La guerra invisibile – un viaggio sul fronte dell’odio contro i migranti

di Silvia Penso
Copertina di Einaudi

La guerra invisibile di Maurizio Pagliassotti, edito da Einaudi, è un reportage e allo stesso tempo un lungo viaggio. È il resoconto di un esperimento, un racconto, una mappa, un piccolo saggio sull’immigrazione. Lo scrittore parte dall’Italia e attraversa a ritroso, rispetto al tragitto che di solito percorrono i migranti, dapprima i confini della rotta italo-francese, addentrandosi tra il freddo autunnale delle Alpi, poi s’incammina zaino in spalla fino all’Iran attraverso la rotta balcanica, conducendo parte del viaggio a piedi, parte su mezzi di trasporto o approfittando dei passaggi lungo la strada. Nella borsa ha solo beni di prima necessità, scatolette di cibo, pochi cambi, medicine, la tenda con cui si accamperà spesso la notte, non rinuncia a portare un libro. 
Quando parte dalle montagne alla frontiera con la Francia la serata è fredda, cristallina. Nota sul terreno le tracce del passaggio. Sono sempre gli stessi questi segni, indizi di un percorso combattuto, pervicace, fisicamente provante, sono vestiti abbandonati, giocattoli affondati nel fango, carte di caramelle, blister di antidolorifici per placare i dolori muscolari causati dalle lunghe marce o medicine contro l’influenza, documenti. Questi oggetti sono la scia di una storia convogliata in tutte le storie di chi affronta sulle Alpi sentieri e salite ardue, col rischio di perdersi, cadere, morire assiderati o picchiati dalle guardie di confine in pattuglia, con la paura onnipresente di essere rispediti ai regimi assassini, al carcere, alle torture, alla morte, alla guerra, ai disastri ecologici, alla siccità della terra d’origine. Nel silenzio gelido della notte alpina i migranti che lo scrittore incontra corrono in marcia sostenuta, occhi larghi di timori e chimere. I rischi sono altissimi. I costi sono immensi, intere famiglie si indebitano nei paesi d’origine per far partire un figlio, un fratello, un marito, un piccolo nucleo famigliare. A casa ci si aspetta che arrivino alla meta, che trovino loro per tutti quell’eden ammirato alla televisione, sui social network, il surplus e l’agiatezza alla quale ogni popolo dovrebbe poter accedere, auspicando una più equa divisione delle tante risorse della terra che è di tutti, sebbene il martellante condizionamento ideologico voglia insegnare che non lo sia. Ci sono bandiere e confini, appartengono a chi ha appoggiato le guerre “democratiche” che in pochi decenni hanno prodotto altre guerre da cui ora mettersi in salvo, a chi nel passato ha spartito e diviso le regioni da cui provengono gli attuali migranti tracciando linee di demarcazione arbitrarie, a chi sfrutta le risorse dei paesi più poveri usando poteri politici, economici, forza militare.
La maggior parte degli uomini e delle donne che Pagliassotti incontra sono in viaggio da anni. Alcuni si scoraggiano, diventano depressi, rabbiosi, altri non perdono la speranza, la promessa della felicità, la fede. Vivono anni su queste rotte, tra le foreste o nei campi, con un’idea fissa nella testa: arrivare a Berlino, a Londra, attraversare il confine per la Francia, il Belgio. Partono dall’Africa, attraversano deserti e mari, sono schiantati ai confini dell’Europa orientale, in Turchia moltissimi, e ricominciano il cammino, sballottati da una frontiera all’altra in cerca del passaggio, del buco nella rete, della guardia disattenta. Partono dalla Siria e dall’Afganistan, si nascondono di giorno nelle fabbriche abbandonate ai limiti delle città. Come le bestie impaurite escono la notte. Sono reclusi in centri di detenzione. Si spostano. Ci riprovano, sono ricacciati. Lo chiamano “Game”. Un videogioco. Se riesci ad attraversare il confine passi al livello successivo, se vieni scoperto e ricacciato ricominci da capo, dal paese in cui hai lasciato le impronte digitali.  
Tra le tante storie che l’autore racconta c’è quella di un uomo che è in viaggio da sedici anni e non ha smesso di credere che prima o poi ce la farà. Spesso le famiglie sono disperse lungo le rotte, qualcuno rimane bloccato a Istanbul o nei boschi della Bosnia, tantissimi bambini sono nati nelle foreste, una famiglia racconta di un figlio nato in Grecia, il secondo in Croazia.
A Bolzano i migranti cercano un passaggio verso l’Austria attraverso le acque dell’Isarco. Stanno lì accampati, bevono l’acqua del fiume, cucinano sulle rive, sporcano. I turisti, i commercianti, i locali si inferociscono. Bisogna essere invisibili. 
Ugualmente avviene sull’altra rotta, quella dei Balcani. Chi scrive la percorre al contrario partendo appunto dall’Italia e varcando a piedi le frontiere che di solito tentano di oltrepassare i migranti. È un viaggio che dura mesi, duro, debilitante e l’autore lo compie da cittadino europeo e inframezzando ogni tanto dei giorni di riposo. Lui lo fa per ricerca, per scrivere un libro e palesare che sui migranti viene attuata una propaganda diffamatoria che tralascia la complessità della questione e le ragioni reali e storiche, e che contro queste persone si sta combattendo una guerra invisibile. Perché sebbene non esplodano ordigni e non vi siano cingolati, c’è un nemico e c’è un conflitto, non si vede per intero il campo di battaglia, dell’orrore non si ha una visione totale, essa è parcellizzata, mediata dalla politica, dai fotogrammi di pochi minuti al telegiornale, ma è una guerra fatta a persone e con tutti i mezzi possibili, comprese la violenza e la forza. Questo è ancor più chiaro lungo la rotta balcanica. I migranti partono dalle terre d’origine Pakistan, Afganistan, Iran, Iraq e il loro cammino si snoda attraverso la Grecia, la Macedonia, la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia, fino all’Italia. La maggior parte non vuole poi fermarsi nel nostro paese, l’obiettivo è spesso un’altra meta in Europa dove già risiedono parenti o amici. Nei boschi lungo questi fronti, in particolare  tra la Bosnia, la Croazia, lungo il perimetro dell’Ungheria, lì dove è più vivo il patriottismo e l’idea fossile di un nemico che viene a conquistare spazi fisici e sociali, a distruggere le usanze autoctone, i migranti devono essere ancora più attenti, più invisibili degli invisibili, perché qui si aggira anche il corpo permanente della guardia di frontiera, lo squadrone chiamato Frontex, le milizie pagate per fermare qualsiasi essere umano incontrato, tutto è permesso. Sono note le storie di violenza, i morti per percosse. I migranti vengono spogliati, derubati, bastonati, lasciati a crepare, e tutto con la connivenza degli stati. Sono la polizia d’Europa, il nostro senso di colpa scaricato tra questi confini. 
Bihac, Velika Kladusa, Lipa: è il triangolo che appartiene al confine croato-bosniaco. Qui, dove pochi anni fa si è combattuta una guerra orrorifica e dove ancora resistono attriti profondi, è ancor più tangibile l’esistenza di un conflitto: «Jungle camp, campi profughi, trafficanti, cooperanti, polizia di frontiera violenta e senza controllo, condizioni di vita insostenibili: da qui in avanti il migrante non è più tale è un nemico. Da questo confine in poi, spostandosi verso sud est, altro non c’è che un conflitto a bassa intensità che produce feriti, morti e affari, ovvero le caratteristiche di ogni guerra» (pag. 59). Da queste frontiere è difficile muoversi e il migrante, il nemico, resta imbrigliato nelle maglie delle leggi e dei muri.

Mentre scrivo, dal viaggio a ritroso di Pagliassotti sono passati un paio d’anni, ma la situazione della rotta balcanica non è cambiata. Dopo una diminuzione delle violenze registrata nel 2020, in seguito alle denunce e alle inchieste internazionali, in particolare nei confronti della polizia croata, oggi le organizzazioni dei diritti umani che operano in Bosnia-Erzegovina denunciano lungo questi confini la ripresa dei trattamenti disumani verso i migranti. Gli accordi di Schengen (che consentono la libera circolazione delle persone all’interno del territorio dell’Unione europea a partire dal 1985) sono stati interrotti e i controlli alle frontiere ripresi. La minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza interna, clausola che permette l’interruzione degli accordi, è la guerra che si combatte a Gaza e che presuppone l’arrivo eventuale di terroristi attraverso quelle rotte già vulnerabili e sovraccariche. In realtà, quello che mi sembra è che si stia strumentalizzando la questione internazionale e la lotta al terrorismo quando il vero obiettivo resta ancora una volta ostacolare gli ultimi della terra approfittando di altri conflitti, assecondare programmi politici legati al razzismo e all’ignoranza, sostenere la fobia del diverso con l’obiettivo dei voti, del potere, del tornaconto di altri.
Del resto, altra tesi del libro è che la migrazione generi denaro. E come dargli torto. Questo mercato riguarda tutti «il migrante è il generatore di un sistema economico, nel quale vivono il trafficante, il poliziotto, il commerciante di scarpe e vestiti, il cooperante, lo scrittore, il fotografo, il giornalista, il benzinaio, e in generale tutti coloro che qui operano. Ognuno con il suo ruolo, la sua coscienza, il suo peso morale, ovviamente» (pag. 62). Senza dimenticare, aggiungo, l’immensa catena che lucra sul lavoro in nero o sottopagato e svolto in condizioni inumane, sui Cpr, e il fatto che alcuni degli stati balcanici, in particolare quelli che hanno la funzione di fare muro a chi tenta di attraversare, ricevono allo scopo ingenti quantità di denaro e finanziamenti che spesso spariscono chissà dove, nelle tasche di chi. È un circolo senza senso e dai circuiti inestricabili ma «il migrante-nemico genera reddito con la sua presenza, non con la sua assenza» (pag. 63).

Durante i suoi attraversamenti di frontiera l’autore s’imbatte in una miriade di narrazioni, come quella dell’uomo ricoperto interamente di fango che incontra a Tuzla, Bosnia, seduto immobile con gli occhi fissi su una città a lui sconosciuta e che ha viaggiato per centinaia di chilometri sotto il telaio di un camion prima di essere denunciato, o le innumerevoli famiglie nascoste in case diroccate o dentro grandi locali abbandonati, esposte a ogni disagio «Esiste un popolo, oscuro, di cui non sappiamo nulla che vive, ama, e perfino si sta riproducendo in queste condizioni: i bambini nascono nei boschi dei Balcani e rimangono così, apolidi. Crescono senza amici, senza cibo, senza acqua, senza scuola, senza giochi. Crescono in mezzo a montagne di rifiuti, in fabbriche bombardate, tra muri che ancora hanno i buchi delle esplosioni, tra topi ed escrementi, ignari che possa esistere un mondo diverso» (pag. 66).
Il confine tra Bosnia e Croazia è descritto come un campo di battaglia. Nel fango, tra i boschi, si distinguono i segni dei vari cammini, quello degli anfibi dei militari, quello più leggero del popolo in marcia, scarpe abbandonate significa pestaggio, significa che il nemico è stato spedito a casa scalzo, «Pantaloni: il nemico è stato rimandato indietro in mutande perché ha protestato o si è ribellato» Carte di caramelle, passeggini: c’erano dei bambini «violenza psicologica grave, urla e pianti nel buio, torce piantate in faccia. Documenti strappati, telefoni rotti, portafogli svuotati: depredazione, pedagogia del terrore e punizione collettiva» (pag. 88). 
Tendopoli riempite al limite, cinquecento persone buttate a terra come pezze sotto la pioggia, al freddo. Accampamenti lungo i binari, fuochi lungo la frontiera serbo ungherese e campi di accoglienza montati vicino ai fili spinati dei confini e da cui i migranti-nemici guardano l’altrove sperato a cui non hanno accesso, neppure ci provano più ad attraversare in questi punti, sanno che è impossibile, di là li aspetta solo violenza. 
Pagliassotti parla con i trafficanti e con le persone che organizzano le reti dei migranti. Ognuno ha il suo metodo, chi mostra solo la strada da percorrere a piedi, chi li stipa in camion a doppio fondo, sdraiati tutti insieme come in un sarcofago senza potersi muovere, andare al bagno, sballottati per venti ore lungo la rotta Belgrado-Minsk attraverso Ungheria, Ucraina, Bielorussia. Da lì sono carne da cannone alla frontiera con la Polonia nella guerra asimmetrica di Putin. O ancora murati nei camion, rinchiusi in altri contenitori che non vengono rivelati dai termoscanner. Frontiere chiuse o ben oliate. 
L’autore incorre anche in chi, al contrario, in questa guerra dell’assurdità, è alla ricerca disperata di manodopera, di lavoratori stagionali per i raccolti o le vigne e non trova nessuno. Molti di questi agricoltori e imprenditori sarebbero felici di regolarizzare il mercato del lavoro e assicurarsi la produzione, ma a quanto pare restano vittime delle maglie burocratiche o degli interessi, più importanti, di qualcun altro.
Belgrado, Istanbul, i triconfini, come quello rumeno, ungherese, serbo, le spiagge della Grecia, Salonicco, Sarajevo, Belgrado, il Montenegro, ne La guerra invisibile il narratore ci racconta le grandi storie ma anche le singole vicende di questa umanità stracciata, maltrattata, ostaggio di altri uomini che detengono il potere sulle loro esistenze. La maggior parte non passerà mai, ci dice. Sarà ricacciata o dispersa, immolata ai luoghi, ai campi, alla povertà, al ritorno coatto. Come l’ha definito lui stesso, quello che Pagliassotti racconta è soprattutto un viaggio dentro il nazionalismo, dalle Alpi all’Anatolia, un’immersione dentro l’ipocrisia, la disumanità, l’illogico, ma è anche mostrata la generosità dei singoli o dei piccoli gruppi, coloro che aspettano il nemico al crocevia delle rotte con cibo, coperte, un letto, rispetto umano per l’umano. 
Il viaggio descritto nel libro finisce in Turchia, paese che, nel momento in cui lo scrittore lo visita, ha praticamente legalizzato il sistema del caporalato «l’ha portato a valore fondante del modello di integrazione per coloro che arrivano dai paesi in guerra, che vengono trasformati all’istante in migranti economici in grado di foraggiare la macchina del consumo usa e getta globale con le loro vite senza scampo, relegate a una schiavitù gentile, umanitaria.» (pag. 209). Ma vera integrazione non è, i salari sono bassi, si genera disuguaglianza sociale, economica, e cresce il razzismo da parte dei turchi che vedono nei migranti l’occupante, colui che ruba il lavoro e fa abbassare gli stipendi.
Da noi a parlare basterebbero i dati, che qui riporto da altre fonti rispetto al libro. L’Italia avrebbe bisogno ogni anno di 280mila nuovi immigrati, ogni anno fino al 2050, soprattutto a causa della diminuzione della popolazione in età lavorativa. Così, invece di investire in centri per l’impiego, capaci di collegare chi cerca il lavoro e chi la manodopera, con stipendi e orari giusti, si spendono in questo paese cifre esorbitanti per i famosi Cpr, che altro non sono che centri di detenzione amministrativa degli stranieri per il rimpatrio, i quali, al contrario di quello che sostiene il ministro Piantedosi, e secondo due recenti rapporti, uno del Naga e uno di Action Aid, dal titolo Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri di cui riporto la citazione, il Cpr è un «luogo inumano, costoso, inefficace e ingovernabile». Inoltre, «Sono cooperative e soggetti profit – tra i quali anche alcune multinazionali – a gestire i dieci centri attivi in Italia in un contesto di allarmante confusione amministrativa e mancanza di trasparenza» tanto più che coesistono quattro diversi capitolati di gara d’appalto, il che genera enormi differenze e ineguaglianza di trattamento per le persone lì recluse relativamente alla qualità e ai costi dei servizi a disposizione. 
Spese esorbitanti, confusione, nebbiosità, denunce per mancanza di riscaldamento, acqua calda, coperte, cibo, e inutile la funzione per cui i Cpr sono stati creati visto che dal 2017 «si rimpatria di meno, a costi più alti e in maniera sempre più coercitiva». Ma si preferisce chiudere gli occhi, è più facile fidarsi delle menzogne di chi dipinge scene apocalittiche, credere alle frasi fatte dei politici, non cercare altre fonti d’informazione. A forza di vedere un nemico abbiamo smesso di vedere il volto dell’uomo, dietro al migrante c’è un essere umano che cerca dignità e condizioni di vita sostenibili, spesso è in fuga da regimi oppressivi e da guerre che ancora una volta avranno la nostra connivenza e convenienza, di sicuro le nostre bombe, le armi fabbricate dall’occidente e che hanno l’abitudine di cadere sui figli degli altri, sugli ospedali degli altri, sulle case e le strade che poi correremo a ricostruire, di cui vinceremo l’ennesimo appalto. Le polemiche, la propaganda, la retorica generalista alimentano paura e ignoranza e c’è chi ha pieno interesse a generare e sfruttare questa situazione, economicamente e politicamente, infuocando e pascendo la fobia del terrore, dell’occupazione, del diverso, l’intolleranza razzista, religiosa, la segregazione come unico sistema. È inaccettabile nel 2023. È inaccettabile in una società che vuol autodefinirsi “civile”. E, come ci ricorda Pagliassotti con amarezza, nella sua avventurosa e cruda piccola umana epopea, è giusto dare alle cose il loro nome per sfuggire almeno al retaggio della falsità, perché quest’essere in attesa al confine non è più un uomo, non è neppure un migrante, per l’occidente è un nemico, un valore economico contro cui si combatte una guerra invisibile ma che fa comodo a troppi.


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