Testo di Alberto Bartolo Varsalona
Fotografie di Claudio Varsalona
“Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così […]”
Rosso Malpelo, Verga
Non è che c’era finito di striscio sulla macchina, ma paro paro, sicché pareva essersi fuso al cofano, in fumanti intrecci di sangue e metallo: snaturata carrozza pareva quell’inedita aggregazione, con i cerchioni della vettura davanti e le ruote del calesse di dietro, e le gambe del cavallo, e gli zoccoli franti, e i fanali a lampeggio sugli spacchi aperti del manto – neri rossi neri rossi.
Lo zio Tano inveiva sopra ‘sta chimera, ed era mistero se ce l’avesse con la macchina o con il cavallo, mistero a chi dei due avesse da fare le sue rimostranze, avesse da richiedere la sua soddisfazione – i danni, l’assicurazione. E colpi su colpi scagliava, pugni chiusi e timpulate d’incazzato paladino, scavallato cavaliere, che quella colossale malafigura, a caldo, non gli poteva pace.
Gli avevano dato il di più? L’overdose in vena? La pasticca non prevista? La porcheria non calcolata? Non se ne capacitava lo zio Tano, lui che aveva preparato con cura da monaco erborista la ricetta anabolizzante e cardiotonica, lo stimolo dopante anzitutto per la memoria di Lucky, giusto per stampargli sull’occhio locco il ricordo delle corse di gioventù, sempre in volata coi raggi e le correnti calate dal Pellegrino, sul terreno decomposto dei suoi primati all’ippodromo, e avvampando in viso, tra i denti suoi già traboccavano domande di sospetto: enormi interrogativi.
Il corteo di scooter aveva sgommato come unico organismo, e il tuono in un istante aveva rimpiazzato gli squilli molteplici dei clacson, la furia sonora a pompare l’equino sangue per la gara, a galvanizzarne lo spasmo cadenzato tra muscoli e pistoni.
Se pensava a quanto mancava, gli veniva di scomporla con le sue mani quella chimera appena sorta, di disunirla per riprendere la gara, e difendere l’onore suo d’invincibile fantino; gli veniva magari di frustare, bastonare sia l’ammaccato Lucky che la macchina assanguata: al galoppo con ‘sta scarrozza attassata e funesta, puntando con l’occhio sbarrato la pompa di benzina in fondo, trascinando lì tutta ‘sta mostruosa fiera, lì verso il traguardo bramato sfumato.
Sulla partenza del gran curvone della stazione Orléans le redini strisciate sul palmo delle mani gli avevano come impresso la febbre sugli occhi, e uscendo in scia dal gomito stretto sentiva di scavalcare perfino l’aria, d’essere in anticipo sulle cose, già proteso sullo spazio. Così quelle mani allo zio Tano continuavano a smaniargli, nell’abissale desiderio d’abbattersi sui corpi circostanti.
Che doveva fare lo zio? Magari ci faceva l’applauso a ‘sto colpo di teatro? A ‘sto botto d’opera – colpo di tamburo, grancassa? L’applauso allo zio infuriato intanto glielo faceva Masì, nipote fiero di ‘sta scena rispettosa e rispettata, che perso per perso, cavallo e gara, quantomeno lo zio si sfogava agli occhi altrui in figura di vinciuso atleta, cercando lui stesso di protrarre il suo trionfo, tentando lui stesso di dare morte – un termine alle cose. Non l’incidente aveva arrestato il cuore impazzito di Lucky, non l’inaudita portata di sangue pompata tra i ventricoli, quei muscoli distorti e storpiati, ma il suo fantino zio Tano, percuotendo morte sul manto, lui e lui solo: lo ziccuso campione – amorevole padrone.
Quella botola riaperta gli andò spalancando i ricordi per immagini e suoni. Gli rituonava ancora nell’orecchio quel botto, poi il frastuono di sgommate, e le grida, ma soprattutto ci aveva da giorni quel muso locco locco stampato in testa, e in ogni sogno, quell’occhio orizzontale a scommessa, quel vero animalazzo di Lucky che aveva destinato, per disubbidienza da vero disertore, ‘sta malafigura a tutta la famiglia. Da giorni ogni qualvolta avesse chiuso le palpebre, nel banco a scuro scorgeva, prendeva corpo l’incisivo lungo di Lucky, che pareva lapide d’avorio, ebete sorriso, per giorni e giorni: giusto quelli che servirono per tagliarlo pezzi pezzi, e disfarsene, che gli arnesi che non servono più si buttano lontano, al fiume.
Era antica tradizione macellarli i cavalli vecchiarelli, destinarli alle tavole popolari, accompagnarli col vino in pietra, chiudendo la loro carriera sportiva in bocca a qualcun altro, ma con Lucky c’era concreto pericolo d’avvelenarsi, o quantomeno d’affogarsi, che i quarti di carne erano tutti tempestati di schegge e vernice, come se tra i muscoli, a seguito dell’urto, si fosse incuneata un’orrenda lisca di plastica e metallo, e col muso sfregiato Lucky ribadiva la sua sfacciata scommessa, la sua pigliata per il culo, come a dire, mangiatevele se ne avete coraggio ‘ste tenere carni e fortunatissime.
Lucky Lucky era solito chiamarlo Masì, e Lucky Lucky quasi si lasciò scappare quando lo intravide oltre la grande porta in ferro, tranquillo colle quattro zampe distese, mentre lasciava che gli stallieri carnezzieri lo dissezionassero a regola d’arte. Calarlo per intero era pressoché impossibile e, a seguito di lunghe e partecipate discussioni, prevalse il partito che lo voleva infilato in più sacchi da scendere al fiume, sempre se fiume potevasi nominare quel rivolo interrato d’acqua fantasma.
Adiacente alle mura di ponente, infatti, aprivasi la fondura, quest’insolita resistenza di campagna, quest’oasi nominata Danisinni, che in una cinta di case a cubo ricavate sulla roccia, che in una rete di stalle, di paddock, celava immemore sistema di grotte – altra città ribaltata. Inclemenza d’aria tempestò per secoli la palude depressa, sicché bando recitava di siccari l’acqua di lu Peperitu per la sanitati di li cittadini, e dimenticato pretore finalmente la disseccò, avendovi fatti molti condotti sotterranei che davano in un grande acquedotto maestro, con scarico a mare, il quale si chiamò aquidotto di maltempo. Lì, nel più profondo, limaccioso anfratto scorreva segreto il Papireto, invisibile ai più, che solo pochi uomini deputati parevano in grado di ritrovarla quell’oscura botola, come se ogni volta si cambiasse di luogo, rinnovando, ad ogni avventura, l’alveo smorto nel suo grembo.
Da quello che era riuscito a capire, dai passaggi sicuri e veloci delle porzioni, la testa di Lucky occupava da sola un intero sacco, a mo’ di misura cautelare per una bestia sempre rimasta vigile, che quel cervelluto animalazzo e diabolico teatrante magari s’inventava l’ennesimo colpo di scena, la resurrezione come novello Cristo al Papireto, trottando in risalita tra le grotte, ordinando noli me tangere allo zio Tano, e quindi la testa, soprattutto la testa andava separata dal resto del corpo, chiusa a doppia mandata di laccio.
La botola prima oscillò con rapidissima vibrazione di metallo, e quando si quietò i carnezzieri poterono iniziare le operazioni di scarico, eseguite con rigore e con rabbia, costretti a dover toccare, ripetutamente, quelle carni perdenti e immangiabili.
Masì non vide nulla, si limitò ad ascoltare: versacci di fatica, qualche bestemmia.
Doveva pur muoversi Lucky, pur continuare il suo sotterraneo itinerario, e curioso Masì s’improvvisò rabdomante per seguirlo in superficie sulla sua lambretta. Girava intorno al quartiere, come se riuscisse a prevedere le scelte di Lucky tra i cunicoli, le volte di vive felci, e ad ogni colpo di vento, ad ogni scaffa sbancata, per traiettorie casuali sempre più s’allontanava dai Danisinni, esplorando lentamente gli altri rioni – la città tutta.
Punto primo: scorreva ‘st’aqua papyretica? Punto secondo:sfociava, sfogava? E dove?
Nessuno sapeva niente, solo che sotto la botola doveva esserci il fiume, frequentato per dicerie da egizi coccodrilli, seppure parevano esserci metri e metri di vuoto, assoluto silenzio. Ma poi che minchia d’idea era? Vera trovata d’intellettuale, che se non scorre il fiume, magari corre Lucky? Una gamba per volta, uno zoccolo per sacco? Galleggiando per virtù dello spirito santo?
Muovevasi forse col passo dei detriti che scendono a valle, sorta di rotolamento trascinatosi per melme, seguendo l’esempio di quei mafiosi in fuga tra i qanat, i soli che soggiogarono la città, conoscendone la vera radice, come se quella in superficie fosse nient’altro che un riflesso di quel sottoterra senza terra, tutto buchi vuoti lacune catacombe mikva’ot, su cui per miracolo restavano eretti gli enormi abusi, le eterne fabbriche.
Masì Masì, si richiamava, due volte al pari di cavallo, Masì Masì comandando la lambretta sotto gli archi ai mercati, Masì Masì impugnando con forza il manubrio a redini, costretto a vigilarsi finché avesse avuto la botola, riaperta botola e battente sull’orecchio, come il ronzio a camurria della zanzara, com’accordo di sonno – indizio di sogno.
E i lunghi baffi, e il respiro pesante, e il dente a lapide: nessun movimento a due dita dalla sua faccia. Restava immobile nella sua regale postura calcarea, come quella delle interiora che sorreggono la fondura a Danisinni, e solo a volte, nei sogni pomeridiani dei giorni passati, quando infuocavasi la palpebra al raggio di sole, Lucky Lucky disserrava l’imponente mascella, smuovendone la lunga dentatura, appena affiorata sul banco di calore: e pareva sospirare. Non una parola, non un verso compiuto, assolutamente nulla: solo sospiri, affanni. Che s’aspettava da ‘sto animalazzo? Magari doveva per giunta concionare? Motteggiare sulla vita, sussurrare verità?
Sospirava, insondabile s’affannava, come a volere svuotarsi dall’interno, sfiancarsi: sfiatarsi. E Masì gli avrebbe allungato un secchio d’acqua, se non vuoi parlare non farlo, abbeverati quantomeno, leccati ‘ste due gocce d’acqua, ma quello sfregioso muto come un morto restava, e mutissimo come la Morte resisteva.
Proprio quei ricordi in rivolta, che dirsi veglia a sonno o sonno a veglia non si poteva, parevano suggerirgli i singoli volteggi dei sacchi, i passi falsi, gli inciampi, muovendolo d’istinto per le strade, che dai Danisinni quel fiume disgraziato avrebbe senz’altro scaricato su qualche oscura insenatura, segnando lì un arrivo, meta a festa per il palio.
E sulla via Maqueda, puntando a ‘sto traguardo che Lucky in vita aveva mancato, Masì Masì servi li chiamava i cavalli piatusi per stranieri, calatevi il muso servi, guardate oltre l’asfalto, c’è Lucky, fortunato nemico d’ogni invasore, che mica lui è della vostra stessa pasta avariata, che mica è della vostra stessa stripe di scantulini e piscialetto, se perfino da decomposto s’ostina a gareggiare, spasimare in volata, senza mai fermarsi.
Mai, fermarsi mai.
La città terminava, dopo c’era il mare.
Lì forse l’origine, l’incontro tra i fiumi: le scorie del Kemonia; le salme del Papireto. In quell’arioso orizzonte Masì fermò la lambretta, trovò precario posto per ogni cosa. L’aveva inseguito dappertutto quell’animalazzo traditore, quello stoico suicida, girandosi i rioni storici, mandamenti irradiati dal centro, fino al traguardo di ‘sto palio fognario: Lucky unico campione – Lucky finalmente vincitore.
E a Masì quasi andava nascendo, nel suo intimo sconcerto, il desiderio di scendere sotterra, sott’acqua, tra le vele bianchissime delle Cala, recuperare i neri sacchi, riesumarne i pezzi, tentare di ricomporli, quantomeno addolcirgli la posa scomposta e perpetua.
A questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, ma ce ne voleva ancora di tempo per masticarli quei busilli, alfabeti monchi e consunti: gli scandali che s’affacciano ai quattro canti della vita, e soffiano, alitano, spaccano le prime fresche e nere cicatrici: sullo sguardo a palta forse correva Lucky, di gran carriera avvolto in nera plastica, nel suo impenetrabile silenzio, più giù, ormai corpo corpissimo, carne carnosa: poi la memoria, coi suoi guidaleschi.
Dei sacchi non v’era traccia, nessun’atra scia sul molo della Palermo bene, ma sforzando la vista, lì dove s’agitano rifiuti di scarico all’attracco, a Masì parse che un filo rosso, come ragnatela
sfaldata e volante, impestasse lo sbocco interrato
dell’antico Papireto, e s’irradiasse
sempre più sanguigno, sempre
più slargato oltre il porto:
già in mare
aperto.
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Racconto straordinario, che ti cattura fin dall’incipit. Appare chiaro che dietro c’è uno studio appassionato, approfondito, erudito. Ma lo stile risulta personalissimo, icastico, sorprendente. C’è una sapiente e accurata ricerca linguistica che rappresenta la terra dello scrittore, la sua palermitanità. Ed è bellissimo l’uso di parole dialettali ma anche di espressioni latine, di questo ingegnoso miscuglio di lingue. E così la sua scrittura risulta originalissima, immediata, rappresentativa.
Il lettore si ritrova davanti la scena viva, come una pièce teatrale, dell’incidente drammatico del cavallo sfracellato. E contestualmente il punto di vista dei personaggi, che non lascia spazio a interpretazioni che esulano dalla scena.
Non ultimo, le foto sono incantevoli.
Splendida analisi!