di Nicole Trevisan
Copertina di Fandango Libri
Mattia Grigolo ci serve il suo primo romanzo dopo aver esordito con “la raggia”, novella pubblicata per Pidgin, e “Temevo dicessi l’amore”, raccolta di racconti edita Terrarossa. Tre formule e grandezze narrative diverse, in progressione non crescente, e che in tutti e tre i casi hanno proprio nella dimensione del racconto la loro origine: “la Raggia” aveva scomposto ed espanso, “Temevo dicessi l’amore” aveva disseminato Ofelia, la protagonista, in un multiverso di possibilità, accostando le storie una accanto all’altra, e “Gente alla buona”, edito da Fandango Libri, fa gemmare la narrazione intorno a un cuore originario, che un tempo era un’idea di racconto in discussione con alcuni amici. “Parliamo del baratro”, si erano detti. E nel baratro ci si cala poco per volta, inesorabili, passando da uno sguardo all’altro dei personaggi che compongono questa storia.
I protagonisti sono tre amici, Larcher, Sara e Brando. Sono cresciuti come un’unica cucciolata – così si autodefiniscono –, figli di padri che erano a loro volta amici, che si conoscono da sempre, polarizzati in un punto dello spazio periferico, il paese, che è entità fisica in senso non solo geografico: ha una sua gravità attrattiva, una sua meccanica e organizzazione atomica. Al centro, il bar; intorno, le case, il campetto, le strade; orbite e percorsi, vizi che non risparmiano il contadino, l’operaio né il prete. Il paese è localizzato nella pianura lombarda, ai margini del gorgo capitalista d’Italia, Milano, oggi come negli anni in cui è ambientato il romanzo (a Mattia Grigolo piace giocare col tempo. Riprendendo le similitudini con la fisica, è dimostrato che il tempo è una variabile: sembra saperlo anche l’autore, che non esita a frammentarlo), in una nebbia soffocante, dipinta da una scrittura che affonda nella visione per farla sfaccettata e sensoriale, abbozzando la solitudine e la distanza della provincia nell’orizzonte brumoso, la terra nera.
È una storia di radici allacciate intorno ai protagonisti, conosciamo i padri dei padri, le madri e gli intrecci dei loro destini nel fondo scuro della terra, e l’impressione è quella che rimanga tutto sotto la superficie, senza che sia possibile superare lo strato di buio per arrivare a vedere la luce. Il crimine, sotteso e onnipresente, che a un certo punto esplode efferato e violentissimo, è qualcosa di cui non si parla, che rimane soffocato: è un romanzo costellato di non detti, di dialoghi fitti e spezzati dai ripensamenti, dai dubbi, da sentimenti che si lasciano intuire, ma mai definire. Perché non può essere definito un male di proporzioni così annientanti. Allora meglio non parlarne, attendere la notte di Natale, ricordare ognuno per sè, stappando una birra, un bicchiere di vino dopo l’altro.
La scrittura di Grigolo, sospesa tra violenza e malinconia, alimenta l’atmosfera di dolce e scomoda familiarità, restando umana nel definire i personaggi, ritraendoli con le loro mancanze, i silenzi che accompagnano il sedimento di dolore che si trascinano dietro, ereditario, e che ritroviamo nello sguardo di Larcher incontro al suo unico figlio, che sembra essere già segnato dal vissuto del padre. Anche lui, piccolo e ancora indeterminato, è aggrovigliato inevitabilmente alle stesse radici.
I caratteri di questo romanzo sono definiti nella cornice del paese che tutti abitano, e non a caso l’autore scrive “il paese è una stanza”: tra gli anni ottanta, novanta e duemila, che si alternano così come i punti di vista, troviamo un prete, una barista che ricorda più una locandiera, uomini che faticano, donne che attendono, rimproverano, che non scelgono il matrimonio e che aspettano i figli, non più il marito. È gente alla buona, come cita il titolo, che il sabato sera accende la tv e guarda Raffaella Carrà, i balletti sono in sordina a tragedie piccole e spropositate, perché il sogno della leggerezza è intatto e impossibile, se non quando si è bambini e si corre insieme, superficiali e innocenti.
L’infanzia che racconta Grigolo attraverso questi personaggi bambini (che poi crescono, cambiano, si ritrovano) ricorda quella dei protagonisti di IT, emarginati e uniti contro un mostro che divora piano Derry – cosa sta divorando, piano, le vite di Brando, Larcher e Sara? Chi è il mostro? – e che sconfiggono solo restando insieme. La familiarità intima dei loro rapporti, per scrittura, ricorda le atmosfere indagate dall’autore in “Temevo dicessi l’amore”, ma la scrittura ora indugia sul luogo, si approfondisce e sfuma anche i dettagli più feroci – che pure, risuonano stordenti, indimenticabili. Il risultato è un romanzo che riprende alcune sfumature noir d’aria milanese, impossibile non pensare a Scerbanenco. Ma questa è una storia umana, di provincia, di brave persone che non tentano mai di assolversi perché il giudizio non spetta a loro. E allora vivono, attendono, sperano; si tengono vicini nella stessa stanza.
Perché il mostro è fuori, ma soprattutto dentro le vite di questi personaggi. Solo stando insieme, fa meno paura.