Villa Mira

di Diego Scordino
Copertina di Rocco Carnevale

La più grande illusione degli uomini è quella di mantenere il culo pulito. Lo diceva sempre il Francese, di sera, verso le dieci, quando gli ultimi ospiti erano appena usciti e le prime sorelle cominciavano a venire. Le chiamava sempre così, il Francese, “le sorelle”. Ma erano puttane, nulla più.

All’epoca ero un ragazzino magro dai capelli neri, con un vasto repertorio di maglie scambiate e scolorite che alternavo senza un criterio. Il Francese invece era ancora enorme, grosso, prima che smettesse di parlare, prima che la malattia gli prosciugasse le braccia e la pelle. Eppure, era già sporco, trasandato, come se l’esistenza fosse inutile, un nuovo modello di qualcosa che importava a tutti ma non a lui. Nessuno, né io, né le sorelle, riusciva a capire cosa lo tenesse in vita davvero. E ogni volta in cui mi sembra di averlo capito, me ne dimentico subito dopo.

La nostra casa era il Villa Mira, un cumulo di mattoni e gesso che saliva per due piani fino al terrazzo. Era un albergo vecchio, vecchio dentro, nato vecchio e invecchiato ancora. Contava venti stanze che conoscevamo a memoria perché da mesi ci cadevano addosso. In realtà, quel cumulo di formiche e mura spellate si reggeva solo grazie al mare, che era lì, dietro l’angolo, invisibile eppure vicinissimo. Il mare era come un collega, un amico. Bastava allungare il collo e sentire le onde.
Dopo le prime settimane di sconforto, il Francese mi convinse a fregarmene dei problemi. La sua soluzione era lasciare che si arrangiasse da solo, l’albergo, come se fosse un tizio qualunque. Non era un portiere, il Francese, non lo era mai stato, eppure lo pagavano per quello. Tanto i proprietari non venivano mai. I soldi invece arrivavano sempre, puntuali, anche troppo puntali, come se la società fosse un meccanismo perfetto che non tralascia niente, tranne la cosa più importante: il cazzo di albergo.
Il turno lo facevamo insieme, quasi tutti i giorni. I turnanti cambiavano sempre. Per noi erano come fantasmi, sagome passeggere senza volto e senza nome. Dove trovassero tutta quella gente non l’ho mai
capito.

Fu un’estate strana, quella. Mi sembrava quasi di non avere più una casa o degli amici. C’erano giorni in
cui mi sentivo l’unico uomo del mondo. Serate in cui l’odore del mare era talmente forte da far girare la
testa.
In fin dei conti, a lavorare ero io, il ragazzino. Lo stipendio mi serviva e quell’estate non c’era nient’altro. Il Francese invece passava il tempo a leggere libri strani lasciati nelle stanze, giornali raccolti qua e là. A volte se ne andava nel salone interno per dormire una mezz’ora. Chiacchierava con le sorelle, poi. Andava d’accordo con tutte. Con me c’erano quelle gentili, che a volte erano quasi affettuose. Poi c’erano le streghe, stronze fino al midollo. Col Francese diventavano tutte uguali. Si appoggiavano al bancone, ignoravano la mia esistenza, e passavano il tempo a fumare. Non ricordo nemmeno di cosa parlassero. Di nulla, credo. Di roba che evaporava come il fumo che buttavano fuori.

Eppure, c’erano serate in cui il Francese non faceva niente di tutto questo. Serate in cui lo vedevo alzarsi, misurando ogni gesto, per poi sprofondare nella sedia all’ingresso. Lì stava per ore, fermo, su quella che poi era una sedia scomodissima, decrepita, che lo reggeva a stento. Guardava avanti, ma senza vedere. Pensava, credo, ricordava qualcosa. Era in queste serate che ogni tanto parlava, calmo, fermo, come se le parole non provenissero da quella fogna di sigari e sonno che era la sua bocca, ma da una specie di bibbia tascabile, pronta all’uso. Raccontava cose, il Francese, senza mai farmi capire se fossero aneddoti o soltanto storie. C’era lui, in alcune di queste, ma come se non fosse lui davvero.
Come quando sogni di stare a casa tua ma quella nel sogno non è casa tua. Nei racconti succedevano cose, sparivano persone, a volte arrivava la guerra.

Spesso, nelle notti fresche d’inizio giugno, mi accorgevo che molte storie le avevo già sentite, ma erano diverse, impercettibilmente diverse. Cambiavano dei piccoli dettagli, talvolta qualche nome. C’erano serate di battaglie e cannoni. Altre volte c’erano solo braci, rovine, una donna che grida nel vento. A volte una ragazza affogava e nel racconto s’infilavano le urla, così forti e disperate che la voce non pareva nemmeno più quella del Francese. A volte ad affogare era lui e storia finiva lì. Quando parlava non lo interrompevo mai. Era impossibile, più forte di me. Persino quando entrava qualche sorella, col suo cliente sottobraccio, il Francese continuava a parlare, come se fossero soli, lui e quella sedia di merda, in un posto che non era più il Villa Mira ma nemmeno qualcos’altro.
Alla fine, si zittiva. Il sigaro ormai spento era l’unico a muoversi ancora. Lui invece restava lì, con la testa bassa, il respiro appena più roco del solito. Io lo guardavo e pensavo che sarebbe stato impossibile ripetersi ancora. Quelle parole avvinghiate alla sedia, quei gesti improvvisi, fulminei. Ogni volta sembrava l’ultima, fino a quella successiva.

E poi arrivò quel giorno di fine estate. Quello in cui il Francese smise di parlare. In cui per la prima volta vidi i suoi occhi accendersi e poi spegnersi per sempre. Erano giornate eterne quelle, immense, in cui l’alba e il tramonto sembravano uguali. Per questo non ricordo l’ora in cui entrò quella donna. A volte non ricordo nemmeno se sia entrata davvero oppure no. All’improvviso fu lì, di fronte a me. I capelli erano biondi, o bianchi, o tutte e due. Gli occhi erano chiari. Poteva avere trent’anni come sessanta e sapeva di mare. Non parlò, o forse iniziò a parlare, ma in quel preciso istante il Francese riemerse dal salone. Mi guardò, vitreo, immobile, come a chiedermi se fosse tutto vero. Fu uno sguardo assurdo, impossibile, che non avevo mai visto. La signora si avvicinò a lui e in quel momento l’odore del mare si fece insopportabile. Avrei voluto scomparire, andarmene, ma non feci in tempo. Un attimo dopo, senza una parola, la signora sorrise. E quel sorriso parve ringiovanirla e invecchiarla allo stesso tempo, come se avesse raccolto tutte le forze per l’ultimo sorriso della sua vita. Quella sera, per molto tempo, non entrò nessuna sorella, nessun cliente. Nessuno, e basta.

Fu così che il Francese smise di parlare. Da quel momento, nell’ultimo mese che passammo assieme, abbandonò le sue storie, i nomi e la sedia. A volte pareva pronto per alzarsi e tornare lì, al suo posto e invece no. Restava in piedi, incerto, spaesato, e poi tornava al bancone.

Ci sono giorni in cui mi convinco di avergli visto già le braccia dimagrire. Di aver sentito insinuarsi, tra il fumo e la birra, l’odore della morte. Ma in realtà non mi ricordo.
Ogni tanto, quando sono solo e l’unico rumore che sento è il gorgoglìo dell’acqua, mi tornano in mente quelle storie assurde. Ripenso alle sorelle, a quei clienti sfortunati, all’intonaco dei muri, alle formiche, a quelle donne delle pulizie che non sembravano donne e non facevano pulizia, all’odore stantio del magazzino, a quelle notti in cui il mare brillava sotto la luna.
Ripenso al Francese. Al Francese che parla e al Francese zitto. A quello sorridente con le sorelle e a quello immobile, gelido, col sigaro in mano. E infine ripenso all’odore del mare, che non riuscivo a sentire davvero finché non mi impregnava gli occhi, i capelli e i vestiti.

Se n’è andato, il Francese, parecchi anni fa. Io non sono più un ragazzino e non sono più magro. Ho una figlia, una moglie, un gatto e un buon lavoro. Eppure, ogni volta in cui penso a quell’estate al Villa Mira, mi sembra di essermi perso qualcosa. Come se il Francese, in tutti i suoi sproloqui, mi avesse rivelato un grande segreto che non ho capito. Una cosa importante, fondamentale, che ha tentato di dirmi in tutti i modi fino all’ultimo racconto. Chissà, forse è per questo che continuo a pensarci. Forse è per questo che ogni volta, nelle sere d’estate, mi sembra ancora di sentire la sua voce mormorare nel buio. Ma ormai è tutto finito.
Il Villa Mira non esiste più. Il Francese è morto. E io non so nemmeno di che cazzo sto parlando.


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