Lucky Papireto – dialogo critico tra l’autore Alberto Bartolo Varsalona e Veronica Galletta

Testo di Alberto Bartolo Varsalona e Veronica Galletta
Fotografie di Claudio Varsalona

A partire dal racconto Lucky Papireto, di Alberto Bartolo Varsalona, l’autore del racconto e Veronica Galletta, autrice a sua volta di tre romanzi, ultimo lo straordinario Pelleossa per Minimum fax, hanno instaurato un dialogo critico che a partire dal racconto di Varsalona spazia senza remore e con generosità, collegando libri, annotazioni sulla Sicilia, osservazioni sulla lingua e sul lavoro di scrivere.
Qui lo trascriviamo tal quale com’è avvenuto, convint* che conservare questo dialogo epistolare possa essere non solo interessante in funzione della lettura del racconto, ma possa inoltre rappresentare un documento di analisi critica contemporanea in forma di dialogo epistolare.


Veronica

Alberto,
allora, cominciamo così. Afferriamo questa conversazione per i piedi, partiamo dall’autore dietro al testo. Qualche tempo fa, parlando di un libro che avevo letto sotto tuo consiglio, mi hai detto qualcosa del tipo (perdonami se non rammento le parole esatte) “è stato per me un libro di formazione, le ultime pagine mi rendo conto in particolare mi hanno formato come persona”. Si tratta di Romanzo civile di Giuliana Saladino, e io da qui vorrei partire, e ti spiego perché: il tuo racconto è un racconto molto palermitano, e di questo “sentire del mondo” mi piacerebbe sapere di più.
Che dici?

Alberto

Ciao Veronica, ci provo! Perdona la lunghezza ma mi sono fatto prendere dal discorso.
Penso che esistano i libri belli, quelli bellissimi e i capolavori. Poi ci sono i libri, o meglio autori che ti formano: si accantona per un momento il giudizio estetico, e ci si muove in una dimensione umana, profonda, in cui si fatica perfino ad esprimersi. Nella costruzione dei valori in cui credo ciecamente questi autori hanno avuto un ruolo fondamentale.

Mi è successo sicuramente due volte, e ripercorrendo quei momenti penso sia una questione – a monte – di lingua. La prima con Vincenzo Consolo, durante una lettura in classe. La mia professoressa aprì il libro, di cui non ci aveva detto nulla, e cogliendoci di sorpresa recitò «Palermo è fetida, infetta…», un brano da Le pietre di Pantalica. Pensai “Ma come scrive?”. In seguito con Giuliana Saladino, scovata tra le bancarelle e per me sconosciuta. Leggo i primi capitoli, m’imbatto nell’indimenticabile ritratto di Nisticò, poi nella pagina della «famigliaccia», e penso la stessa cosa: “Ma che lingua è? Dov’è stata finora?”

Una fascinazione profonda mi lega a questa narratrice straordinaria, instancabile donna, con la sua penna nervosissima solcata dai saliscendi di un’amara ironia. Sono quegli incontri che vanno al di là della letteratura, e da cui si cerca di affinare il proprio sguardo in quello altrui. Il dettato solo apparentemente affastellato, l’intelligenza acuta e a tratti disperata, il suo illuminismo moderno, turbato e disilluso, mi accendono, mi animano ogni volta che rileggo le pagine di Romanzo Civile. Un libro che procede per vampate, come se tra una pagina e l’altra potesse alzarsi una lingua di fuoco e lambirmi la fronte.

Se dovessi scegliere un’idea di scrittura che incarna totalmente questo “sentire” a cui fai riferimento sceglierei la Saladino, senza alcun tipo di dubbio. Una sorta di postura razionalista e appassionata, una volontà di conoscenza vivissima e disperata.

Nella lentissima costruzione della mia coscienza, mi ritrovo sempre più vicino a questa visione, percezione delle cose che sente come insolvibile nucleo nevrotico – la definizione la usa spesso Vasta durante le sue presentazioni – la città. Insomma, il nucleo nevrotico palermitano per eccellenza è Palermo stessa, questa città-caos che sovrabbonda di segni, e pare di continuo fuori fuoco. La mente – e il cuore – s’affidano a queste letture, a queste voci che sono sorta di fari per «destreggiarsi tra gli scogli e le secche del merdaio palermitano»

Veronica

Alberto,
ci ho messo tanto per risponderti, un po’ per l’elenco di impegni che si affastellano, un po’ perché dovevo capire da che parte andavamo in questo nostro chiacchierare. Ti ho scritto che cominciavo per i piedi, mi viene in mente l’espressione “peri peri”, piedi piedi sarebbe in traduzione letterale, espressione che indica chi è sempre in giro, chi non vuole tornare a casa, chi cammina sempre, vagabondo, girovago.

Sembra una digressione alla come capita, mi rendo conto, ma ci voglio aggiungere un altro elemento. Nella tua scrittura, nel tuo parlare, e nei tuoi riferimenti (siamo partiti non a caso da Giuliana Saladino) più che insularità (nonostante il tipo di lingua che usi, ma poi ci arriviamo) io mi trovo sempre davanti alla panormità, cioè alla appartenenza a Palermo, che mi pare esca continuamente.

So che chiederti di Palermo è aprire un vaso, o forse per meglio dire una botola, ma realizzo adesso che uno degli elementi di fascino per me in quello che scrivi è in questa Palermo sempre presente. In Lazzaro, che hai pubblicato per Nazione Indiana, c’è il carcere dell’Ucciardone. In questo racconto le vie di Palermo. Così non posso esimermi, e lo faccio con l’occhio curioso di chi viene da una realtà completamente diversa.

Io sono siracusana, e ci dividono tante cose, un’autostrada poco battuta (i cui paesaggi io amo disperatamente), la vocale finale nell’eterna diatriba su arancin*, ma più di tutto il solco, il baratro forse a volte, che divide chi è nato ed è vissuto nella provincia (qui dovremmo dire anche della provincia babba, ma tralasciamo) e chi invece nel capoluogo di regione. La mia sensazione è sempre stata che l’insularità sia per i palermitani un fatto secondario nella definizione della propria identità, venendo sempre prima la panormità appunto. Una appartenenza che mi pare, vista dal mio osservatorio di Ortigia, isola che non è isola, a volte soffocante.

Allora ti chiedo – e ci sarebbe da dire di siciliani che vivono fuori: tu stai a Bologna, io a Livorno, ma cerchiamo di dipanare questo groviglio e non aggiungiamo variabili -, allora ti chiedo: quanto c’è Palermo al centro del tuo scrivere. Ho letto due cose tue, e in tutte e due si trova. È un caso? E come ti condiziona? Sapresti dirlo? Io forse (dico forse) un’idea su di me ce l’ho.

(Qui per salvarti puoi dire degli scrittori e le scrittrici palermitane come te, e nasconderti con loro: ti è concesso).

(Al prossimo giro riattacco con Consolo, preparati)

Alberto

La panormità dei miei racconti non è un caso, ma una necessità.

Potrebbe sembrare un limite – forse lo è -, ma io non riesco nemmeno a immaginare una narrazione che non affondi le sue radici su Palermo, dentro Palermo. Almeno in questo momento della mia vita. So che se dovessi scrivere qualcosa su Bologna non riuscirei, così come non riuscirei nel caso in cui mi privassi di precise coordinate spaziali.

Però, attenzione, Palermo sempre come metafora del mondo. Io penso che la città, questa specifica città, si presti più che bene ad assolvere questo compito perché sovrabbonda di segni, eccede caoticamente: stimola e opprime al tempo stesso. Resistergli per me è scrivere, o quantomeno abbozzare una risposta, accordare una voce. Una serie di azioni che vivo come strumento di conoscenza, per quanto instabile e difettoso, e mai come mezzo terapeutico.

Diciamo che Palermo, per me, è l’unico orizzonte possibile per tentare di farmi un’idea sul mondo, il mio avamposto rigorosamente al margine. La mia Palermo è vera Panormo, autenticamente παν-όρμος, “tutto porto” per gli stimoli che provengono da ogni periferia: orizzonte babelico sempre aperto, e mai chiusura folclorico-campanilistica: mai patria.

(quella che segue è una grande nota a margine di ciò che ho scritto. Se vuoi possiamo tagliarla. Scopro altre coordinate della mia scrittura balbuziente)

Poi c’è sicuramente la Sicilia, l’Altra Sicilia la chiamerebbe Consolo, «quella vera e storica» dei grandi realisti, Verga e De Roberto su tutti, i quali ogni volta mi risultano sconcertanti, vertiginosi alla lettura. Ed è lo stesso sconcerto, la stessa vertigine che provo davanti un quadro di Caravaggio (poniamo il Martirio di san Matteo). La via di un realismo che abbia al tempo stesso la forza della metafora è lunga e sofferta, ma è ciò in cui credo. Infatti, a volte leggo la rarefazione che imprimo ai miei racconti come una sorta di scorciatoia, attualmente inevitabile – considerata anche la misura breve. Da tutto ciò nasce il mio conflitto con l’elemento pseudo-fantastico, il quale spero venga sempre percepito come distorsione, esito nevrotico di suggestione, e mai come elemento pienamente fantastico.

La corsa sotterranea di Lucky, per me, non esiste. Il cadavere è rimasto lì dove è stato seppellito. Nel caso in cui sia stato effettivamente seppellito.

Ti ringrazio Veronica perché scrivendo fisso le mie idee sulle cose. Mi sono accorto, grazie a questa conversazione, che esiste in quello che scrivo, ed è rintracciabile, una dialettica città-isola (mi piace chiamarla così). Mi piacerebbe molto sapere della tua Siracusa, e della sua importanza con la tua scrittura. «Bianca, euriala, petrosa» è per Consolo nel Sorriso, mentre Palermo è «rossa, ràisa, palmosa». Meglio di questo proprio non trovo.

Veronica

Alberto,

di nuovo un divario di tempo fra la tua risposta e la mia, in questa conversazione intorno al tuo scrivere. Anche io trovo l’altra Sicilia, quella vera e storica, vertiginosa, un pozzo senza fine di storie, che potremmo inanellare una dopo l’altra come perline di una collana, o forse, più propriamente visto la materia trattata, potremmo parlare di frecce scagliate in ogni direzione, come tanti forasacco. Perché vedi, tu dici Caravaggio, e io penso a Il seppellimento di Santa Lucia, che si trova a Siracusa e che compare ne Le isole di Norman, ma ancora di più mi viene in mente la Natività rubata a Palermo nel 1969, e ancora vedi allora arriva Sciascia e Una storia semplice che romanza la vicenda (in presa diretta o quasi, come solo lui sapeva fare), e ancora questa immagine che ho ricavato da un documentario che ho visto (o forse era un podcast): quella del mercante d’arte che arriva a comprare la tela, si siede davanti e guardandola piange, mentre i mafiosi intorno lo sfottono per le sue lacrime. Ecco, allora mi chiedo qual è la nostra posizione di siciliani, di sciliani che scrivono, sia che sia di Palermo o dell’altra Sicilia, sia che partano con il peso della panormità sulle spalle come te, o figli della provincia babba come me, se non sia in questa dualità. Se non siamo quindi, allo stesso tempo, il mercante d’arte che piange davanti al Caravaggio (asciugandosi le lacrime poi quel tanto che basta per comunque portare a termine il suo affare) o il mafioso che lo percula.

Potremmo dire molte cose ancora, sullo scrivere da lontano di un luogo, sullo scrivere da luci diverse (per me importante la pietra bianca delle mie parti, forse l’elemento principale, perché in tema di luce e lutto, come direbbe Bufalino, per me c’è al centro sempre il colore della pietra delle mie zone, e come riflette la luce. Potremmo, ma io ti chiedo un’ultima cosa. Hai citato l’elemento fantastico, e siccome ho scoperto, durante una presentazione, che abbiamo in comune l’apprezzamento per un film che ha usato il registro del genere per dire l’indicibile, vorrei che mi dicessi qualcosa su Sicilian ghost story. Cosa non so esattamente, prendilo come un forasacco che ti lancio.

🙂

Alberto

Colgo il forasacco, Veronica.

Ho sempre un occhio di riguardo per le narrazioni non conformi, soprattutto quando riguardano temi così delicati in cui proliferano mostruosi prodotti tra l’agiografia e la pubblicità.

Il coraggio col quale Piazza e Grassadonia hanno seguito la loro idea di film è ammirevole. Infatti, l’architettura onirica della narrazione è studiata fino al minimo dettaglio. E, aspetto a mio parere più interessante, l’elemento onirico non è mai vissuto come una fuga dagli abissi della vicenda, bensì come un avvicinamento. Il loro è un sogno realissimo, materico, corporeo. Non a caso, la sequenza più lunga – interminabile – del film è tutt’altro che sognante: mi riferisco alla dispersione dei resti del protagonista sul lago (spazio simbolico, luogo d’incontro e di scontro tra realtà e sogno). Il risultato finale è una linea di racconto fortemente increspata, agitata dai continui colpi di coda della fantasia (alcuni anche di natura redentrice).

Se, per quanto riguarda le narrazioni di mafia (il film non è solo questo), Sicilian ghost story occupa, tra i racconti dissonanti, il polo tragico-onirico, sul polo opposto, comico-grottesco, troviamo invece un film come Tano da morire di Roberta Torre, anch’essa pellicola che ho molto apprezzato.

Scusami se ti rispondo solo adesso, ma ho appena finito di rivedere il film (il ricordo era più che positivo, ma per scriverne sentivo il bisogno di rivederlo: purtroppo lavorando alla tesi non è stato facilissimo ritagliarsi del tempo).

È stato un piacere, come sempre.
Grazie!


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