odore di cipolla che proviene dal mio kebab. Ho fame da morire. La camera è coccola, sui toni dell’azzurro. Alle pareti è appeso un quadro. C’è un uomo con il cappello di paglia che raccoglie il grano e una donna con il fazzoletto che stende dei panni bianchi.
Mi butto sul letto con le braccia aperte e le gambe a penzoloni.

Una luce bianca attraversa le tende e mi sveglia. Non ricordo dove sono. Mi sono addormentata così, con le gambe fuori dal letto. Il kebab è ancora sul tavolo. Mi alzo e lancio un’occhiata veloce allo specchio. I miei capelli sono umidi, arruffati sotto e unti sopra. Ho gli occhi piccoli e cerchiati di nero. Mi faccio una lunga, lunghissima doccia calda. Il vapore invade tutta la stanza e io mi siedo per qualche minuto nuda sul letto a fissare il vuoto.
A volte quello che ci vuole è solo una bella doccia. È la cosa più vera del mondo. Per un attimo penso di tornare a letto, ma alla fine mi spalmo una crema di Laura Mercier alla vaniglia, un regalo di mia madre, indosso un vestito scuro ed esco dalla camera.
Bevo un caffè guardando fuori dalle grandi vetrate della sala colazioni. C’è un sole discreto, molto inglese. In giardino un gatto cerca di catturare un insetto saltellante, che però riesce a scappare. Lui  allora si guarda intorno e inizia a lavarsi il pelo.
Esco a fumare una sigaretta e provo ad accarezzarlo, però lui mi miagola dietro incazzato e pieno di convinzione e se ne va con l’ano bene in vista. Aria di sottobosco e pioggia. Il mio profumo preferito.
La signora gentile mi chiama un taxi.

La stessa via che ieri sera era deserta, oggi sembra una fiera medievale. Cammino tra stregoni, donne vestite di fiori, sembra un cazzo di trip. Sono in mezzo alla strada con la bocca aperta.
Un’artista di strada fa roteare delle stoffe celesti mentre balla. Mi fa pensare a un film di Polanski. Non c’è musica di sottofondo, c’è solo l’allegria della gente, che dà pace quanto il silenzio. La ragazza ha i capelli scuri, tagliati a spazzola. Ha gli occhi chiusi e un sorriso divertito. Una goccia d’asfalto mi bagna il viso. Mi accendo una sigaretta e rimango a guardarla, ad assorbire le sue forme, così simili a quelle stoffe che si muovono nell’aria.
Un uomo a petto nudo con la barba bianca mi passa davanti correndo, eppure qui nessuno sembra avere fretta. Quasi tutti i negozi sono ancora chiusi, anche se sono già le dieci e mezza del mattino. Nella mia testa lampeggia una frase di Aleister Crowley: fa ciò che vuoi e sarà la tua legge.
La ragazza si ferma. Si passa una mano sulla fronte e con la lingua si asciuga le piccole gocce di sudore sopra le labbra. Indossa un vestito largo color ruggine e due cerchi dorati alle orecchie. La saluto e le offro una sigaretta. Mi dice che non fuma. Mi guardo intorno. Qui non fuma nessuno. Io comunque me ne accendo un’altra e le sorrido, come per scusarmi. Iniziamo a chiacchierare, mi dice si chiama Abigail, che è di Bristol e che si è trasferita qui dopo un matrimonio finito male. Mi dice che si è sposata in mezzo a un bosco, ma che il suo ex marito era una specie di Charles Manson. Con un’amica ha aperto un piccolo negozio di arti magiche, il Cat & Cauldron. Me lo indica. Ora mi rendo conto di avere sempre invidiato la gente sbagliata.

Eccomi. Sto sperimentando la mia presenza nel mondo. Non guardo più per terra mentre cammino, mi sento gentile e reclamo gentilezza. Abigail mi chiede se voglio fare colazione con lei. Mi porta in un posto chiamato Abbey Tea Rooms. Sembra proprio uno dei luoghi di The love witch. Ordiniamo scones con burro e marmellata di fragole e sandwich al tonno. Mi racconta che qui vicino c’è la tomba di Re Artù. Mi chiede se ho mai abbracciato un albero. Con un mezzo sorriso le rispondo di no. Non ho mai abbracciato un albero. Immagino di abbracciarlo nel parco comunale del mio paese e mi viene da ridere. Fingere l’amore e reprimere l’istinto. Non è questo che si fa?
Abigail si alza. Mi ordina di seguirla. Lancio al volo i soldi sul tavolo e lei mi trascina fuori. Penso a mio padre. Lo dice sempre lui, che soffrire non serve a niente.
Abigail cammina due passi avanti a me. Ci allontaniamo dai negozi di magia e dalle sale da tè e alla fine arriviamo davanti a una porta in pietra. Entriamo. Siamo tra i resti silenziosi di un’antica abbazia medievale. C’è un parco di cui non riesco a vedere la fine. Qualcuno medita seduto sul prato a gambe incrociate.
Ci avviciniamo a un grande albero, nell’angolo destro del parco. Abigail mi dice: «Abbraccialo».
Mi esce un ghigno strano. Guardo Abigail, guardo l’albero e rido. Un’idiota. C’è troppa provincia in me. Ci sono troppi sguardi, troppe fobie, troppe reti. Lei mi spinge.
Mi guardo intorno, mi avvicino e accarezzo la corteccia, la annuso, la studio, come fanno i gatti con gli esseri umani. Lo abbraccio, prima piano, con delicatezza. Lui è lì e tiene il punto, fa parte del mio stesso mondo e questo mi consola. Piango la mia morte su di lui e alla fine lo stringo fortissimo.
Per due minuti me ne sto così, con la guancia appoggiata alla corteccia, poi un insetto mi svolazza sull’orecchio.

Passeggiamo tra le navate, lei mi chiede della mia vita, che lavoro faccio, cose così. Fanno tutti le stesse domande.
Per la prima volta ripenso alle persone che lavorano con me. A cosa farei se fossi una folle in Cristo. Gli urlerei in faccia. Un urlo vuoto. Poi so che mi pentirei perché mi pagano puntualmente lo stipendio ogni mese.
Allora rimango sul vago e la riaccompagno fino al suo negozio. Ovviamente compro delle candele nere, un felpa, un anello con una grossa pietra rosso sangue. E in quel momento, mentre me ne sto andando con i miei sacchetti in mano, lei mi racconta di una grotta scavata nella roccia. Mi dice che è il tempio di Brigida, la dea celtica del fuoco. Vacci da sola, mi dice. Vacci domani.

Al tramonto torno a piedi verso il cottage e penso. Penso al passato, penso a Lu, a me ubriachissima che mi spoglio davanti a lui sotto la pioggia, a Berlino, alla terrazza più alta della città, a una serata con un amico in un locale sotterraneo dove i capelli ricci di una ragazza hanno preso fuoco, alle vacanze a Fuerte con mia madre, alla sensazione di orgoglio che provavo quando aiutavo mio padre con il suo lavoro. Penso che alla fine questa è la migliore delle vite possibili.
Il cottage è diverso a ogni ora del giorno. Adesso sto camminando con le braccia al cielo tra le spighe di un quadro di van Gogh.
Entro e sento profumo di patate e burro. La dolce signora mi chiede se voglio mangiare qualcosa. Sono l’unica nella sala, a parte un signore anziano che beve del whiskey fissando fuori dalla finestra.

Mi sveglio alle sette. Chiamo per farmi portare un cappuccino in camera. Mi faccio una doccia e me ne sto lì, con il mio accappatoio morbido a guardare fuori dalla finestra.
Noleggio una bici, torno all’Abbey Tea Rooms e mi ingozzo di scones. Che buoni. Vado a salutare Abigail al negozio. Le dico che sto andando a vedere la grotta. Mi sorride e non dice nulla.
Seguo mentalmente le indicazioni di Abigail, pedalo tra i campi spogli e tra le case con i pentacoli alla porta. Imbocco una salita. Il petto mi esplode. Maledette sigarette. Arrivo davanti al luogo che Abigail mi ha mostrato in una foto. È una costruzione in pietra immersa nel verde selvaggio. Dappertutto sono disegnati o incisi simboli celtici e sulla porta c’è la scritta The White Spring.
Qui intorno è pieno di hippie. Li invidio. Questa, per esempio, è una delle vite che non ho vissuto.
Dei ragazzi stanno riempiendo delle bottiglie da un acquedotto. Mi avvicino anch’io, prendo l’acqua con le mani e mi gusto l’autunno fresco dell’Inghilterra. Dall’interno della grotta si sente una voce accompagnata da una cantilena triste. Entro dalla piccola porta. I miei occhi ci mettono qualche secondo ad adattarsi all’oscurità.
L’interno è umido, ma a ogni angolo sfrigola la luce arancione del fuoco.
Una donna che non riesco a vedere canta, accompagnata da un’arpa di vetro. Sento il rumore di una cascata. Ai lati ci sono degli altari pieni di oggetti magici, candele, pentacoli, libri. Le persone pregano, alcuni in ginocchio, altri in piedi, altri seduti su panche di legno. Mi siedo anche io e prego. È la prima volta. Entro ed esco dalla realtà. Se morissi ora, sarebbe una morte senza rimpianti.
Quando apro gli occhi, il mio sguardo incrocia la sagoma di una donna. È completamente nuda e sta entrando in una piscina al centro della grotta. Vorrei avvicinarmi a lei e toccarla, accarezzarla, senza  però guardarle il viso. Si tira indietro i capelli e si immerge come burro sciolto. Solo allora mi accorgo che ci sono altre persone nell’acqua. Di scatto le mie mani si muovono, mi guardo mentre mi sfilo il maglione e i jeans, mentre mi strappo di dosso le mutande. Mi avvicino alla fonte. Mi viene da ridere. Sono nuda. Io non sopporto la nudità. Né la mia, né quella degli altri. Ora però sono nuda e sto da dio. Metto un piede nell’acqua. È gelida. La musica mi ferisce le orecchie. Roteo su me stessa, alzo le mani e affondo. Sono sola in un posto lontano a fare il bagno nuda. Io sono qui. Questa è la mia vita. Davanti a me vedo un serpente che fa la muta. Qualcuno urla. Sono io, in macchina, con le mani attaccate al volante. Dove sono? Penso ad Abigail. Le sfioro il viso.
Ci sono quattro me in una stanza. Una ha gli occhi vacui e i capelli unti, un’altra ha il fisico sformato e la pelle cadente, un’altra sembra una delle parche, ha pochi capelli e uno solo dei miei occhi. E poi ci sono io che le osservo.
Ci sono quattro me in una stanza e tre di loro litigano. Quella con i capelli unti piange in un angolo, una parla a macchinetta con sguardo folle, la vecchia le dice di tacere, che il domani sarà uguale all’oggi.
Quella con lo sguardo folle a un tratto prende a mangiare gelato, che manco so dove l’abbia trovato il gelato.
Almeno tace. Lo trangugia, sporcandosi ovunque, si ingoia persino i capelli.
Quella che piange la guarda schifata dal suo angolo buio, trema e ogni tanto lancia uno sguardo impaurito alla vecchia.
La parca si accarezza l’unico capello con sguardo indifferente, finché se ne esce dicendo, con una cantilena: riempi, riempi, butta dentro, tanto non ti basta.
Poi tutte si accendono una sigaretta e cominciano a litigare più forte. Quella nell’angolo inizia a strapparsi lembi di pelle.
La me deforme si zittisce e inizia a fissare il vuoto. Poi si alza e viene verso di me. Le altre due la guardano e le urlano come maiali di fermarsi.
Lei mi viene di fronte, sento il suo respiro, comincia ad accarezzarmi. È piacevole. Chiudo gli occhi. Mi tocca il ventre, scende con le dita sempre più giù. Comincio ad ansimare.
Poi, a un tratto, il freddo di una lama sul mio ventre e il rumore di un capello che si spezza.


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