Io sono Babbo Natale

di Ferruccio Mazzanti
Copertina di Julio Armenante

1

In mezzo alla stanza c’è un tavolo. Le pareti sono superfici di cemento. Non c’è una finestra da cui guardare il panorama o capire se sia giorno o notte in base all’intensità della luce solare, però c’è uno specchio dietro al quale potrebbero trovarsi dei poliziotti in ascolto, specchio su cui si riflette la luce color limone della lampada posizionata sopra la mia testa. Il mio avvocato deve ancora arrivare, ma due investigatori sono comunque seduti di fronte a me. Non fumano, non gridano, non battono il pugno contro il tavolo, non fanno neppure domande, si limitano a osservarmi. Sono vestiti entrambi con una camicia bianca. Entrambi tengono in mano dei fogli di carta e una penna. Il loro volto è privo di espressioni, sembra una specie di pantomima teatrale. Vorrei ridere perché è tutto così ridicolo, ma mi accontento di sogghignare sotto i baffi. Mi sarei aspettato una brutale violenza contro di me, e invece no, c’è freddezza e distacco. Uno dei due agenti si accorge del mio sorriso e mi chiede cosa ci sia di così divertente. La sua voce è limpida e funzionale, proprio come piace a me. Poi mi domanda se so cosa sia successo a Marco. Gli rispondo che Marco è Babbo Natale. Rimangono impassibili e mi chiedono se questa sarebbe una battuta. No, che non lo è, Marco è Babbo Natale. Neanche a farlo a posta in quel momento bussano alla porta. L’agente che aveva parlato si alza in piedi e va ad aprire, confabula qualcosa con una persona che non riesco a vedere, poi chiama il suo collega che lo raggiunge. Appena sono usciti dalla stanza entra mia madre. Mi sembra fisicamente più piccola. L’avevo sempre percepita prossima alla mia stazza, invece no, è bassa, minuta, vecchia. Si siede, ha gli occhi scavati tra mille rughe, un ovale deformato dal tempo, i capelli bianchi, le mani che tremano, le labbra che si aprono per chiedermi come sto. A nessuno è mai fregato niente di come sto, neppure a lei, credo sia la prima volta che me lo chiede, magari ricordo male, per questo mi trattengo dal risponderle. Mi sembra tutto così serio, ma nessuno si accorge di quanto sia ridicola questa farsa? Sono l’unico a vedere che stiamo solo recitando una parte nel grande sceneggiato del cosmo? Io credo che esistano tre tipi di persone: 1) quelli che pensano che la vita abbia un senso, 2) quelli che sanno che la vita non ha senso e ne soffrono, 3) quelli che sanno che la vita non ha senso e ci ridono su. I poliziotti appartengono alla prima categoria, mia madre alla seconda, mentre io, beh io appartengo alla terza e forse è per questo che mi trovo da questo lato del tavolo.

Mia madre mi ripete la domanda con un tono di voce talmente tremulo da far vacillare le fondamenta dell’edificio. Qualcosa in lei si è spezzato, riconosco la spaccatura, so vederla così bene negli altri solo perché è un fenomeno che conosco nei suoi più particolari aspetti, tanto da aver sviluppato una specie di sonar sensoriale per individuare le ferite altrui, come le orche fanno coi salmoni nelle melmose acque prossime alle foci dei fiumi.

C’è questo silenzio tra noi due che la sta distruggendo, dunque le dico sto ok, sollevando le spalle. Mi chiede se mi hanno trattato bene. Sì, le rispondo. Allora lei allunga una mano verso di me per toccarmi, ma io non voglio essere toccato e rimango immobile. Lei, vedendo la mia postura morale così rigida, vedendo che non faccio alcuno sforzo per andare incontro alla sua mano protesa verso di me, lei scoppia a piangere, perdendo lo slancio, ripiegandosi su se stessa, il muco che le esce dal naso, le lacrime che si perdono fra le sue rughe, le pupille dilavate dal dolore, il respiro sincopato come un motore ingolfato che fatica a rimanere acceso. Allora, per rincuorarla, abbozzo un sorriso che dovrebbe essere affettuoso, le dico mamma oggi è Natale, le dico mamma tanti tanti auguri. La sua bocca, spalanca la bocca, ora un cunicolo oscuro che trema ancora di più senza fondo, la sua bocca. I suoi occhi sono diventati due palle piene di orrore, due palle che stanno debordando fuori dalle orbite. Rimane così, muta, per una manciata lunghissima di secondi, come se fosse andata in cortocircuito, poi dalla sua gola inizia a uscire lentamente un suono ghiacciato, roco, gracchiante, un suono che cresce troppo velocemente fino a diventare un AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!

E piange.

2

Tutto è cominciato quando avevo sei anni, quando il giorno di Natale mio padre è _____ in un incidente automobilistico. Da allora, per il dolore che ho provato, non sono più stato capace di dire che un essere vivente è _____, o qualsiasi altro sinonimo di _____, non mi riesce proprio, bensì, per l’associazione che ho fatto col giorno della _____ di mio padre, dico che è Babbo Natale. Tipo quando c’è un gatto che è _____, io dico quel gatto è Babbo Natale. Alcuni esempi su come usare il lemma Babbo Natale: un mio amico è Babbo Natale per una leucemia fulminante. Camminando ho Babbo Natale delle formiche. Alla televisione hanno detto che celebreranno il Babbo Natale di quel giudice Babbo Natale dalla Mafia. La bomba atomica sganciata su Hiroshima ha Babbo Natale 140.000 persone all’istante. Lo so che potrebbe sembrare di cattivo gusto, ma che ci posso fare se ho questo blocco linguistico causato dalla Babbo Natale di mio padre nel giorno di Natale?

A sei anni fu uno shock soprattutto quando mia madre, tenendomi per mano, mi portò a vedere il suo corpo, il corpo di mio padre Babbo Natale, che veniva vestito per il funerale. Non so bene perché mi abbiano fatto assistere a una cosa del genere, ma i becchini avevano una cura e una professionalità nel manipolare quel corpo immobile che per me fu sconvolgente. Per anni e anni ho sognato la perfezione dei loro gesti. Avevano posizionato quel corpo, il corpo di mio padre Babbo Natale, in una posa elegante, che abbelliva il suo volto fino a renderlo quasi felice. Avevano fatto delle prove, inserendo nella pelle degli spilli per tenere ferma l’espressione, adagiando le braccia e le gambe in quella che oggi, avendo sviluppato una mia personale estetica, definirei una postura un po’ troppo convenzionale e conformista per un Babbo Natale. Per vedere se la posa che avevano scelto funzionava, i becchini scattavano delle fotografie che poi osservavano con una certa, insistente attenzione. All’epoca pensavo che fosse solo professionalità, ma ora so con certezza essere amore per la bellezza. Il flash delle macchine fotografiche emetteva un rumore frusciante, che pizzicava dolcemente i miei timpani.

Quella notte feci un sogno terribile. Mio padre Babbo Natale era dentro all’armadio di camera mia e mi chiamava. Io mi alzavo dal letto e aprivo le ante dell’armadio. Lui era in posa con le gambe piegate verso l’esterno e le braccia immobili e tese verso l’alto. Dalle gambe continuava a uscirgli un flusso di sangue ed escrementi ininterrotto, una cosa terribile e puzzolente, nauseante, un fiume in piena che stava allagando tutta la mia camera. Mio padre Babbo Natale mi chiedeva di pulirlo da quei liquidi che stava perdendo. Allora prendevo della carta igienica e lo nettavo, ma il flusso era inarrestabile e mi macchiavo tutto con quella roba rossa e marrone, mentre camera mia ne era sempre più piena. Pensavo a che disastro sarebbe stato poi dare lo straccio senza che mia madre se ne accorgesse. Lui, dunque, piuttosto contrariato dalla mia incapacità dettata dall’inesperienza e forse pure dalla mia stupidità nel pulirgli le parti basse, gridava che non dovevo fare così, era inutile quello che stavo facendo. Per arrestare quel flusso che gli usciva da lì sotto dovevo assolutamente trovare la posizione giusta del suo corpo. La posa corretta per un Babbo Natale. Allora gli raddrizzavo le gambe, gli abbassavo le braccia, gli scattavo una foto per studiare meglio la sua posizione.

Mi sono svegliato tutto sudato. Piangevo.

3

Quel sogno è diventato ricorrente. L’ho fatto tutte le notti della mia vita fino a che non ho compiuto diciotto anni. È stato per un caso fortuito che una sera, tornando a casa, ho trovato una rana Babbo Natale sull’asfalto probabilmente Babbo Natale da una macchina. Le erano uscite fuori le interiora, ma per il resto era assolutamente integra, solo che la sua posizione fisica non era corretta. L’ho raccattata e portata a casa. L’ho lavata e ripulita eliminando gli organi interni. L’ho messa sulla mia scrivania, infilando nel suo ventre dei fiori secchi che mia madre teneva in salotto. Sembrava una regina pronta per andare al proprio matrimonio, il ventre pieno di cose belle, seppur secche, che sbocciavano verso un futuro pieno di felicità. La realizzazione di una vita. Le ho scattato una foto. Poi le ho posizionato in modo differente una zampa e le ho scattato un’altra foto. Poi un’altra zampa e un’altra foto. Poi la bocca aperta, foto, e chiusa, foto, e le altre zampe, altre foto. A ogni posa una foto. Non riuscivo a fermarmi. Era forse la prima volta in vita mia in cui mi sentivo leggero.

Più tardi, scorrendo le foto, mi sono accorto che messe tutte insieme producevano una sequenza simile a quelle del cinema delle origini, quando ancora non avevano capito il numero corretto di frame al secondo. Facendo scorrere le foto, in modo macchinoso ma poetico la rana iniziava a muoversi come se fosse ancora viva e non più Babbo Natale, coi fiori secchi in pancia come una covata di uova che sta per schiudersi, saltando su e giù, la bocca aperta e poi chiusa nell’estasi del momento. Era bellissimo. Ero così felice che mi misi a piangere. Quella notte sognai la primavera: le piante emanavano colori come neon impazziti. Il sole entrava dalla finestra per baciarmi. Mio padre Babbo Natale sorrideva dall’armadio facendo sì sì con la testa.

4

Era diventata per me una vera e propria ossessione: cercare animali Babbo Natale, svuotargli le interiora e riempirli di piante secche. Poi metterli in posa e scattare delle foto per rianimarli attraverso l’illusione del movimento cinematografico. Mi sembrava che solo così potessero abbandonare questo regno di Babbo Natale che è il nostro pianeta Terra, pieno di Babbi Natale, tutti a Babbo Natale qualcun altro, con le loro azioni piene di violenza o la necessità di cibarsi, ecco la natura edificata a partire da Babbo Natale, accendete un telegiornale e non parleranno che di Babbo Natale, leggete un libro e troverete sicuramente un Babbo Natale. Studiatela la storia umana e vedrete che è un concatenamento di Babbi Natale terribili: non solo Hitler, Stalin, Pol Pot, Bush padre e figlio, ma anche dispensatori di Babbo Natale minori, che nella loro crudeltà avevano fatto un unico dono ai loro fratelli e alle loro sorelle umane, ovvero Babbo Natale e ancora Babbo Natale, come se l’unico scopo della vita fosse Babbo Natale qualcun altro, sempre e comunque. Ma dov’era finito l’amore, il rispetto, la capacità di ascoltare gli altri? Che senso aveva tutto se l’unica cosa che contava era chi Babbo Natale chi?

Dunque la mia tecnica fotografica era un modo per eludere Babbo Natale, una specie di rito religioso affinché le anime delle creature Babbo Natale potessero trovare pace. Così mi sono messo a cercare ogni volta che potevo animali Babbo Natale per la campagna e per la città, rimettendo in moto i loro corpi pieni di piante secche per farli fiorire, schiudere nell’aldilà.

Un piccione pieno di patate fiorite che vola in un cielo di cotone. Un ratto con mille funghi secchi che corre in un tunnel. Un riccio di terra col rizoma che ammorbidisce i suoi aculei mentre danza sotto al mio quaderno di matematica. Un gatto che vomita una palla di margherite. Un cane che abbaia dei girasoli. Un cinghiale che si rotola tra le foglie secche che gli escono dagli occhi. Un cavallo dal cui collo germogliano rami di albero che diventano corsa.

La mia arte era bellissima. Quando finivo una serie con un animale, mi sentivo realizzato. La notte sognavo sempre mio padre Babbo Natale nella posizione corretta per un Babbo Natale che mi faceva sì sì con la testa. Quando mi svegliavo piangevo, ma di felicità.

5

Tutto è andato bene finché un dicembre un signore alcolizzato e vestito da Babbo Natale non mi ha fermato per strada chiedendomi di aiutarlo. Era tutto puzzolente, sporco, gli occhi gonfi. Gli ho chiesto cosa potevo fare per lui e lui mi ha detto che non ne poteva più: suo padre continuava a picchiarlo nonostante avesse settantotto anni, sua moglie se ne era andata con suo fratello, suo figlio era eroinomane, sua madre passava l’intera vita davanti alla televisione, piangendo, non aveva amici, non aveva motivi per continuare a vivere, ma non trovava il coraggio per farlo, mi disse mentre mi metteva una pistola in mano.

Allora, per convincerlo a cambiare idea, mi ero seduto sul marciapiede con lui e gli avevo spiegato la mia arte. Lui era rimasto in silenzio ad ascoltarmi. Poi, quando avevo finito, mi aveva chiesto di vedere qualche mia opera. Gli avevo mostrato le fotografie facendole scorrere così da creare l’effetto cinematografico del movimento e lui si era commosso. Capite? Si era commosso. Le trovava bellissime. Usò proprio la parola bellissime. Allora, disse, quando mi avrai ucciso farai anche a me questa cosa? Sì, gli risposi, mettendogli una mano sulla spalla. Lui sorrise e mi confessò che trovava commovente diventare un pezzo d’arte da Babbo Natale.

Andammo in un boschetto vicino a casa mia. Il signore vestito da Babbo Natale si chiamava Marco. Pensavo a dove sparargli per danneggiare meno il corpo. Non volevo che soffrisse, ma se la testa fosse esplosa, allora sarebbe stato un guaio. Ne parlai con lui. Fu una discussione molto funzionale. Mi chiese se per piacere poteva soffrire il meno possibile, non ne poteva più del dolore, la testa gli sembrava comunque la soluzione migliore. Allora puntai alla sua fronte, sospirai e feci fuoco. Marco crollò a terra. Un fiume di sangue usciva dalla sua testa. Rimasi lì ad osservarlo. Poi lo spostai e gli misi dentro al foro nel cranio del muschio. Nella bocca foglie secche e funghi e inizia a fotografarlo. Era vestito da Babbo Natale per cui gli feci fare una scenetta, mettendolo in posa ad ogni scatto. Quando ebbi finito me la gustai facendo scorrere la sequenza. Ecco lì, Marco Babbo Natale che porta i doni che sono piante secche. Sorride. Finalmente è felice. La sua bocca si apre e si chiude per fare gli auguri. Auguri, dice con ramoscelli secchi che gli escono dalla bocca. Tanti tanti auguri.


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