di N. A. Ensor
Copertina di Antimonio
Capitolo 1 – Denny, Gunner e Joe
«Dev’essere una merda,» dice Gunner, «vivere con quella roba.»
Denny non lo degna di uno sguardo, con un piede avvicina il tavolino reclinabile davanti a lui e arrotola un pezzo di carta a formare una cannuccia. Se la pianta in una narice, si abbassa e tira un’altra riga.
Loro sono i miei vicini: Denny e Gunner1. E sono entrambi stravaccati sul divano a casa di Denny, un monolocale buio e puzzolente, a guardare videocassette da una TV minuscola e sgangherata. Roba così schifosamente rétro che sembra di stare negli anni ‘80.
Questa strana storia, che avrete sicuramente ascoltato di sfuggita al telegiornale tempo fa e di cui io, ahimè, conosco tutti i dettagli, mi è stata raccontata da Gunner in persona, che nel periodo in cui ci frequentavamo passava ore a raccontarmi della loro deprimente routine come se davvero m’importasse qualcosa.
Avrei potuto spifferare tutto quando lo scoop era ancora caldo e farci non so quanto in interviste e visibilità, eppure ho tenuto la bocca chiusa fino ad ora. Sono sempre stata una persona modesta.
Dunque i due coinquilini sono sul divano, a consumare droghe di ogni tipo, e Denny è a petto nudo. Pallido e sudaticcio com’è sembra una gallina spennata. Vorrebbe dire a Gunner che nel ventunesimo secolo chi ha l’HIV vive normalmente, impasticcato fino al culo ma normalmente, eppure non gli va tanto di specificare il suo stato di salute. Gunner non si merita poi tutta questa considerazione, ai suoi occhi.
«Prendo i cereali,» esclama quindi Denny, con disinteresse, e si alza a raccogliere due ciotole verdi e una scatola di cereali alla frutta, poste di fianco alla TV. Gunner non può fare a meno di mettersi a fissare per l’ennesima volta quel tatuaggio che Denny si è fatto sulla schiena dopo aver scoperto di avere il virus: una scritta a caratteri cubitali che recita POSITIVO ALL’HIV; come fa a vivere con quella roba è un mistero.
Denny versa i cereali nelle ciotole e ne porge una a Gunner. I due iniziano a mangiare in silenzio, la stanza illuminata solo dalla luce e dalle radiazioni della televisione minuscola e obsoleta.
«Gunner,» dice a un certo punto Denny, con i suoi soliti occhi spalancati a fissare il coinquilino, «sai cosa? Sembra una scena di quel film… sai, quel film col tassista.»
«Quale film?»
«Non ricordo il titolo.»
«Oh.»
«Avanti, lo sai, quello con De Niro… quello dove vuole ammazzare un politico, no?»
«Non lo so, Denny, non ne ho idea. Forse non l’ho neppure mai visto.»
«Ma dai, non puoi non averlo mai visto.»
Gunner scrolla le spalle e decide che è meglio cambiare discorso.
«Ma dai,» ripete Denny, mentre la sua voce si fa sempre più flebile.
Con un sospiro Gunner torna a guardare davanti a sé. Strizza gli occhi per cercare di leggere le etichette delle videocassette poste ai lati della TV, anche se ormai conosce già i titoli a memoria.
«Non ti deciderai mai a buttarle?»
Denny lo fissa per un po’, come se gli avesse fatto chissà quale domanda filosofica. Sembra che da un momento all’altro possa prenderlo a pugni e cacciarlo via, ma poi si limita a scuotere la testa.
«Sai che non posso farlo.»
«Non vuoi farlo», controbatte lui. «Dai troppa importanza a uno show per bambini di tanti anni fa.»
Denny gli lancia un’occhiataccia talmente cattiva che quasi lo stende. Gunner è poco più che un ragazzino, tra loro ci sono quasi dieci anni di differenza eppure è lui a dover fare la parte di quello maturo.
«Non capisci,» inizia lui, col classico tono concitato di chi cerca così tanto di sembrare calmo che, al contrario, risulta ancora più furioso. Il volume della sua voce si fa sempre più alto mentre spalanca gli occhi, degni di tutta la coca che si è tirato prima. «Non capisci, come al solito! Quelle cassette sono… importanti, no, fondamentali, io… è tutto iniziato lì, tutto… cazzo, ti odio Gunner…» urla Denny, poi man mano la voce decresce fino a diventare appena udibile. Si tiene il petto e fa grandi respiri affannosi, gli occhi blu ancora spalancati, che schizzano da un lato all’altro delle orbite.
Gunner fa un sospiro appena accennato, e torna a guardare il B-movie in bianco e nero che prima hanno scelto insieme.
Ma certo. Ovvio. A casa di Denny si dice solo quello che fa piacere a Denny. A casa di Denny la storiella che continua a raccontarsi è plausibile – no, di più: è reale. Altrimenti te ne torni a vivere sotto un cartone davanti alla stazione, bello mio.
Il più piccolo osserva Denny calmarsi, strizzare gli occhi un paio di volte e poi cercare la felpa che si è tolto prima. Gunner cerca di ignorare la faccenda delle videocassette dello show dove Denny recitava da bambino, ma non può farci niente, continua a trovarla troppo assurda.
Joyful Joe, si chiamava. Per qualche anno ebbe un successo enorme, tanto che quando vanno in giro la gente ancora lo riconosce.
«Oh, ma tu sei Joe! Joyful Joe!» esclamano tutti contenti, attaccando poi a raccontare di come avevano amato quel programma – o di come i loro figli lo avevano amato, e così via.
Denny china lo sguardo e si mette ad osservare il piercing sul capezzolo destro, arrossato e dall’aria tutt’altro che guarita. Lo tocca. Del liquido trasparente sembra colare giù dalla ferita, bagnando l’asticella di metallo.
Gunner vorrebbe dirgli che non è stata un’ottima idea farsi un piercing del genere con il sistema immunitario compromesso, ma ha davvero paura di farlo schizzare di nuovo.
L’altro si asciuga la mano sui pantaloni, con aria vagamente infastidita, e si rimette la felpa.
«Te lo ricordi che dobbiamo fare la spesa, vero?»
«Già», risponde lui, disinvolto. «Alle tre in punto, si va a fare compere,» conclude con un sorrisetto.
Denny annuisce, strofina le mani fredde tra loro. «Provo a dormire.»
«Vedi di toglierti quel piercing,» gli ricorda Gunner, mentre Danny s’incammina nell’altra stanza, con una mano appoggiata al muro per reggersi.
Gunner lo osserva chiudersi la porta alle spalle, drizza le orecchie per sentire il lieve rumore della serratura che scatta, poi si precipita alla pila di cassette di film. Un enorme sorriso gli si dipinge in faccia quando legge l’etichetta. Faster, Pussycat! Kill, Kill! è, secondo lui, il perfetto film da sega del venerdì sera2.
Si slaccia la cintura, s’infila una mano nelle mutande e fa il suo sporco lavoro, che per ovvi motivi non vi andrò a descrivere. Una volta terminato, Gunner non ha nemmeno voglia di mettersi a pulire o di chiudere la cassetta. Resta steso davanti alla tv a terminare di vedere il film, poi si addormenta senza nemmeno accorgersene, con i pantaloni calati ad altezza ginocchia.
Quella stessa notte, saranno le due o giù di lì, viene risvegliato dai lamenti del suo padrone di casa.
«Cristo santo, potevi almeno sistemare dopo,» borbotta Denny, con una tazza di caffè in mano e nell’altra un mucchietto di pillole. Si è già cambiato ed è pronto a uscire per la suddetta spesa.
Gunner si rialza, tutto indolenzito, e per un po’ i due stanno lì immobili a fissarsi. Gunner fissa Denny perché con il maglione che s’è messo addosso sembra ancora più scheletrico del solito. Denny fissa Gunner per evitare di dirgli ancora una volta quanto sia un coglione.
E sapete, al momento stanno girando dei film, o dei documentari, o quello che è su questa vicenda3. Il punto è lo stesso, comunque: io ho incontrato poche volte Dennis Cox di persona, diciamo pure che si contano sulle dita di una mano. Tutto quello che so su di lui l’ho appreso contro la mia volontà, dai racconti sdolcinati o rancorosi di Gunner, a seconda dei casi, e dal telegiornale. Eppure, sono convinta di averlo capito. Sì, io l’ho compreso a pieno. E sono estremamente sicura che quello che leggerete in queste pagine corrisponde alla realtà dei fatti.
Quando scrivo dei pensieri di Denny, non sto elaborando una mia versione poetica di questo tizio, non sto dando una mia interpretazione. Perché, come ho detto, io sono riuscita a comprendere la sua essenza. Ho capito che non è altro che una nullità, un perdente che si comporta come un animale in gabbia senza nemmeno rendersene conto. Spaventato, anzi, terrorizzato.
Perché Denny, in realtà, non è nessuno. Non è rimasto nulla della sua vera identità. E lo capirete, cari lettori, nel corso di queste memorie. Nessuno rimarrà mai fedele alla vera immagine di Dennis Cox come me, in questo esatto momento.
Perché io, al suo posto, avrei fatto lo stesso.
Capitolo 2 – La spesa
Denny dice sempre che lo show dove ha recitato da piccolo, più o meno dagli otto anni ai sedici, gli ha rovinato la vita. È convinto che tutte le sue sfortune derivino da lì, a cominciare dal produttore che lo aveva ingaggiato personalmente e gli aveva dato il ruolo di Joyful Joe4.
Joyful Joe. Che nome del cazzo. Denny ancora ci pensa mentre lui e Gunner camminano per le strade desolate della città, e in effetti sono davvero poche le volte in cui quella faccenda non gli ingombra i pensieri; è il suo chiodo fisso da anni, dopotutto. È il motivo della sua miseria, e in un certo senso è anche il motivo per cui lui e Gunner camminano per strada alle tre di notte con due buste della spesa vuote tra le mani.
E mentre camminano, Denny non può trattenersi dal pensarci; ci pensa quando l’amico gli parla, quando attraversano la strada buia e deserta, quando Gunner saluta qualcuno disteso su un marciapiedi e coperto da un cartone e buste nere.
Tutto ciò che gli è capitato di brutto fino ad adesso è stato a causa di quello spettacolino di merda in onda ogni giorno dalle tre alle quattro su qualche canale per bambini. Forse è per quello che adesso li odia, i bambini.
Tutti i soldi che ne aveva ricavato erano spariti nell’arco di qualche anno, tra esorbitanti paghe per i suoi assistenti e sedute di chirurgia plastica per la sua amata mammina. Il suo manager personale, quello che era riuscito a farlo assumere parlando col produttore in persona, sparito dopo averci provato con lui durante la sua festa dei quindici anni. Tutta la gente che iniziava a frequentare dopo un po’ non si faceva più viva: qualcuno aveva fatto terra bruciata attorno a lui. E qualche anno più tardi, come qualsiasi attore bambino che si rispetti, era finito nel giro di persone semi-famose ma del tutto drogate che alimenta gli spacciatori da anni. Ma anche qua non gli era andata bene: al primo buco si era subito beccato il virus, nemmeno il tempo di diventare un fattone come si deve… e poi giù, giù, giù, da allora la sua vita è stata un continuo affondare fino ad ora5.
Dunque, l’unico avvenimento degno di nota nella sua vita è stata la partecipazione in quel maledetto show. Deve essere per forza quella la causa di tutto. Magari qualcuno che voleva la sua parte lo aveva maledetto, o cose del genere.
In ogni caso cercare di spiegarlo meglio a Gunner è tutto inutile, quel coglione non capirebbe mai davvero che Denny ha il bisogno fisico di riguardare quelle cassette. Per capire dove tutto sia andato storto.
«Marty è già lì?» domanda Gunner all’improvviso.
Denny grugnisce qualcosa in assenso.
Silenzio. Ma Gunner non riesce proprio a trattenersi e riprende a parlare: «Io non capisco perché dobbiamo sempre affidarci a gente del genere. Potremmo farcela benissimo da soli,» esclama, guardandolo dall’alto al basso, non perché lo stia giudicando, ma perché è uno spilungone e di solito guarda in testa a tutti. Lo fissa con quel suo paio di occhioni espressivi che non gli si addicono per niente. Non sarebbe male se si curasse di più, ma fare shopping di creme per il viso e dopobarba profumati non è proprio il loro hobby preferito.
«Chiudi la bocca, Gunner,» gracchia Denny, inarcando il sopracciglio. «Sei proprio l’ultimo che può parlare di cattive compagnie, tu che te la fai con quella gallina di Nora6».
Denny ha addosso un bomber verde scuro, le mani seppellite nelle tasche e degli occhiali con le lenti gialle, quelle che secondo Gunner lo fanno somigliare a un molestatore, oppure a un attore porno degli anni Settanta. A cosa gli servono quegli occhiali di notte, questo lo sa solo lui.
«E poi lo sai che la macchina è dal meccanico fino a domani. Quel catorcio cade a pezzi, ormai.»
Gunner scuote la testa e come al solito non ribatte.
Dopo qualche minuto di cammino, immersi ancora in un silenzio tombale, arrivano nei pressi del negozio. Il posto dove devono fare la spesa, lo avrete capito, è il posto che devono rapinare. Immaginatevi un alimentari minuscolo di quelli che si trovano a ogni angolo, un ambiente piccolo, di solito gestito da una famiglia, dove i miei cari vicini sono ormai clienti affezionati.
Insomma, arrivano al loro obiettivo e lì davanti trovano una coppia che litiga, anche piuttosto animatamente. Li riconoscono subito: sono Marty, il loro complice per la serata, e Stella, la sua ragazza, o moglie, o ex, nessuno l’ha mai capito. L’unica particolarità dei due è che il loro hobby di coppia è litigare, in ogni situazione. Quindi Gunner corre a separarli perché i due iniziano a fare un po’ troppo casino.
«Eccovi qua, finalmente,» esclama Marty, tornando gioviale come sempre, mentre si cala un po’ di più il cappuccio sulla testa. Poi si volta e indica con un cenno del capo un blocco di cemento portato da chissà dove. «Chi mi aiuta?»
Denny porta una mano dietro la schiena di Gunner e lo incoraggia a proporsi. Suo malgrado, si fa avanti.
«Speravo ti proponessi tu e non quello stecchino del tuo amico,» annuisce Marty, che poi si volta a guardare il diretto interessato e scoppia a ridere a vedere la sua espressione. Si tiene la pancia mentre tutti si scambiano uno sguardo confuso. Denny ribolle di rabbia, e riesce ad accennare un sorrisetto solo con grande sforzo.
«Stavo scherzando, su,» aggiunge Marty dopo un po’. Poi si china col culo all’aria a prendere un angolo del blocco di cemento.
«E lei?» domanda Gunner, cercando in tutti i modi di essere abbastanza discreto.
«Lei cosa?»
«Stella,» sussurra l’altro, mentre cercano di sollevare insieme il blocco. «Cosa ci fa qui?»
«E che ne so,» sbotta, cercando di farsi sentire il più chiaramente possibile dalla ragazza. «Questa stronza mi perseguita.»
«Devo ricordarti quello che hai combinato, Marty?» strilla lei, e subito Denny le si avvicina per calmarla.
La porta appena più lontano di lì, in disparte, e si mettono a parlare, mentre Gunner lancia uno sguardo preoccupato ai due. Non si preannuncia niente di buono, e se c’è una cosa in cui Gunner è bravo è percepire il pericolo.
«Allora, al mio tre,» gli strilla Marty in un orecchio. Iniziano a far dondolare il blocco di cemento, sempre più in alto. Una volta che la vetrina sarà sfondata avranno pochi minuti per arraffare tutto quello che possono, per poi filare con la refurtiva nell’auto di Marty.
Il tipo conta fino a tre e il blocco di cemento finisce dritto dritto nella vetrina. Un rumore assordante rimbomba per la stradina. Denny porta le mani sulle orecchie di Stella, poi tutti e quattro corrono dentro, evitando i pezzi di vetro.
Marty salta il bancone e inizia a intascarsi tutti i pacchetti di sigarette che vede. Stella, senza proferire parola, gli lancia la sua borsa addosso e in un gesto ben collaudato il ladro la prende e inizia a riempirla.
Gunner, invece, si precipita nel reparto alimentari. Si riempie le tasche di merendine, scatolette di tonno e zuppe già pronte. Si è messo i pantaloni militari, quelli presi al negozio di seconda mano. Sono pieni di tasche, e pochi minuti dopo già cammina per la corsia con le gambe divaricate e un sorriso felice in volto. Mentre sta per svoltare verso il reparto dei surgelati, quasi si scontra con Denny e Stella, che camminano affiancati e si sussurrano qualcosa a vicenda, mentre Denny prende ogni tanto dei prodotti dagli scaffali. Patatine, più che altro, di quelle che ti lasciano le dita puzzolenti e piene di briciole, giusto perché Denny ha gusti di merda anche in quello.
I tre restano a guardarsi per qualche secondo con aria confusa. Marty, dall’altro lato del locale, gli grida di sbrigarsi.
Stella guarda Gunner con diffidenza e lo aggira, riprendendo a camminare.
«Senti, ti spiace portare tutto a casa da solo?» fa Denny, sbrigativo, per poi mollare in mano a Gunner le patatine e le altre cose che ha preso poco prima. «Stella mi ha chiesto di andare da lei stasera.»
«Denny… non fare cazzate, ti prego,» lo supplica l’amico.
«Ma quali cazzate,» sbuffa l’altro. «Stai tranquillo. Mi diverto, tutto qui.»
Non è proprio quella la risposta che Gunner si aspettava per essere rassicurato. In momenti del genere ciò che passa per la mente di Denny è quantomeno pericoloso.
«Comunque dovremmo sbrigarci a scappare, altro che andare da Stella,» cerca di protestare Gunner, imitando il tono sarcastico che l’amico usa sempre con lui, ma senza grandi risultati.
«Usciamo sul retro,» si limita a dire Denny, portando la mano dietro alla schiena di Stella per poi condurla alla fine della corsia. «Lo dici tu a Marty, va bene?»
Senza aggiungere altro, Gunner li osserva uscire dal retro con aria sconfitta.
Questo è il vero problema di Denny: deve sempre trascinare la gente con sé, ne ha bisogno, perché odia essere l’unico ad andare a fondo.
E nel momento in cui Gunner gira i tacchi e corre da Marty, inizia già a prepararsi per l’ennesimo problema che sarà costretto a rimediare.
Capitolo 3 – Dentro Denny
Denny fissa lo schermo mentre le forze iniziano ad abbandonarlo.
Osserva inerme e impotente sé stesso, mentre la TV, unica fonte di luce nella stanza, gli illumina la faccia e lo fa sembrare ancora più inquietante.
Sta riguardando la puntata numero tre della seconda stagione. Quella dove si insegna ai bambini il valore dell’amicizia: Joyful Joe litiga con un personaggio del cast principale, ma nella seconda parte della puntata, quando lui ne ha bisogno, il suddetto personaggio arriva ad aiutarlo nonostante tutto. Segue discorso smielato sull’importanza di risolvere i problemi tra amici con rispetto e titoli di coda.
Joyful Joe è lì, quel bimbetto con i capelli neri, le guance rosse e un sorriso così grosso e innaturale che lo fa sembrare paralizzato. Ha addosso quell’orrendo maglioncino verde e giallo che col tempo è diventato il simbolo dello show. Per un attimo Denny si distrae, pensando a dove sia finito quel maglioncino, ma non riesce proprio a ricordarselo. La produzione gliel’aveva fatto tenere alla fine delle riprese, come regalo d’addio, e che gran bell’addio. L’avrà dato a qualcuno? L’avrà cestinato? Sarà in soffitta? No, non ce l’hanno nemmeno, una soffitta.
Quando Joe si rivolge agli spettatori per i saluti finali, Denny chiude gli occhi, lucidi e arrossati per tutto il tempo che ha passato lì davanti. Una lacrima gli appanna la vista, ma lui si rialza barcollante, deciso a continuare. Non si può dire che gli manchi la costanza7.
Allora Denny si inginocchia e prende la cassetta del quarto episodio. La cambia e torna al suo posto.
Mani strette ai braccioli del divanetto, respiro corto. Ecco che ricomincia la sigla, e lui la canticchia sottovoce, sussurrando le parole, che ricorda a memoria sin dal periodo in cui recitava.
Poi ricompare ancora una volta Joyful Joe, che ormai possiamo definire il suo peggior nemico. Di nuovo si ritrova davanti alla fonte dei suoi problemi da circa quindici anni a questa parte.
Denny fissa la TV e tutto ciò che riesce a vedere nel volto di quel ragazzino che gli somiglia troppo è una sanguisuga. Un essere parassitario che gli si è attaccato addosso e si è cibato di lui finché non è rimasto altro che il mucchietto d’ossa che vede quando si guarda allo specchio.
Una vera tragedia, perché se c’è una cosa ancora più forte della credenza di Denny che Joyful Joe gli abbia rovinato la vita, è la convinzione di non avere nessuna colpa nella vicenda.
Il vero problema, infatti, è che non riesce a trovare un colpevole preciso. La colpa è di qualcun altro, ma non riesce proprio a capire chi. Potrebbe essere chiunque. E sì, potrebbe incolpare una persona a caso della produzione, il suo agente, il regista, sua madre che lo portava ai provini sin da quando non riusciva a reggersi in piedi da solo… ma sarebbe troppo facile.
Queste sono solo pedine, nella mente di Dennis Cox. Manca qualcuno, quella specifica persona che ha messo l’ultimo chiodo nella bara del suo futuro. Manca l’ultimo tassello del puzzle, quello che lo ha condannato per sempre.
Ma, come al solito, non riesce proprio a capire chi sia. O cosa sia, visto che ormai non capisce più nemmeno se stia cercando una persona reale o un qualcosa di astratto.
E quindi torna sempre lì, alle sue cassette.
E guarda Joe.
In caso ci fosse ancora confusione, ripetiamo le basi. Joe non è Denny. Joyful Joe non è Dennis Cox, semplice.
Il Dennis Cox in questione, dunque, continua a guardare quei filmati e chiude gli occhi per un secondo, e pensa a quante volte si sia trovato in una situazione del genere: lui a casa da solo, al buio, mentre Gunner è a divertirsi da qualche parte e il mondo va avanti e lui è lì e tutto ciò non gli sembra più nemmeno una scena reale. Non è per niente reale.
E l’unica fonte di luce, in questo momento, è tutto ciò che odia di più al mondo.
Odia vedere quei maledetti bambini recitare e innescare le risate preregistrate. Odia le loro vocette stridule. Odia la scenografia colorata. Odia la sigla e la musica di sottofondo. Odia l’umorismo infantile. E cazzo, se odia il protagonista.
Fosse rimasto così, si sarebbe spaccato la faccia da solo.
Denny digrigna i denti con un verso a dir poco inquietante, e poi, mentre continua a rabbrividire a tutto ciò che gli passa davanti agli occhi, eccola che compare.
Lei. Non ricorda come si chiama, ma è come ai vecchi tempi.
Dopo qualche secondo di riflessione gli compare in mente un nome: Sarah. Forse si sbaglia, ma in ogni caso le si addice.
Si era innamorato per la prima volta quando era stata introdotta nello show, o così gli sembra di ricordare al momento. Poi, in seguito a dei problemi di contratto, il suo manager aveva deciso di farla ritirare dopo mezza stagione.
Denny e Sarah avevano interagito poche volte, ma ricorda benissimo di come la fissava ogni volta che si ritrovavano in una scena insieme. Forse non avevano mai nemmeno parlato, ma da ragazzino era convinto di amarla.
In un impeto di nostalgia, in onore dei vecchi tempi, Denny si ficca una mano nei pantaloni e inizia a farsi una sega. Su quella ragazzina conosciuta anni prima. Per quanto ne sa ora potrebbe essere morta, o sposata, o una stella di Hollywood.
Dopo un minuto o due, inizia a sentire come un distaccamento dal proprio corpo. Come se non fosse lui quello che al momento è impegnato a farsi una sega su una ragazzina di uno show registrato di una decina di anni prima. E a un tratto gli sembra di osservare la scena dall’alto, mentre ai lati del suo campo visivo si fa tutto sfocato, poi dilatato, rallentato.
Quello non è lui. Nessuno dei due è Dennis Cox. E allora chi è, chi è e dove si trova in quel momento? Nella TV, sul divano, o altrove?
Denny guarda la scena dall’alto col suo solito disprezzo, ha freddo e sente come se stesse fluttuando nell’aria. Come se fosse alto tre metri. Guarda la TV dall’alto. Guarda la fine dell’episodio, mentre Joe fa il suo solito monologo, stringe i pugni e si fa male, forse è venuto da qualche parte?
In un lasso di tempo che gli sembra duri un attimo e un secolo allo stesso tempo, la sigla inizia a sembrargli sempre più assordante, il volume si alza senza che nessuno tocchi il telecomando, gli distrugge le orecchie, e negli ultimi dieci secondi Denny sente un tuffo al cuore, come se qualcuno lo avesse preso alla sprovvista.
Un secondo dopo riapre gli occhi e si ritrova di nuovo nel suo corpo.
Ed è proprio in questo esatto momento che Denny si ricorda di aver venduto quel maglione verde e giallo a un tipo inquietante su Ebay, e di essersi fatto con quei soldi una botta di coca da dio8.
Lo schermo diventa tutto nero.
È il momento di catarsi della sua vita, solo al contrario.
E poi…
E poi.
E poi Stella schizza dentro casa, ha una faccia imbestialita e Gunner dietro di lei non ha la più pallida idea di cosa fare, dimostrandosi il solito idiota inutile che è sempre stato.
Denny si alza d’istinto, con un mezzo sorriso, ancora tutto frastornato, ma uno schiaffo di Stella lo riporta subito al suo posto. Lei gli salta addosso, lo afferra per la gola. Ha delle unghie davvero affilate.
«Bastardo, brutto pezzo di merda,» sbraita, scuotendolo avanti e indietro. «Cosa cazzo hai fatto!»
«Ehi, ehi, piano signorina,» risponde lui, e poi, imitando il suo tono di voce, chiede: «Cosa cazzo ho fatto?»
I capelli sudici gli ricadono sugli occhi a ciocche. Stella allora spalanca i suoi, di occhi, e si volta a cercare qualcosa con cui colpirlo. Poi ci rinuncia e di nuovo gli è addosso, lo prende a schiaffi, gli graffia la faccia con le sue unghie appena fatte. Per un secondo abbassa lo sguardo, nota una macchia umida sul cavallo dei pantaloni, e con un urlo si allontana di scatto.
Gunner arriva appena in tempo e le afferra le braccia, da dietro, mentre si rimette a strillare.
«Cazzo, Denny! Vaffanculo!» urla, mollandogli qualche calcio sugli stinchi, e Denny non cerca nemmeno di scostarsi. Non ne vale la pena, pensa.
La voce di Stella si incrina mentre continua a ricoprirlo di insulti, poi si volta e se la prende con Gunner.
«Dimmi cosa devo fare, ora! Io… io non…»
«Su, calmati ora,» dice Gunner, portando una mano sulla sua testa. Le accarezza i capelli per un po’, per tranquillizzarla. Lei singhiozza sommessamente, le guance ancora asciutte.
«Senti un po’, ormai quel che è fatto è fatto. Denny è uno stronzo, un vero coglione, ma fare così non risolve nulla.»
«Ma lui…» Stella punta un dito contro Denny. «L’ha fatto di proposito, cazzo! Vuole che diventiamo tutti come lui! E ora… ora come faccio a dire a Marty che…»
E questa è la volta buona che scoppia in lacrime.
«No, non è detto. Davvero, non capita in tutti i casi, te lo assicuro. Dai, ti accompagno a fare il test.»
Stella annuisce, a testa bassa. Si asciuga le lacrime e lancia un’ultima occhiataccia a Denny, che invece ha chiuso gli occhi e sembra essersi addormentato.
Gunner lo guarda per un attimo e pensa che questa bastardata poteva anche evitarsela. Se l’è scopata senza protezioni, lei è venuta a sapere del virus di Denny qualche giorno dopo e adesso se l’ha contagiata dovrà vedersela con Marty9.
In realtà, Gunner spera soltanto che Denny non l’abbia fatto davvero di proposito, magari a casa hanno bevuto e lui non se n’è nemmeno reso conto. Magari se l’è dimenticato, pensa, ma come si fa a dimenticarsi una cosa del genere?
Il fatto è che Gunner vuole credere con tutto sé stesso all’innocenza di Denny, perché è fatto così, crede che tutte le persone in fondo abbiano un lato buono. Che non farebbero cose così terribili di proposito, soprattutto se sono suoi amici.
Ma Gunner è uno sciocco, un sognatore, e non si rende conto che a volte è il contrario. A volte le persone sono ancora peggio di quello che sembrano. Alcune persone sono marce dentro, hanno dei buchi neri dentro di loro pronti a risucchiare qualsiasi cosa. Persone del genere attraggono gli altri verso di sé, per poi trascinarli nel proprio vortice di negatività e cattiveria, finché non diventano tutti come loro.
E allora, forse Stella ha ragione, forse è vero che Denny vuole portare tutti a provare lo stesso odio che prova lui. Magari vuole solo sentirsi a casa in un mondo dove, secondo i suoi standard, la gente è fin troppo felice.
Capitolo 4 – Un’allegra giornata di lavoro
Il club di golf non è molto affollato, il martedì mattina. I ricconi frequentatori di questo posto puzzano di soldi appena stampati, pensa Gunner. Qualunque sia l’odore dei soldi appena stampati.
Mentre è nello spogliatoio del personale, mentre si toglie i vestiti e prende dalla borsa il costume da bagno e la maschera, pensa all’ultimo casino combinato da Denny – l’affaire Stella, come hanno iniziato a chiamarlo.
Al momento il test è risultato negativo, ma tocca ripeterlo ogni mese per un bel po’ di tempo, per essere certi che non vi sia stato un effettivo contagio.
Eppure Gunner era sicuro, quando aveva conosciuto Denny, di avere a che fare con un bravo ragazzo. O almeno con una persona vagamente decente.
Gunner si toglie i pantaloni, la felpa e la camicia bianca che ha sotto.
La prima volta che lo aveva incontrato non voleva crederci. Si era procurato una specie di lavoro come assistente in un negozio di tatuaggi, anche se in realtà non sapeva tatuare né ci teneva a imparare: era lì solo per pulire e tenere in ordine. Insomma, un giorno Denny era entrato con la faccia tutta allucinata, e aveva chiesto al tatuatore di fargli sul bicipite un cuore con scritto dentro il suo stesso nome.
«Denny con la e,» ci aveva tenuto a specificare più volte, ma il tatuatore doveva avere qualche problema di udito e aveva finito per scrivere Danny comunque.
Finito il lavoro, Gunner aveva incontrato lo sguardo deluso di Denny, che sembrava stare sulla difensiva da quando era entrato e probabilmente stava immaginando tutti i modi possibili per uccidere il tatuatore. Insomma, erano rimasti così per un po’. Poi Denny aveva detto: «Mi riconosci?»
«Mai visto prima,» aveva replicato Gunner con schiettezza. «Dovrei?»
«No, cazzo, no,» durante questo breve scambio di battute Denny lo osservava da testa a piedi con sguardo accusatorio. «Beh, se non mi riconosci possiamo parlare10».
Gunner scuote la testa, mentre si spoglia completamente e indossa il costume da bagno, la maschera, e come ultima cosa prende dal suo armadietto il retino e gli infradito rosa fornite dal club. Quelle blu sono dimenticate in un angolo, tana di un’allegra colonia di funghi da settimane.
«Sei uno schianto,» esclama Denny, seduto a gambe incrociate sulla panca accanto a quella del suo amico.
Farsi assumere nel personale del club del golf non è difficile. Basta essere disposti ad accettare ogni tipo di lavoro strano o degradante, ed ecco perché loro due si trovano lì.
Dunque Gunner si incammina fuori dallo spogliatoio dello staff verso il campo da golf. Ci sono quattro stagni e dei laghetti piuttosto profondi, e il suo compito è quello di recuperare le palline che ci finiscono dentro. Sono pochi spiccioli a pallina, ma considerando che la maggior parte dei clienti ha un piede nella fossa e non vede niente, non è un cattivo affare11.
Questo lavoro, inoltre, ha anche dei vantaggi segreti. Per esempio, Gunner ha ormai imparato tutti i nomi e gli orari di chi viene a giocare a golf ogni mattina, dove parcheggiano le loro auto di lusso e dove gli inservienti portano le loro giacche. Pelliccia di visone, pelle di serpente e cose del genere. Roba che solo a pronunciarla ti senti più ricco.
Il resto lo lascia a Denny, che con il suo disprezzo verso la gente di successo è di sicuro più portato di lui per quella parte del lavoro.
Dopo un paio d’ore di immersioni nei laghetti Gunner riporta alla base un cestino pieno di palline da golf.
Denny non c’è nello stanzino dello staff, segno che ha già completato il lavoro e lo sta aspettando fuori: Gunner ne ha la conferma quando esce, diretto al parcheggio dello staff, e lo trova già nell’auto pronto a partire.
«Ho preso una cosa per te,» esclama Denny, seduto nel sedile di dietro, non appena Gunner entra in macchina.
Il più piccolo si volta e lo vede posare diversi portafogli dentro una busta. Poi si china e prende una pelliccia beige, di quelle corte che arrivano ai fianchi. Vagamente vintage e sicuramente da donna.
«Stai scherzando,» esclama Gunner, con gli occhi spalancati per la sorpresa. Non è mai sembrato più sveglio di così. «Cazzo, chissà quanto vale questa cosa. Sai già a chi venderla?»
«No, guarda che dicevo davvero,» replica Denny, porgendogli la giacca. «L’ho presa per te, è un regalo.»
«Per me?»
«Per te, sì. Forse ti è rimasta dell’acqua nelle orecchie.»
Gunner sorride, si volta ed esamina la pelliccia in silenzio, confuso.
«Secondo me ti sta bene.»
Gunner non riesce proprio a capire se è una presa per il culo o se Denny sta dicendo davvero. Di una cosa però è certo: il Denny della pelliccia non è lo stesso che ha combinato quel casino con Stella.
«Vuoi metterla o no?»
«Faremo meglio ad andarcene al più presto.»
Denny alza le spalle e si sporge ad accendere la radio. C’è il CD che ascoltano sempre quando girano nella sua utilitaria che quasi cade a pezzi, nonostante i frequenti viaggi dal meccanico. È una compilation che si è fatto da solo delle sue canzoni preferite, e per metà sono solo canzoni dei T. Rex. Denny stravede per quel gruppo; mentre Gunner guida e dondola la testa a destra e sinistra, l’auto si riempie delle note di Cosmic Dancer.
Il viaggio per tornare a casa dura una decina di minuti, ma se non stai a pensarci sembrano di meno: una vera tortura per Gunner, che prega di fare un incidente mortale o almeno di trovare un ingorgo. Tutto, pur di non vedere per l’ennesima volta la scena di Denny che si mette a esaminare quelle vecchie cassette. È in momenti del genere che si rende conto di quanto il vero Denny sia diverso dal sé stesso che esiste soltanto per odiare Joyful Joe12.
Una volta arrivati a casa, Gunner si piazza davanti allo specchio rettangolare e prova la pelliccia.
«Lo sapevo, io,» esclama Denny. «Ti va a pennello. Ho occhio per queste cose.»
«Non si abbina col mio stile,» osserva Gunner.
L’altro si avvicina alle sue spalle e osserva la figura allampanata e vestita male dell’amico attraverso lo specchio.
«Ma quale stile?»
Certe volte Gunner si sente più barbone adesso che vive con Denny rispetto a quando lo era davvero, ma questo evita di puntualizzarlo.
«Non ci vuole molto a cambiare,» aggiunge Denny. «I capelli, prova a farli crescere un po’. Poi ci vogliono degli occhiali da sole, quelli sono indispensabili. Come scarpe, magari degli anfibi. E arrotola i jeans, sono orrendi quando vanno sotto le suole delle scarpe.»
«Vuoi farmi andare a battere per strada con questa, per caso?» domanda Gunner, spazientito.
«Dio, no,» esclama Denny, poi con una vena di malizia aggiunge: «Chi la sente quella stronza di Nora, poi13».
E Gunner, quell’idiota totale di Gunner, non riesce a trattenere una risatina nonostante Denny abbia appena insultato sia me che lui in un colpo solo.
«Tienitela e basta,» sbotta il coinquilino, poi si allontana dallo specchio e sparisce dietro al divano, mentre Gunner si avvicina al frigobar e si mette a cercare qualche bibita fresca da bere.
«Ehi,» accenna dopo dei minuti di silenzio. Sorseggia la bibita, una lattina di aranciata che in realtà sa di gomma da masticare. «Io credo di uscire stasera. Tu che fai?»
«Lo sai già,» esclama Denny, tutto indaffarato a togliersi giacca, scarpe e pantaloni, per poi stravaccarsi sul divano. «Sono quasi al decimo episodio. È qui che le cose si fanno complicate.»
Gunner abbassa lo sguardo. È deluso, anche se non vuole ammetterlo: la giornata sta andando così bene che per un attimo gli è sembrato di avere un coinquilino normale.
«Senti, ma da quanto tempo è che va avanti così?» domanda poi, rassegnato. Si toglie la pelliccia e la appoggia al bracciolo del divano, per poi sedersi accanto a Denny.
«Saranno due, tre anni al massimo,» risponde distratto Denny. È una palese bugia ma entrambi decidono di ignorare la cosa.
«Ma dai,» accenna Gunner. «Forse se ci fossimo conosciuti un po’ prima ti avrei impedito di ridurti così.»
Denny alza lo sguardo dalla lista degli episodi scribacchiata a matita su un foglio macchiato di unto ai lati. Innervosito, ma tranquillo. Non ha voglia di prendersela con Gunner, non dopo avergli regalato quella pelliccia. Non avrebbe senso, fare un regalo del genere a un amico e poi maltrattarlo subito dopo.e
Così resta per un po’ a riflettere in silenzio, come se stesse per fare un’importante diagnosi, e alla fine accenna una risata e dice: «No, Gunner. Hai solo la sindrome della crocerossina. Passerà».
Capitolo 5 – Uscita
Gunner ha un buon sesto senso, di solito. Almeno questo è quello che gli dicono sempre. Un po’ come i cani capaci di avvertire in anticipo i terremoti, insomma. Eppure, a quasi un anno dal disastro di cui hanno parlato così tanto in TV14, nessuno, tantomeno Gunner, avrebbe potuto prevedere l’inizio della fine.
E si dà il caso che l’inizio della fine abbia a che fare anche con me.
Indirettamente, certo, eppure è qualcosa a cui ancora penso spesso.
Dunque, la situazione è questa: io e Gunner abbiamo litigato, Gunner è depresso e Denny non lo sopporta più. In casa Cox c’è solo una persona che può autocommiserarsi tutto il giorno, e quello è il padrone di casa.
E così, di nuovo sul solito divano, Denny alterna lo sguardo dalle pubblicità che passano in TV a Gunner, seduto accanto a lui, con una pessima cera e lo sguardo che vaga per la stanza, perso nel vuoto.
Denny si innervosisce quando qualcuno si comporta come lui. Così fa un bel respiro e senza riuscire più a trattenersi esclama: «Tu, caro mio, dovresti proprio smetterla di deprimerti per una stronzata del genere».
«Tra i due sarei io quello che si deprime per una stronzata?» replica Gunner, la mano spalmata sulla guancia mentre guarda fisso davanti a sé. Non guarda la TV, ma le ragnatele che si creano sulle cassette in fondo alla pila. Quelli sono i primi episodi, ormai li riconosce al volo anche lui. «Non pensavo di arrivare a questo punto, Denny. Tu che mi fai la morale su una cosa del genere? È davvero…»
Patetico, vorrebbe aggiungere. Ma Gunner è troppo gentile per dare a Denny del patetico, anche se ormai dovrebbe essere una realtà ben consolidata. Quindi s’interrompe e termina la frase borbottando qualcosa di incomprensibile.
Denny, dal canto suo, scuote la testa e punta un dito sul petto di Gunner.
«Come al solito non ci capisci niente. Hai ancora molto da imparare sulla vita.»
«Ma questo cosa c’entra?»
«Tutto c’entra! Oh, cazzo,» s’interrompe poi, gli occhi di nuovo incollati alla TV: è appena iniziata la televendita di un tosaerba. Denny fissa lo schermo con due occhi che definire spalancati è un eufemismo. Quasi si riesce a vedere il suo encefalogramma piatto.
Il tosaerba è in offerta a metà prezzo. Appena Denny sente l’annuncio spalanca la bocca e si gira verso l’amico.
«Cazzo, guarda che prezzo. Conviene prenderlo subito. Non si sa mai.»
«Ma a che serve?» domanda Gunner, evidentemente animato da uno spirito masochista, perché a quest’ora dovrebbe aver capito l’inutilità di discutere con Denny. «Non abbiamo un giardino.»
«Ed ecco perché non capisci un cazzo,» sbotta Denny, stizzito, e poi afferra il telecomando e inizia a fare zapping. «Si chiama investimento, dalle mie parti.»
Non ci vuole molto a distrarre il suo coinquilino, e sviare un discorso spiacevole con lui è la cosa più facile del mondo.
Allora Gunner piomba di nuovo nel silenzio più totale, e forse Denny inizia a sentirsi un po’ in colpa. Tamburella le dita sul bracciolo del divano, e ogni tanto sposta lo sguardo sull’amico. Dopo qualche minuto di esitazione, Denny riprende la parola.
«Senti, facciamo così,» esclama. «Andiamo da qualche parte. Facciamo un giro.»
«Vuoi uscire?» replica subito Gunner, con gli occhi che quasi s’illuminano e il pensiero della sua ragazza già nel dimenticatoio. Non capitava da un sacco di tempo che l’amico proponesse di fare qualcosa a parte riguardare le registrazioni. «Assurdo.»
«Sì, un’uscita, sai, per distrarti,» replica Denny con tono smielato.
Gunner non se lo fa ripetere due volte: tempo dieci minuti e sono fuori, ad aspettare l’autobus che li porterà in centro città.
Insieme a loro salgono sul bus una donna di mezza età e un ragazzino. Denny, che è stranamente di buon umore, non nota la signora che lo fissa con insistenza, strizza gli occhi, cerca di capire chi sia, e perché quel tizio le sembri così familiare.
E poi lo capisce. Oh, sì se lo capisce.
Gunner, che ha notato la tizia e ha intuito la sua prossima mossa, si paralizza di colpo sul sedile, pregando che non si avvicini, che non succeda tutto da capo, non un’altra volta.
Passa qualche secondo di terrificante silenzio, poi, ignorando le preghiere silenziose di Gunner, la donna si alza e si avvicina di un paio di passi al loro sedile.
Solo in quel momento Denny si rende conto di quello che sta per accadere, e all’istante si pente di aver invitato fuori Gunner per quella maledetta uscita, causata dal suo maledetto malumore causato a sua volta da quella stronza odiosa della sua ragazza.
«Oh… merda,» dice a denti stretti Denny, abbastanza ad alta voce per farsi sentire da Gunner, come se una specie di grido d’aiuto. «Non ci posso credere!»
Gunner abbassa lo sguardo, imbarazzato, mentre qualcun altro sul bus si volta nella loro direzione. Denny non dice nulla, pietrificato.
«Mi scusi, devo proprio dirglielo… Lei, per caso… per caso era quello che recitava in Joyful Joe? Lo show per bambini!»
Ecco cosa succede quando abbassi la guardia anche per un attimo, Denny. Tutto ricomincia esattamente come prima.
«Lo guardavo sempre, era il mio programma preferito, sa? Ho anche registrato tutte le puntate.»
Denny ha lo sguardo perso nel vuoto e Gunner pensa che da un momento all’altro esploderà. E ha ragione.
«Lo so, che stupida, sono passati un sacco di anni, ma era così bello… lo faccio anche vedere a mio figlio, gli piace così tanto!» dice la signora tutto d’un fiato, indicando prima sé stessa e poi il ragazzino seduto qualche posto più indietro.
Denny la fissa per un po’, senza alcuna emozione evidente. Magari la signora si aspetta pure che inizi a ringraziarla per tramandare quello schifo di show.
Lei fa per strattonare il ragazzino verso di loro, ma Denny la interrompe, si alza. Gunner prega sottovoce che stia calmo, almeno per una volta.
«Signora, lei ha una minima idea di quanto sia stato terribile recitare in uno show del cazzo come quello?»
La donna spalanca gli occhioni neri, mentre le lunghe ciglia coperte da strati di mascara fanno su e giù.
«Lei ha… no, no, mi faccia parlare,» esclama, anche se la signora non ha ancora detto niente, e poi ricomincia: «Lei ha una minima idea di cosa ha appena detto? Della gravità, ecco, la gravità di quello che ha detto. Lei lo sa che ho un nome? Lo sa che Joyful Joe non è il mio cazzo di nome, eh?»
«In realtà io non,» accenna la signora, ma Denny le sventola un dito davanti intimandole di fare silenzio.
«E lo sa che sono più di dieci anni che quel maledetto show è finito e c’è ancora gente come lei che viene a parlarmi di una persona del cazzo che non esiste,» Denny prende fiato mentre Gunner si passa una mano sul volto, desiderando ardentemente di sparire, «mentre, ripeto, non potrà mai capire quanto sia stato umiliante crescere e continuare a essere riconosciuto come un personaggio, un falso, qualcosa che ha distrutto la mia identità?» continua, pronunciando la parola personaggio come se fosse un pesante insulto.
«E questo per cosa, poi?» Denny si alza in piedi, mentre il bus si ferma al semaforo. Gunner desidera solo di disintegrarsi e sparire, mentre l’amico si appoggia alla sua spalla per non sbilanciarsi.
«Per cosa? Non sono riuscito più a trovare uno straccio di ruolo perché tutti mi riconoscevano così, è un ruolo che ti è rimasto nel DNA, mi dicevano, ormai sei Joyful Joe, è la tua stessa faccia a essere un personaggio,» a questo punto Denny si sforza di fare una risata. «Bene, dovrei strapparmi la faccia allora? O non sarebbe più logico ammazzare tutti quelli che mi hanno rifiutato così con le mie mani15? Con le mani di Joyful Joe!»
«Denny, ti prego…» mormora Gunner, probabilmente sull’orlo delle lacrime.
«Joyful Joe, Joyful Joe un cazzo! Non sono mai stato felice per un secondo della mia vita dopo quel bastardo,» sbraita Denny, tirando un pugno al sedile di fronte a lui, e dopo ciò cala il silenzio più totale. Il bus riparte. Denny cerca di ricomporsi, si siede e riprende il fiato. Tossisce un paio di volte, mentre qualcuno continua a lanciargli occhiate preoccupate.
«Ecco, ora credo che la situazione le sia un po’ più chiara,» conclude con tono di voce più basso possibile.
La signora si porta una mano davanti alla bocca, prima di tornarsene lentamente al suo posto, non degnando il figlio di uno sguardo.
«Incredibile,» borbotta lanciandogli un’occhiataccia. Poi, parlando abbastanza ad alta voce per farsi sentire, aggiunge: «Le persone più fortunate sono sempre quelle più ingrate».
«Ingrate?» replica Denny, con tono stridulo.
Non riesce più a trattenersi, si alza e va incontro alla signora. Gunner, dietro di lui, si prepara già a trascinarlo via a forza. Il ragazzino si frappone tra i due e Denny senza pensarci due volte lo spinge via con un calcio. Il ragazzino finisce per terra, tra i sedili, la signora strilla, chiede aiuto, tutti nel bus trattengono il respiro nello stesso momento. Denny allora si avventa sulla tizia, la afferra stretta per un braccio e carica un pugno, e proprio in quel momento Gunner decide che ne ha abbastanza e lo blocca, lo trascina mentre Denny strilla e scalcia come un bambino viziato a cui è stato portato via il giocattolo.
Gunner osserva la scena e si pente all’istante di aver litigato con me.
La fortuna però è dalla sua parte, se così possiamo dire, perché proprio in quel momento il bus si ferma e lui si precipita fuori, trascinando Denny con sé, mentre la signora continua a piangere e a urlare di chiamare la polizia. Il conducente si volta a guardarli, e Denny gli fa il dito medio16.
«Cazzo,» esclama Gunner lasciandolo andare. Si siede sul marciapiedi, scuote la testa, mentre l’altro resta immobile, in piedi davanti a lui. «Mi spieghi che cazzo ti è preso?»
«A me non sembra niente di nuovo, Gunner,» replica saccente Denny, e in effetti ha ragione. Ogni volta che escono va a finire con qualcuno che lo riconosce e lui che si fa venire una crisi di rabbia.
«Non hai mai aggredito nessuno,» puntualizza l’altro. «E questo è un limite che non dovresti oltrepassare.»
A quelle parole Denny scoppia a ridere. Sembrerà una cazzata, quest’episodio del bus, ma per lui è stato fondamentale. È l’ultima prova che gli serviva per capire di aver perso per sempre la propria identità e il proprio controllo. Il controllo di sé stesso e delle sue azioni, per inciso. Ormai ne ha la certezza, non riavrà più indietro il suo nome. E se non ha niente da perdere, non ha nemmeno niente che lo trattenga da fare qualcosa di terribile.
Quando alza lo sguardo su di lui, Gunner nota negli occhi di Denny una luce inquietante.
Capitolo 6 – Entra in scena la vittima
La verità è questa: non sai mai quanto sono davvero gravi le cose, finché non arrivi al punto di non ritorno. Il punto di non ritorno, per Denny, è la TV.
Gran sorpresa.
Pochi giorni dopo l’episodio del bus, tutto sembra essere tornato alla normalità. Tutto è tranquillo, la routine di Denny e Gunner continua come se niente fosse.
Così, come ogni giorno, Denny si pianta davanti alla TV e fa per accenderla; ha intenzione di vedere qualche programma tranquillo, un documentario sulla giungla o qualcosa del genere, prima di iniziare la sua solita infruttuosa ricerca del vero colpevole delle proprie sfortune.
Ma questa volta, qualcosa va storto. La TV gli restituisce la propria immagine come uno specchio, mentre Denny cerca di accenderla senza risultato. Agita il telecomando, controlla le pile, ma niente. Il telecomando non sembra essere il problema.
Allora chiama a gran voce Gunner, ma lui è in bagno, quindi non può essere d’aiuto. Denny è costretto ad alzarsi, e così barcolla verso la TV per capire quale sia il problema. Dopo aver premuto tutti i tasti prova a controllare i cavi, così si sposta, inclina appena il televisore di lato, ed è proprio in quel momento che la nota.
C’è una cassetta, incastrata sotto alla TV, forse rimasta lì dopo che ha chiesto a Gunner di sistemare le pile di videocassette in ordine. Scuotendo la testa, Denny si allunga a raccoglierla: è tutta impolverata, segno che non la rivede da un sacco di tempo, e leggendo l’etichetta trova scritto: Stagione 3, Speciale.
Un momento.
Denny non ricorda nessuno speciale della terza stagione. Questo è un vero dilemma. Denny sente l’ansia crescere dentro di sé, il cuore che batte all’impazzata mentre inizia a sudare freddo. Dopo aver sistemato i cavi della TV, questa finalmente si accende e lui inizia a tremare. Trema così forte che quasi non riesce a tenere a bada le mani. Con gesti febbricitanti inserisce la cassetta nel lettore, aspetta il tempo di caricamento mentre sente il cuore palpitare, e finalmente ecco la familiare sigla di Joyful Joe.
È una tensione mai provata prima. Denny resta seduto lì, incollato allo schermo a mangiarsi le unghie finché non inizia la scena.
E tutto, in un secondo, uno soltanto, sembra aver senso.
Quella puntata l’aveva rivista solo una o due volte, all’inizio della sua ricerca, poi la cassetta era rimasta lì, bloccata sotto la TV, ed era stata messa in ombra da tutte le altre.
Eppure, ironia della sorte, è proprio lì che Denny trova la soluzione a tutto.
Denny, in un attimo, risolve un enigma durato anni e smaschera il colpevole delle sue disgrazie.
Questa è la fine del secondo atto della sua vita.
Sì, perché l’episodio che sta guardando al momento è, appunto, una puntata speciale girata in onore dei cinquant’anni dello scrittore di Joyful Joe.
Non lo scrittore dello show. Del libro.
Lo show, in realtà, era nato come adattamento di un libro per bambini, scritto pochi anni prima da un amico del produttore. Poi, con l’enorme successo dell’episodio pilota e della prima stagione, avevano deciso di portarlo avanti per anni.
Il che vuol dire che se c’è qualcuno da incolpare per l’esistenza di Joyful Joe – non lo show, e tutto quello che ci sta dietro, ma il personaggio in sé, che gli ha rovinato la vita e divorato l’identità – è proprio lui.
E quindi, eccolo là. Non potrebbe esserci un bersaglio migliore.
Denny sorride, fa un sorriso freddo, quasi un ringhio, mentre vede la faccia del vero padre di Joyful Joe comparire davanti a lui.
Ancora una volta è tutta colpa di un maledetto scrittore.
«Lucas Meier.»
In un secondo Denny sembra ricordare tutto. Ricorda il giorno in cui hanno girato quello speciale, quella volta in cui aveva incontrato Meier. Il proprio creatore.
Nei suoi ricordi c’è Dennis Cox, la versione infantile di Dennis Cox, che guarda la scena dal basso. Un uomo vestito elegante, di bell’aspetto, si presenta prima a lui e subito dopo alla mamma e all’agente.
«Guarda, Denny, lui è lo scrittore di Joyful Joe,» dice la mamma. «Lui è il vero autore, sai. Tutto è partito dalla sua penna. Siamo qui grazie a lui.»
«A causa sua, vorrai dire,» risponde Denny, anche se risponde così solo nei suoi ricordi. Nella realtà non aveva di certo il coraggio né l’intelligenza di rispondere a tono a quella stronza di sua madre.
In ogni caso, ricorda l’eccessiva felicità dello scrittore di parlargli, di stargli vicino e assistere alle riprese.
Una vera merda, pensa Denny, quello del presente. Chissà come sarà stato felice quel Meier del cazzo di vederlo. Tutti gli scrittori darebbero la propria vita per vedere versioni in carne e ossa dei loro amici immaginari. Per questo sono pronti a vendersi il culo per ogni adattamento TV o cinematografico.
Denny scuote con forza la testa, allontanando il più possibile quei ricordi. Sbatte le palpebre due, tre, quattro volte ma non riesce a muoversi. Ritorna in sé solo quando una poco rassicurante scintilla proveniente dai cavi della TV lo fa sobbalzare.
Al momento lo speciale è entrato nella sua seconda parte: l’intervista esclusiva a Meier. Lo scrittore parla con una voce eccessivamente dolce e affabile, si vede che si sta sforzando e la cosa gli fa venire la nausea.
Quella voce lo fa impazzire. Si chiede come cazzo abbia fatto a dimenticarla. Come non abbia fatto a capire subito dove cercare per scovare la fonte di tutti i suoi mali17.
«E un grazie davvero speciale lo devo a Dennis Cox, non avrei potuto desiderare un Joyful Joe migliore,» esclama Meier alla fine dell’intervista, e Denny vorrebbe solo piangere. Si prende anche gioco di lui, pronuncia il suo vero nome, il nome di cui è stato privato a causa sua.
Allora Denny spegne la TV. Si allontana, strisciando per terra e riempiendosi di polvere, e si prende del tempo per riflettere. Per ricevere l’illuminazione dalla quale dipenderà il resto della sua vita.
Dopo del tempo che gli pare interminabile, Denny si alza dal pavimento e si avvicina alla cucina, a piedi nudi per fare meno rumore possibile; mentre si prepara un caffè, riflette.
È così che è fatto, Denny, ormai l’avrete capito: inizia ad accumulare tutto quello che ha dentro, e accumula fino a quando non può più tornare indietro. Tutto l’odio, la paura, la rabbia continuano ad aumentare finché la situazione è irrecuperabile.
Così passa la nottata in bianco, a riflettere sulla situazione, e giunge alla conclusione che ha paura dello scrittore. Lui non odia semplicemente il suo passato, ne è anche terrorizzato. E quindi ha bisogno di un modo per esorcizzare questa paura.
Si ritrova a leggere la biografia online di questo Meier, che da scrittore squattrinato qual era è arrivato a diventare uno dei più rinomati autori nel campo della letteratura per bambini, grazie a Joyful Joe. Quindi grazie alla faccia di Dennis Cox, nota con una smorfia.
Su un sito di curiosità sulla gente famosa, scopre che il suo nome intero è Lucas Daniel Meier.
Scopre che ha l’hobby del giardinaggio.
Scopre che ha una villa a Lione, tre matrimoni alle spalle, cinque figli in tutto.
Il suo gatto si chiama Principessa. È vegetariano. È stato indagato per molestie su minori ma le accuse sono cadute immediatamente. Il blu è il suo colore preferito.
È come se avesse recuperato quegli anni di lontananza da colui che considera il suo carnefice. È tornato tra le sue braccia a farsi torturare, perché non essere a diretto contatto col proprio dolore dopo un po’ diventa peggiore del dolore stesso.
Ed è in quel momento che ha un’idea.
Un’illuminazione, per la seconda volta in un lasso di tempo così breve.
Sa cosa fare. Denny è pronto. Pronto a riprendere il controllo della sua stessa vita, e potrà tornare ad essere soltanto sé stesso. Soltanto Dennis Cox.
Col senno di poi, gli sembra ormai evidente. Tutte le sue azioni del passato, sin da quando aveva messo le mani su quelle cassette per la prima volta, hanno portato a questo momento esatto.
La decisione di liberarsi dei suoi incubi una volta per tutte.
Capitolo 7 – La vita è uno spasso
Gunner si sveglia il momento prima di cadere dal letto. Appena alza lo sguardo si accorge che Denny non c’è. È sempre stato un tipo mattiniero, il suo coinquilino.
Si strofina gli occhi e ancora intontito dal sonno si chiude in bagno; quando ne esce, è più che sicuro di trovare Denny già attaccato alla TV a guardare qualche vecchio film o a continuare la sua maratona infinita di Joyful Joe, ma questa volta si sbaglia.
Si accosta alla cucina e inizia a farsi la colazione. Poi il suo sguardo cade su quella che sembra una custodia per CD trasparente con un grosso biglietto attaccato sopra.
Per Gunner, recita il biglietto attaccato al disco18. Lui sorride, se lo rigira tra le mani senza trovare copertina né tracklist, s’immagina le cose più disparate. Potrebbe essere la colonna sonora di Joyful Joe per quello che ne sa, ma comunque il gesto lo intenerisce.
Dopo aver bevuto il caffè e aver mangiato un toast entra di nuovo in camera da letto. Cerca il lettore sulla scrivania, mette il CD e preme play.
La prima canzone è Cosmic Dancer dei T. Rex, e in un attimo Gunner capisce: è il disco che tiene sempre in macchina, quello che avvia ogni volta prima di partire e ogni volta parte sempre questa benedetta canzone, come se la tracklist fosse Cosmic Dancer ripetuta dieci volte. Sarebbe davvero una mossa da Denny, quella.
In ogni caso, Gunner si mette ad ascoltare il CD, tutto preso dalla situazione, si stende sul letto a pancia in giù e resta ad ascoltare, che un gesto così carino da parte di Denny è una cosa rara, da apprezzare. Non capisce perché gli abbia regalato il CD sacro che per nessun motivo al mondo dovrebbe lasciare la sua auto, ma al momento non se ne cura. Non si insospettisce. Così chiude gli occhi, si sposta in orizzontale rispetto al letto e appoggia i piedi su quello di Denny, a nemmeno due metri dal proprio19. Allo stesso tempo parte l’ultima canzone: si chiama Life’s a Gas, dei Ramones. A dispetto del titolo, ripetuto per tutto il ritornello, ha una melodia piuttosto malinconica. Sembra più triste rispetto alle altre canzoni.
Finalmente Gunner si decide a sedersi al tavolo e ad accendere la TV. Ha ancora fame, perciò inizia a versarsi del latte nella ciotola con dei cereali che risalgono a un paio di giorni prima.
Gira sul canale locale e resta col cucchiaio a mezz’aria, il latte che gocciola e i cereali che diventano molli.
Sul telegiornale locale la prima notizia è: Ex attore spara sui passanti per strada, tre morti e due feriti.
Il cronista dice: Attualmente l’ex attore Dennis Cox si è dileguato ed è ricercato in tutta la città e dintorni.
Il cronista dice: È armato e pericoloso.
E infine aggiunge: Cox è particolarmente famoso per aver recitato la parte del protagonista nello show per bambini Joyful Joe.
E in questo stesso, esatto momento, ci sono anche io, dall’altro lato del palazzo.
Io, Nora, che nel mio appartamento guardo la TV mentre sistemo il bucato. Lascio cadere la federa che sto piegando per terra mentre mi avvicino allo schermo, come ipnotizzata mentre sorrido e riconosco nell’uomo che sta venendo inseguito in diretta il mio vicino. Sì, mi viene quasi da ridere mentre mostrano immagini di repertorio e parlano di una testimonianza anonima, una donna che l’aveva visto dare in escandescenze su un bus soltanto pochi giorni prima.
Poi mostrano di nuovo il video girato da un testimone per strada e mi ritrovo faccia a faccia con lui. Quel tizio repellente che sta sempre attaccato al mio ragazzo e lo comanda a bacchetta, sì, proprio lui.
Io lo vedo e penso: non poteva andare meglio di così.
Questa è la fine perfetta per uno come lui.
Questa è la versione di Denny che voglio vedere.
*
Denny fissa lo schermo. Come al solito. È immobile lì davanti.
Denny è lo stesso di sempre – capelli sporchi, occhi blu spiritati e i soliti vestiti della settimana. È tutto il resto ad essere diverso.
Si trova in un appartamento all’ultimo piano del palazzo più in voga della città. È tutto bianco, pulito, e la TV che sta guardando adesso è a schermo piatto, al plasma, ultra HD, con gli angoli ricurvi e qualche altra cazzata del genere. Un gran bel cambiamento di location, insomma.
Denny si rigira la pistola tra le mani, guardando i titoli dei telegiornali.
«L’ex star dello show Joyful Joe spara alla cieca sui passanti.»
Già si immagina le parodie che ne usciranno.
«Cazzo… cazzo!» urla, voltandosi verso l’uomo legato mani e piedi davanti a lui, seduto su una poltrona ergonomica, sicuramente l’ultimo modello di qualcosa. Ha la bocca sigillata con del nastro idraulico, ma dagli occhi imploranti e rossi si capisce già tutto.
Meier scuote la testa, terrorizzato, cerca di alzare le mani per difendersi, ma Denny lo afferra per i capelli e lo sbatte per terra, inizia a prenderlo a calci sul fianco ma si stanca subito. Si abbassa a riprendere fiato, borbottando qualcosa.
Che idiota, che è stato Denny. Dopo aver avuto l’illuminazione della sera prima aveva rispolverato la vecchia rubrica telefonica di quando era ragazzino, e aveva preso a chiamare tutti i numeri. Aveva beccato quello del suo manager, che per qualche miracolo usa ancora lo stesso numero e gli aveva chiesto un aggancio per contattare Meier, inventandosi qualche stronzata su un’idea per un remake di Joyful Joe, cosa che solo a pronunciare gli aveva fatto venire i brividi. Il manager, invece, era sembrato fin troppo entusiasta, e dopo qualche minuto di attesa gli aveva dato l’indirizzo di Meier, anziché il numero di telefono, su sua espressa richiesta. Era un progetto così importante, aveva insistito Denny, che voleva parlarne esclusivamente di persona.
Così aveva preso la metro, era arrivato nel quartiere di Meier, nemmeno a dirlo il quartiere dei ricchi, e si era messo a cercare la casa di quel bastardo. Ma poi, ancora una volta, il destino lo aveva messo di fronte a qualcuno che lo aveva fermato per strada chiedendogli se fosse davvero lui, Joyful Joe.
Denny, già deciso a fare la pelle a Meier, non ci aveva visto più. Come l’episodio sul bus, solo che questa volta aveva una pistola comprata illegalmente20 e si era messo a sparare indistintamente sulla folla. Poi, in fretta e furia, era riuscito a trovare l’appartamento di Meier mentre qualcuno già iniziava a chiamare la polizia.
Tutto è successo in pochissimi minuti e ora inizia a sentire le sirene ovunque, sempre più vicine. È solo questione di tempo prima che capiscano dove è finito.
Non è stato difficile entrare in casa di Meier: gli è bastato dare il nome alla porta e il vecchio è scattato sull’attenti. Per sua fortuna non sembrava aver sentito gli spari.
E in due secondi eccolo nel salotto. Denny si scusa per l’improvvisa visita dopo così tanti anni di silenzio. Meier si volta per prendere qualcosa da bere dalla scintillante vetrina degli alcolici e Denny lo tramortisce col calcio della pistola.
Solo dopo chiude la porta a chiave, ma questa svista da principiante non la racconterà a nessuno.
«Mi hai rovinato la vita,» dice adesso a denti stretti Denny mentre si siede sopra di lui, afferrandolo per il bavero sgualcito della camicia. «Sei stato tu!»
«Oddio… Oddio, Dennis, ti prego…» piagnucola il più anziano, cercando debolmente di divincolarsi dal suo peso. Piange e sanguina dal naso. È la prima volta che Denny si sente così in controllo della situazione.
«Cosa è successo? Cosa ho fatto? Possiamo risolvere tutto, davvero…»
E per una frazione di secondo Denny quasi ci crede. Alza lo sguardo sul riflesso dell’ampia finestra e vede un trentenne patetico e malaticcio che fa a pugni con un vecchio. Per un attimo gli sembra di aver passato anni a cercare il nulla, ad assecondare una sua paranoia, una giustificazione per non aver concluso mai un cazzo nella vita.
Ma poi vede anche i vestiti firmati del vecchio, così bianchi e puliti prima che glieli imbrattasse col suo stesso sangue, e sulla scrivania alla loro destra i soprammobili d’oro e argento, i premi vinti per lo show. E non può lasciare che tutto finisca così.
Non può.
Questa è la sua vendetta e deve andare fino in fondo. Stella aveva ragione, Denny vuole abbassare tutti al suo livello. Questo è tutto ciò che vuole. Non arrendersi alla malattia, a una vita comune, a vivere nell’ombra di sé stesso per il resto della vita.
«Sì, come no,» sputa quindi Denny, rialzandosi in piedi. Tiene la pistola puntata e si avvicina pian piano alla scrivania. Sono tutti premi per diversi show televisivi, statuette con piccole placche nere che recano il nome dell’ennesima vincita, l’ennesimo colpo andato a segno. Tutti gli adattamenti delle sue opere. Dopo Joyful Joe la vita per questo qui è andata tutta in discesa.
«Dennis… se sono i soldi quello che vuoi, io posso…»
Denny sposta subito lo sguardo verso di lui. Glaciale. «Voglio che tutti vedano cosa mi avete fatto.»
«Ma noi… non ci vediamo da anni, cosa ti ho fatto io?» continua a piagnucolare Meier. Denny stringe i pugni.
«Siete stati voi a creare quello che sono adesso! È tutta colpa vostra. Io non sono più me stesso. Non sono più Dennis da anni. Ed è colpa vostra… no, tua per primo,» dice Denny. Senza emozioni. Convinto di essere nel giusto, e quindi più pericoloso che mai.
«Dennis…» va avanti Meier, implorante. La sua voce non è cambiata per niente, è uguale a quella della registrazione e uguale a quella dei suoi ricordi, ora che stanno tornando pian piano. Una vera tortura. Come se non sapesse di tutte le seghe che si sarà fatto su di lui, sul successo del suo libro del cazzo trainato dallo show.
Dennis.
Meier continua a implorare il suo nome. Dal canto suo, Denny pensa solo che se ripeti una parola troppe volte, perderà ogni significato. E gli sembra un modo davvero efficace di riassumere quello che è successo nella sua vita.
Nel frattempo, la polizia ha circondato l’edificio. Ci sono i giornalisti e persino un elicottero.
Per inciso, Gunner crede che gli elicotteri non servano a un cazzo, sono lì solo per fare scena.
«Che cazzo,» urla lui, frustrato, che si è appena fatto tutta la strada da casa fino a lì di corsa, dato che le linee della metro sono intasate da quando è fuoriuscita la notizia, e come risultato si trova file di poliziotti a sbarrare il passaggio.
«Fatemi entrare!» urla Gunner a un agente. «Posso fermarlo! So come fermarlo! Lo conosco, è un mio amico!»
L’agente nemmeno gli risponde, si limita a scuotere la testa e allontanarlo.
Non c’è più niente da fare. Gunner alza lo sguardo e trattiene le lacrime. Non è davvero sicuro di poterlo fermare, ma nonostante ciò la situazione lo fa sentire ancor più impotente e inutile.
E mentre sente le sirene della polizia, Denny capisce che non può più rimandare. Chiude gli occhi e fa un profondo respiro. Poi punta di nuovo la pistola verso Meier e senza più esitare preme il grilletto. Del sangue schizza sulla finestra, sulla sua faccia, sulla sua mano tremante. Denny guarda dall’alto la scena, muove qualche passo davanti a sé e si aggira intorno al corpo del vecchio, che si tiene la pancia ed emette qualche debole verso di dolore.
La sua camicia bianca senza una macchia ora è tutta imbrattata di sangue. Il respiro di Denny si fa sempre più pesante, più rumoroso, fin quando lascia cadere la pistola a terra e si porta le mani tra i capelli.
«‘Fanculo,» strilla Denny, rivolto al corpo in stato di shock di Meier. Ha il cuore che batte a mille mentre le scarpe lasciano impronte insanguinate per la stanza d’ufficio. Con uno scatto si sporge sulla scrivania, afferra il tagliacarte placcato in oro e si avventa sulla sua vittima. Tenendo l’arma improvvisata con entrambe le mani, lo pugnala nel petto e in faccia fin quando non ha il fiatone, le mani tremano sempre di più, dai capelli gocciola del sangue. Meier è ormai una maschera di sangue della quale non si riesce più a distinguere i tratti facciali.
Denny si affaccia alla finestra e vede tutte le pattuglie della polizia accerchiare l’edificio. Stringe i pugni e corre nel bagno dell’ufficio. Si chiude a chiave e inizia a piangere, un pianto isterico, è terrorizzato da quello che ha appena fatto e da quello che sta per succedere. Si aggrappa al lavandino e respira a fatica lasciando altre macchie rosse, unico segno di colore nel bagno asettico.
Ha ottenuto quello che voleva, Denny. L’ha fatta pagare a colui che più di tutti gli ha rovinato la vita.
«Voglio che tutti vedano cosa mi hanno fatto.»
A cosa lo hanno portato. Cosa gli hanno fatto fare.
Se è fortunato, i media gli daranno un nomignolo basato sulle sue ultime azioni, dimenticandosi del suo brillante passato.
L’attentatore di qualcosa.
Il mostro di qualcos’altro.
Saranno le sue ultime azioni a macchiare il suo curriculum post-vitae. Questo è stato il suo ultimo ruolo: Dennis Cox, un omicida impazzito dopo un breve periodo di fama da adolescente.
Denny sblocca la serratura e si affaccia dal bagno, guarda da lontano il corpo di Meier. Disgustato, come se non fosse stato lui a renderlo così.
Magari ha anche fatto un favore a qualche parente particolarmente avido.
Di lì a poco arriveranno gli agenti. Denny barcolla a recuperare la pistola e se la punta addosso. Sotto la mascella, così fanno nei film per essere certi di morire.
L’unica cosa che vorrebbe fare adesso è parlare un’ultima volta con Gunner. Per chiedergli scusa di averlo tradito così, forse. L’ha abbandonato a sé stesso mentre lui era stato l’unico a stargli vicino. Ed è proprio in quel momento che una squadra di poliziotti spalanca la porta.
Denny si ritrova davanti una decina di pistole puntate contro di lui, eppure non riesce ad ammazzarsi. Proprio non ce la fa a morire, ora che sa di essersi liberato di un peso così grande.
Non dovrà più guardare quelle cassette in continuazione. Non dovrà più pensarci notte e giorno, ora che la situazione è risolta.
Denny chiude gli occhi, e mentre gli urlano di posare la pistola lui recita nella sua mente tutto ciò che avrebbe voluto fare prima di morire.
Poi riapre gli occhi ed è un attimo. Qualcuno gli spara a un braccio e Denny cade a terra, la pistola vola via e lui rimane lì, né vivo né morto, mentre gli agenti gli si avvicinano e lo dichiarano in arresto.
Qualcuno chiama un’ambulanza. Denny rantola sul pavimento.
Ora Denny è solo Denny. In ospedale, in prigione nessuno lo riconoscerà più come quello dello show per bambini. Ora è solo Dennis Cox, omicida e attentatore. Ed è un gran bel miglioramento.
La vita è davvero uno spasso.
Capitolo 7 – Denny, dentro
Sì, tutto finisce così: in prigione.
Scontato, lo so.
Interno – prigione – giorno. Come si scrive nei copioni dei film. Ci siamo io e i miei due cari vicini. O meglio, ex vicini. Uno dei tre è un assassino fuori di testa, un altro è solo un bambinone un po’ ingenuo e la terza, insomma, la terza sono io.
Dunque c’è Gunner che osserva Denny dall’altro lato del tavolo, nella sala per gli incontri con i carcerati. Ha i capelli più corti, e ora sulla sua fronte sbuca un grottesco tatuaggio di un teschio con le ossa incrociate. Gunner lo fissa e non può fare a meno di pensare che con quella roba che si ritrova in fronte sembra la versione più politicamente corretta di Charles Manson.
Questo lo so perché anche io penso la stessa, identica cosa.
Quello non è Denny. Non può essere lui. Non che in libertà fosse questo grande uomo di classe, ma adesso sembra davvero con un piede nella fossa.
Quella sottospecie di fantasma di ciò che era una volta l’amico e coinquilino di Gunner, dopo averci fatto aspettare immersi in un imbarazzante silenzio, decide di prendere la parola. La sua faccia è come un foglio bianco. Priva di ogni espressione.
«Ehilà,» saluta disinvolto Denny.
«Alla fine l’hai fatto davvero,» taglia corto Gunner, che aspettava solo un cenno di vita da parte dell’amico per partire alla carica. «Cosa hai combinato durante questo tempo?»
Mossa bastarda, Gunner. Complimenti.
«Divertente,» Denny assottiglia gli occhi. «So che non mi crederai, ma non sono mai stato meglio in vita mia. Qui mi chiamano tutti per nome. Dennis Cox, senti come suona bene,» blatera lui, tutto soddisfatto.
«Quindi hai raggiunto il tuo obiettivo,» osserva Gunner, ripensando quasi con nostalgia all’odio che Denny nutriva per Joyful Joe, il personaggio che gli aveva rovinato la vita, fino alla decisione di uccidere lo scrittore del personaggio. Suo padre, in un certo senso.
«Ti dirò, ammazzare quello stronzo è la cosa migliore che abbia mai fatto. Mi sento più libero qui che fuori,» sbotta, portandosi una mano sul petto, e a questo punto Gunner capisce che Denny è proprio andato.
«Questo qui, sì, questo è proprio il mio habitat naturale.»
Gunner resta per un po’ in silenzio, incredulo, e nel frattempo l’altro prende a grattarsi una piaga sulla guancia destra che ha tutta l’aria di essere infetta. Denny ha sempre avuto questa tendenza ad accumulare tutto lo schifo che la vita gli abbia mai riservato sul suo stesso corpo. Le due cose si rispecchiano.
Solo in questo momento sembra notarmi. Denny sposta lo sguardo di appena qualche centimetro alla destra di Gunner e mi vede. Non dice nulla. Restiamo a guardarci per qualche secondo, mi pare di percepire un certo fastidio nei miei confronti.
Giusto un po’.
Io gli sorrido appena. Denny non può sapere che sono capace di leggergli nel cervello, che posso prevedere ogni sua mossa – se avesse l’occasione di fare qualcosa all’infuori di marcire in carcere, ovviamente.
Dal canto suo, Gunner vorrebbe chiedergli delle sue condizioni di salute, se gli danno le medicine, se là dentro sanno che è malato. Poi si ricorda del suo gigantesco tatuaggio sulla schiena, che lo rende una specie di cartello di pericolo ambulante, e decide che forse starsene zitto è meglio. Allora, da sotto il banco, si limita ad afferrarmi una mano e a stringerla forte. La sua è sudaticcia e le unghie mi artigliano il palmo, quasi mi fa male.
Quando Gunner viveva a casa di Denny e guardavano la TV assieme ogni sera, giravano su ogni talk show e scommettevano su quando i presentatori sarebbero morti. Questo mi sembra molto simile a ciò che io e Gunner stiamo vivendo, stavolta con il mio vicino come soggetto delle speculazioni.
Denny resta in silenzio per qualche secondo di troppo, gli occhi stanchi squadrano Gunner, che riesce a leggervi un pericoloso mix di arroganza e rancore.
In questo momento mi viene da ridere. Davvero, devo fare la classica mossa di tossire e passarmi una mano sulla faccia per non farmi scoprire. Mi sto immaginando la voce di Denny, sgraziata e alterata dalle ormai evidenti turbe mentali, che strilla davanti a tutti: «Che ci fa Nora qui? Che ci fa questa troia qui, Gunner? L’hai portata anche al nostro appuntamento romantico in prigione, eh?»
«Senti, non guardarmi così,» esclama invece. «Ho solo fatto quello che andava fatto,» la sua voce è quasi solenne, risuona forte e chiaro anche se siamo separati da un tavolo enorme. Sederci all’opposto di Denny è stata una mossa istintiva per entrambi.
«Tu avresti fatto lo stesso, è questa la verità. Nelle mie condizioni chiunque avrebbe fatto lo stesso.»
Gunner non può fare a meno di accennare una risata ironica: «Sì, come no. Nessuno nella tua posizione avrebbe fatto un tale casino, Denny. Questa stronzata di Joyful Joe è sempre stata tutta nella tua testa».
Lui sgrana appena gli occhi, e rimane a bocca aperta per un po’ senza dire niente.
«Non dire cazzate, Gunner,» urla Denny, si alza in piedi di scatto e sbatte le mani sul tavolo, producendo un rumore sordo. Un paio di guardie iniziano ad avvicinarsi, mentre Gunner si allontana strisciando la sedia a terra. Ridicolo.
«Tu non proverai mai quello che ho provato io,» strilla Denny, mentre una delle due guardie, dietro di lui, gli circonda le spalle con le braccia, tenendolo fermo. «Né tu né Nora! Voi non capirete mai cosa vuol dire. Cosa vuol dire non avere più una vita, un’identità…»
La capacità di Denny di fare la vittima pur trovandosi in carcere per omicidio è qualcosa di sorprendente. Bisogna ammetterlo, il talento per la recitazione ce l’ha davvero.
Gunner sospira e osserva il suo ormai ex amico allontanarsi, trascinato di peso dalle guardie mentre continua a sbraitare. Io gli porto una mano sulla spalla. So quanto abbia sofferto questa situazione, ma ad essere onesta non mi pento di averlo accompagnato all’incontro, a vedere il suo amico in queste condizioni terribili. Prima accetta che tipo sia Denny, prima se ne dimenticherà per sempre. Anche se non ci frequentiamo più, anche se questa storia mi ha fatto capire che tipo sia, ci tengo ancora a lui.
«Ho dovuto farlo, Gunner,» Denny continua a urlare finché una guardia non chiude la porta del corridoio che conduce alle celle. Starà urlando e scalciando come un bambino ancora adesso, ve lo assicuro.
E nella mia testa tutto quello che sento è uno sgraziato: Gunneeeeer!
Proprio mentre l’orario delle visite sta per terminare, l’unica cosa che viene da dire al mio sciocco, ingenuo Gunner, è che Denny è rimasto lo stesso stronzo drammatico di sempre.
Un attore nato. Destinato a farsi consumare da un personaggio qualunque, sin dall’adolescenza. Era scritto nel destino, per lui, l’unica direzione che la sua vita avrebbe potuto prendere. Certe persone sono così: senza speranza.
E per una volta siamo d’accordo.
Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?
- Mettiamo in chiaro una cosa: io non sono una scrittrice. E non mi interessa esserlo. La storia che state leggendo è la cruda verità.
Questa è roba reale, accaduta a gente reale; è come un reportage, la confessione di una testimone di uno dei casi di cronaca nera più celebri degli ultimi anni.
Io, la vostra umile narratrice, sono solo una comparsa nella tragedia che si è consumata poco meno di un anno fa, il cui riferimento apparirà ovvio sin dalle prime righe a chiunque questa vicenda sia già nota.
A tutti gli altri, buon divertimento. ↩︎ - Non mi dilungherò sulla questione poiché possiedo un certo senso del pudore, ma Gunner è ancora oggi convinto di poter dividere tutti i film mai esistiti in due nette categorie: i film da sega del venerdì sera e tutti gli altri. A un certo punto aveva stilato una lista di circa duecento film della prima categoria. ↩︎
- L’ironia della situazione non smetterà mai di farmi ridere. ↩︎
- Avete mai pensato a quanto possa essere umiliante essere riconosciuti in giro con il nome di Joyful Joe? Joe Gioioso? Joe l’Allegro? ↩︎
- Queste sono forse le uniche informazioni su Denny che non ho ricavato da Gunner. L’altro giorno in TV hanno trasmesso uno speciale sulla vita del famigerato Dennis Cox, dove hanno spiattellato tutta la sua vita in diretta senza troppi riguardi, con l’aiuto di presunti vecchi amici e collaboratori. Forse c’era anche sua madre lì in mezzo, non ricordo. ↩︎
- Nora, per inciso, sono io. ↩︎
- Come dicevo all’inizio del mio racconto, sono sicura di aver capito Denny alla perfezione, di riuscire a pensare come lui e, se volessi, persino ad agire come lui. Condanno senza esitare le sue azioni, lo considero un rifiuto senza qualità, un egoista incapace di provare qualcosa di positivo verso gli altri. Nonostante ciò, non posso negare che vedere la propria identità cancellata in questo modo, sostituita da una persona, cioè una maschera nel pieno senso della parola, possa portare chiunque a trasformarsi in un Dennis Cox in piena regola.
E vedete, il centro della questione non è se questo sia successo davvero, ma il punto di vista di Denny. Ciò che lui crede sia successo. La sua versione delle cose.
E insomma, per farla breve, dalle suddette riflessioni è uscito… questo. I prossimi paragrafi che state per leggere.
Chiamatelo pure esercizio di stile. ↩︎ - Mi sono fatta un po’ prendere la mano, lo ammetto. ↩︎
- Questo è un altro degli aneddoti che mi ha raccontato Gunner. Forse la ragazza in questione non era Stella, forse era un’altra donna, ma il succo del discorso rimane lo stesso. ↩︎
- Questa patetica storia sull’inizio della loro amicizia e convivenza Gunner me l’avrà raccontata un miliardo di volte, con gli occhi che luccicavano nemmeno stesse parlando di essere stato prescelto da Gesù in persona. ↩︎
- In realtà è un pessimo affare per chiunque sano di mente, e questo lo so perché quei due pazzi hanno tentato più volte di coinvolgermi in questa sottospecie di lavoro. ↩︎
- Purtroppo per lui, il povero Gunner non ha capito niente della vera essenza di Denny. Ergo, non ha capito che il vero Denny, come lo intende lui, non esiste. Non esiste un Denny al di fuori della sua ossessione, perché questa ossessione è tutto ciò che rimane di sé stesso. Nient’altro. ↩︎
- Avrete notato la propensione di Denny nell’insultarmi a ogni minima occasione. Ovviamente questi dialoghi sono una sorta di parafrasi, non so di preciso cosa si dicessero quei due ogni giorno, ma le pareti di casa mia sono molto sottili, e tra i racconti di Gunner e tutte le volte che l’ho sentito strillare per la casa, ho capito più o meno con quali termini si rivolge alle ragazze di solito.
L’episodio della pelliccia, invece, è vero. Gunner mi regalò una pelliccia che aveva l’aria di essere molto costosa di punto in bianco, e dopo averlo pressato per un po’ riuscii a estorcergli il fatto che gliel’avesse rubata Denny al club di golf. ↩︎ - Ormai siamo arrivati all’ultimo stadio dei fenomeni di cronaca nera: ogni tanto qualcuno riprende l’argomento, magari in un talk show di terz’ordine in cui la gente si urla addosso a vicenda, ma per il resto del mondo mediatico è finito nel dimenticatoio. ↩︎
- Ironico, visto quello che sarebbe accaduto di lì a poco. ↩︎
- Ancora una volta riporto i ricordi di Gunner. Questo, nello specifico, me l’ha raccontato qualche giorno dopo l’avvenimento, in lacrime mentre mi chiedeva scusa e mi assicurava che non avremo litigato mai più. ↩︎
- In realtà non si è mai riusciti a capire con precisione il momento esatto in cui Denny abbia deciso di prendersela con quel poveretto di Lucas Meier, dato che è tutto successo nell’arco di pochissimo tempo, e il testimone per eccellenza, Gunner, non era presente sulla scena. Ovviamente quella diva mancata di Denny ha fatto il misterioso al processo e si è rifiutato di raccontarlo. Pare non abbia detto niente nemmeno agli psicologi del carcere. Se solo parlassero con me… ↩︎
- Ovviamente Gunner mi ha raccontato del CD come in genere si parla della proposta di matrimonio, con tanto di anello e tizio che ti si inginocchia davanti. Io l’ho trovata una cosa vomitevole, un modo di salvare i rapporti con l’unica persona abbastanza scema da seguirlo anche in capo al mondo. ↩︎
- Me lo immagino ad ascoltare quelle maledette canzoni come una cazzo di adolescente innamorata. ↩︎
- La pistola gli è stata fornita da Marty, il tipo del supermercato, ora anche lui in prigione. ↩︎