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Abbruttoddio - Quel che vide Fraioli
Una nota di lettura su Grave disordine con delitto e fuga di Ezio Sinigaglia.
By Malgrado le Mosche Posted in Abbruttoddìo, Rubriche, Senza categoria on 08/10/2024 0 Comments 30 min read
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Testo di Gunther Maria Carrasco
Testo primario di Ezio Sinigaglia
Copertina di Terrarossa

Il presente testo è, inutile girarci attorno, una fanfiction di Grave disordine con delitto e fuga di Ezio Sinigaglia, edito da Terrarossa. La fanfiction tra i generi letterari è il più tenero: un gesto d’amore. E a noi i gesti d’amore piacciono.
Per un vizio di forma, però, senza la lettura del testo primario, il pezzo del nostro buon Carrasco potrebbe apparire come il risultato di un sovradosaggio di benadryl. Per questo, col benestare della casa editrice, mentre il resto della nazione piange la morte della citazione letteraria, vi lasciamo un estratto del testo di Sinigaglia che Carrasco ci ha assicurato, renderà più chiaro il tutto. Se nemmeno quello funziona, provate a leggere il libro, o al limite, provare anche voi col benadryl.

La redazione

Estratto da Grave disordine con delitto e fuga, a cura di Gunther Maria Carrasco

Dopo alcune notti tremende, passate tra l’insonnia e sogni inquieti, Fraioli riesce, se non proprio a ritrovare un ordine, a convivere con il disordine in cui la lettura del libro lo ha cacciato. Alla seconda lettura, più analitica, alla ricerca degli indizi a sostegno della sua visione, sente l’angoscia causata dalla prima lettura trasformarsi in un’angoscia raccontata e non vissuta, cavalcata e non sfrenata, incorniciata e non incisa a sfregio sopra un muro intonacato di fresco.

Dalle note di Fraioli

Il libro nascosto dietro al libro (dentro? sotto? al di là?), come uno di quei giochi olografici da fissare e non fissare, ha cominciato a svelarsi (o rivelarsi?) a partire da dettagli, indizi insinuati nel corpo del testo come parassiti sotto pelle, che si aprono varchi nei tessuti connettivi, scavando microscopici tunnel per giungere al cuore che dischiude ora, davanti ai nostri occhi stupefatti, il formicaio di senso inesorabilmente raggrumatosi sotto la superficie.

Da una parte, le parole del titolo, parole ordinarie, che si fanno dimenticare durante la lettura del testo; dall’altra un personaggio, a ben vedere centrale, che pure entra in scena dalle primissime battute e poi cade anche esso nell’oblio fino all’agnizione finale, quando torna in scena indirettamente.

Tutti questi indizi ora mi saltano agli occhi: acquattati nel testo mi vogliono parlare senza farsi notare.

Il titolo del libro è Grave disordine con delitto e fuga. Ezio Sinigaglia lo ha scritto.

Primo indizio: DISORDINE.

Il disordine e la sua dialettica con l’ordine. Il disordine prodotto del desiderio e il riordino attraverso la soddisfazione del desiderio o la trasformazione dello stesso. Colpisce qui, ma sempre a scoppio ritardato, la definizione di ordine e disordine data da uno dei personaggi principali: per l’ingegnere De Rossi, l’ordine è il movimento che consente di sovrapporre la realtà al desiderio, il disordine la fissità che li fa permanere divisi.

La definizione data dal personaggio non è intuitiva:

ordine=movimento

disordine=fissità

Il narratore ci segnala infatti che il disordine introdotto nella vita di De Rossi è un movimento che mette sottosopra l’esistente per riorientarlo, riordinarlo vero il giovane fattorino Jimmy Michelangelo. Ovvero che

disordine=movimento

ordine=fissità

Due modi diametralmente opposti di intendere la questione. Sembra che il narratore voglia ricordarci una cosa di cui dovremmo già essere consapevoli: i personaggi hanno un punto di vista che non per forza coincide con il punto di vista delle altre istanze della narrazione e che un treno può sempre nasconderne un altro.

E anche che dire una cosa è sempre dire e, contemporaneamente, fare almeno una cosa.

Nel titolo, oltre alla parola disordine, ce ne sono altre due sulle quali si scivola con abitudine distratta di primo acchito: DELITTO e FUGA.

Di che delitto, di che fuga si tratta?

A prima vista sembrerebbe trattarsi di un duplice delitto: un gatticidio seguito dalla punizione del presunto colpevole tramite violenza carnale e licenziamento. E, attraverso le parole del personaggio, ossia di un punto di vista interno che non può – per posizione, per una questione di rapporti geometrici – vedere il quadro complessivo, il testo sembra confortare questa prima ipotesi:

«Ti faccio le mie scuse, e non pretendo le tue. Non servono più. Sai come si dice, vero? Ubi maior, eccetera eccetera. Vale anche per i delitti. Sei perdonato. La tua colpa è minore.» (p.103).

Ma questa prima lettura non convince fino in fondo. Il sentimento che il sacrificio del gatto e del giovane fattorino siano segni di ben altro delitto, più grande, si insinua nella lettura, suggerito da vari elementi.

«L’ingegnere De Rossi, quando ardiva dipingersi gli atti di quell’amplesso lucente, s’immaginava nelle vesti di un sacerdote più che di un semplice amante. Tuttavia la celebrazione del rito era resa difficoltosa per non dire impossibile da fastidiosi e notevoli ostacoli.» (p.21).

Dalle prime pagine compaiono la figura del sacerdote e del rito (corsivi miei). Sembra allora di scorgere che le scene cruente che concludono il romanzo, i «delitti», non siano in verità delitti ma sacrifici rituali per scongiurare una violenza molto maggiore che potrebbe forse devastare l’intero ordine De Rossi del mondo, o del mondo De Rossi. Per ordinare il disordine, lieve poi grave, sembra che la strada scelta sia quella del rituale sacrificale. Il sacrificio dunque per evitare il delitto. Ma di quale delitto stiamo parlando allora?

Mi sembra che si possa rispondere a questa domanda almeno in due modi: nell’emergenza della vita dell’ingegnere De Rossi, incarnata nel disordine portato da Jimmy, il delitto potrebbe essere interpretato come quel desiderio impetuoso che De Rossi sente di sacrificare tutto alla bellezza del suo angelo bambino: anni di maggese nell’humus di una cultura alto-borghese, imprenditoriale, capitalista, completamente secolarizzata, aperta all’accettazione e alla digestione di influenze di ogni provenienza (dal mondo della burocrazia, della politica, della tecnocrazia, dell’arte, della filosofia, della morale tradizionale di classi sociali inferiori):

«[…] era un trentenne di educazione superba e di vasta, profonda, molteplice, raffinata cultura[…]. La casa, una magnifica villa nel cuore della Milano risorgimental-manzoniana, in riva ad acque che non scorrevano più sotto il sole[…]. Vi transitavano politici untuosi e vescovi dal sorprendente talento sarcastico, professori dal tratto impeccabile e dalla conversazione lentissima e opaca, uomini d’affari e dirigenti d’azienda vestiti in Inghilterra e ritoccati a Boston o a Berkeley. Ma questi erano gli ospiti del dovere e dell’obbligo, quelli che la madre dell’ingegnere De Rossi, donna di affascinante noncuranza e di un’ironia corrosiva, chiamava “le medicine che prendiamo per gola”. […]» (p.15)

«In alternativa alle medicine, e spesso ad esse mischiati con raffinatissima audacia, sedevano alla tavola del cavaliere De Rossi e della sua affascinante signora gli additivi, gli stupefacenti, le droghe e i veleni. Insomma, gli artisti.» (p.16-17)

A parte il senso che subito si può afferrare in questi passaggi, vorrei fare notare, in maniera forse un po’ disordinata (ma questa è la dialettica del testo!) due dettagli a tutta prima insignificanti: la casa in cui è cresciuto l’ingegnere si trova a essere «in riva ad acque che non scorrevano più sotto il sole». Perché questo dettaglio? Precisione topografica dell’autore? Amore per il dettaglio storico? Mi pare più interessante pensare che il fiume che una volta scorreva in superficie, ora, e proprio laddove il nostro sacerdote celebrante è cresciuto, sia nascosto: figura di una legge antica che, nascosta ai nostri occhi, ancora serpeggia sotto i nostri piedi facendoci fremere con la sua vibrazione profonda. Una sorgente sopita, un desiderio nascosto, una forza pronta a esplodere ma zittita dal cemento della nostra civiltà che ci protegge o tenta di proteggerci dalla violenza incivile della natura.

Secondo dettaglio: la madre di De Rossi divide i suoi ospiti in medicine e veleni. L’ironia borghese dei vezzeggiativi della «regina» della casa, non riesce a celare la parola φάρμακον (pharmakon), veleno e rimedio, e la parola φαρμακός (pharmakos) il capro espiatorio immolato per sanare la colpa di altri. Come se l’autore ci volesse già introdurre nel contesto di rituale sacrificale, di immolazione sostitutiva di un innocente per salvare una comunità.

Allora forse: delitto come distruzione, per opera della bellezza, del mondo ordinato, dedito al possesso e al profitto dell’ingegnere.

Oppure il contrario: il delitto di avere, con il lavorio degli anni e delle generazioni, seppellito la violenza, l’inciviltà della bellezza, lo spirito rivoluzionario della vitalità naturale del bambino, dell’animale, capace di sconvolgere ogni ordine stabilito, sotto la civilissima coltre dell’ordine capitalistico-borghese in cui tutto è oggetto di scambio e di profitto, tutto può essere afferrato per una maniglia (sic) e posseduto e divorato a brani, con un godimento vuoto di spiritualità.

Nella tensione tra questi due poli mi pare si collochi il delitto.

Il campione di questa vitalità, di questa forza naturale, infantile, primigenia sarebbe, nella nostra parabola, Jimmy. Ma Jimmy ne è un campione allo zenith, e De Rossi lo aiuterà a tramontare. Egli ha infatti diciassette anni, è quasi un adulto. E inoltre sembra voler entrare a far parte del mondo di De Rossi (da cui lo separano solo quattro centimetri di statura): frequenta le scuole serali di ragioneria e vuole iscriversi alla Bocconi: fa di tutto insomma per diventare a sua volta una sorta di altro ingegnere De Rossi.

Chi invece sembra essere il beniamino che incarna pienamente lo spirito naturale e grezzo che i De Rossi da sempre vogliono governare, come le caldaie che la Termolux produce1 ordinano e regolano la pressione dell’acqua e la potenza del fuoco, è Gegè, Ruggero, il figlio di 3 anni dell’ingegnere. E assieme a lui, tanto simile a lui da sostituirlo, il suo gattino Semien.

Ma rallentiamo e andiamo con ordine.

Abbiamo accennato a due primi indizi iscritti nel titolo: disordine e delitto.

Veniamo alla FUGA.

Al termine della prima lettura, il materiale è talmente caldo e ricco che abbiamo completamente dimenticato la fuga. Il sacrificio ci brucia ancora gli occhi e non riusciamo a vedere la sostituzione operata dal rito. Ci sembra che nessuno sia fuggito. E in effetti nell’arco diegetico non viene descritta nessuna fuga e, anzi, la parola fuga (escludendo il titolo) viene utilizzata una sola volta nel testo parlando delle linee di fuga di uno sguardo, e non per significare l’atto di fuggire da qualcuno o qualcosa.

Abbiamo tuttavia uno spostamento di persone da una città a un altra:

«[…]la giovane signora De Rossi comunicò infine al marito […] le decisioni inaudite ch’era andata via via elaborando nel suo progressivo impietrirsi: non sarebbe partita da sola, ma con Gegè. Tutte le altre decisioni discendevano da questa con la stessa implacabile ramificazione di cause ed effetti con cui, in certe zone geografiche, da un banale adulterio possono prendere origine cinquanta o sessanta cadaveri.» (p.58).

Ecco la fuga.

Notare come le decisioni siano inaudite, aggettivo che parrebbe esagerato per un semplice soggiorno in un’altra città. La signora De Rossi poi si impietrisce, ossia non solo si irrigidisce nelle sue posizioni (aspetto drammatico-borghese dell’espressione) ma sembra proprio farsi di pietra, scandalizzandosi, facendosi scandalo, ostacolo, pietra d’inciampo (risvolto tragico-sacrale). E l’ultimo periodo, un’evocazione di strage iperbolica per il contesto di superficie, descrive bene l’escalation della violenza mimetica che, di vendetta in vendetta, può estendere il suo contagio a tutta una società, se non arrestata tempestivamente da un meccanismo rituale di sostituzione vittimaria.

Lo schema sembra quello della fuga in Egitto.

Riassunto: Maria e Giuseppe, dopo la visita dei Magi, apprendono che Erode il Grande, sentendosi minacciato dalla nascita di quello che i Magi chiamano il re dei Giudei, vuole uccidere tutti i bambini sotto i due anni (strage degli innocenti) per non perdere il suo trono.

Come nella storia biblica De Rossi/Erode vuole difendere il suo «impero», la sua «corona», sbarazzandosi del futuro «re», che nella storia in questione può essere facilmente identificato in Jimmy, futuro studente della Bocconi, che si differenzia di pochi centimetri dal suo datore di lavoro. Ma in maniera ancora più profonda (tanto da giustificarne la «fuga in Egitto» assieme alla madre, scandalizzata, e agli altri abitanti della casa) Gegè sembrerebbe la vittima ideale della strage di De Rossi, che vuole liberarsi da un lato di un successore che lo rimpiazzi e dall’altro di quell’entità violenta e infantile – violenta e innocente – che potrebbe disordinare il suo mondo regolato. Non è un caso che, nella sola scena narrata al presente dal racconto, il gatto Semien perda la vita (sostituendo metaforicamente il suo giovane padrone Gegè) e Jimmy (modello «compiuto» di Gegè) venga afferrato da una maniglia segreta, impensata, posseduto e licenziato, in una parola neutralizzato, riportato all’ordine, dal monarca conservatore.

Sia chiaro, Madame Derosì, come viene chiamata la moglie francese dell’ingegnere, è sicuramente inconsapevole di organizzare una fuga in Egitto per salvare dalla violenza dell’ordine del marito l’innocente Gegè, che su un piano realistico non è certo in pericolo di vita. Ma quanti modi conosciamo, nella nostra tepidezza borghese, per ammazzare qualcuno con mezzi niente affatto cruenti? Anche di questo ci parla, forse, questa parabola.

Sembra incredibile, vero, che un bambino di appena tre anni possa essere considerato un pericolo da un uomo che tutto possiede. Eppure, come anche il testo biblico ci suggerisce, chi detiene l’ordine e il potere sa che proprio da quell’innocenza può essere spodestato.

Osserviamo per questo la triade composta da Gegè, Semien e Jimmy, i tre (due in verità) antagonisti dell’ingegnere.

Tra tutti i nomi con cui poteva chiamarsi l’animale, perché chiamarlo proprio in questo modo bizzarro? È stato l’ingegnere a battezzarlo, su suggerimento involontario del figlio Gegè (Gegè, Jimmy, solo i giovanissimi hanno diminutivi nel testo, e non così dissimili tra loro): c’est mien! dice al padre riferendosi al cucciolo.

È mio! Primo passo dell’ancora innocente Gegè sulla strada del possesso di cose ed esseri viventi reificati. Primo passo verso quella strage degli innocenti che probabilmente trasformerà (con tutta la violenza che c’è in questa parola) Gegè l’innocente nell’ingegnere Ruggero De Rossi, addestrato al possesso di cose e persone, per cui sarà naturale avere rapporti di possesso con cose e persone: un campione nell’afferrare maniglie. Gegè, già all’età di tre anni, si esercita, come molti bambini, ad accaparrarsi il mondo a colpi di possessivi, è già sulla buona strada, diremmo, per seguire il suo modello, e quindi rimpiazzarlo. Semien è una perfetta vittima sostitutiva di Gegè, quello che accade a Semien, ci dice qualcosa di quello che accadrà a Gegè, nel lavorio assiduo degli anni; la morte dell’innocente che lascerà spazio al possidente. Il meccanismo di sostituzione, tipico della logica della violenza rituale, fa parte anche della logica aziendale dell’impero di De Rossi:

«Veniva allora gradualmente a prodursi nell’organico della Termolux un moto rotatorio che può essere così sinteticamente descritto: B, che ha preso il posto a lasciato libero da A, viene sostituito al posto B da C, mentre D assume le funzioni di C, E quelle di D e F quelle di E. A questo punto, e non prima, viene assunto Z, la ventiseiesima lettera, per svolgere le funzioni di F adottandone il posto, le mansioni, le retribuzioni e, in linea teorica, l’identità.» (p.41)

Guardiamo un po’ più da vicino questo gattino allora, perno sostitutivo della parabola, unico essere che sale davvero sull’altare del sacrificio, come tanti animali, più o meno villosi, più o meno innocenti, più o meno somiglianti a personaggi perseguitati per le loro caratteristiche sovversive.

«Semien portava una burrascosa pelliccia di ermellino, non meno candida della maglietta di Jimmy, punteggiata qua e là di grandi chiazze di martora, di un bruno rossiccio e lucente. Non c’era ovviamente alcun ordine, alcuna logica umana, alcuna ricerca di simmetria o di equilibrio nel modo in cui la natura aveva gettato in quel bianco oceano d’ermellino le isole di martora color della terra. Ma, sulla coda, per arcano consenso, l’ermellino e la martora si alternavano in anelli di quasi uguale misura»(p.92).

Sottolineerei alcune parole: martora, ermellino, alcun ordine, arcano consenso. Segni contrastanti nell’aspetto di questa vittima sostitutiva. Il candido ermellino, simbolo di purezza, mescolato alla martora libidinosa e predatrice. Elementi disordinati nel corpo dell’animale e organizzati secondo un arcano consenso sulla coda che, per un ulteriore contrasto, è la parte meno umana del felino, la più arcaica dal punto di vista evolutivo.

Anche Jimmy possiede tratti esteriori di martora e ermellino: è sempre vestito impeccabilmente, spesso di un bianco (ermellino) da cui trapela la sua pelle nuda di un’indefinibile tinta ramata che sembra attingere ai colori di ogni razza (martora). I suoi occhi neri, succosi e bollenti, sono quelli di un ermellino o di una martora? L’ingegnere De Rossi vorrebbe «afferrare con la mano destra la testa di Jimmy, stringendo un piccolo ciuffo dei suoi capelli d’oro vivente dietro la nuca, e portarsi alla bocca quella magnifica bocca per addentarla come la polpa di un frutto carnoso» (p.71). Come una martora che afferra la sua preda. Martora e ermellino, sintetizzati nel pelame di Semien, sono i due caratteri che lottano in questa storia a vari livelli. L’organizzazione o la casualità di questi caratteri è il principale interesse della società descritta nel romanzo. Il pelo di Semien, dalla testa alla coda, sembra la storia dell’educazione di Gegè, che si compirà quando il cucciolo innocente verrà sacrificato sull’altare dell’ordine borghese-industriale.

Jimmy è un cucciolo a uno stadio più avanzato rispetto a Gegè, e con caratteristiche uniche e destabilizzanti: la sua perfezione, la sua bellezza, la sua lucentezza, il piacere che spande ovunque vada, il suo eloquio misurato e brillante. Un angelo. Ma per quanto angelico veniamo a sapere che non è disinteressato ai piaceri di un ragazzo di carne e di sangue: il calcio e le ragazze. E anche che desidera lasciarsi alle spalle le sue umili origini per avere accesso a uno status sociale più alto grazie a una laurea in economia e commercio alla Bocconi:

«“Come mai, da Michelangelo, Jimmy?”

“Sostanzialmente, per fare più presto.”

“E la Sistina?”

“Magari! Ma il nome non basterebbe comunque. Farò la Bocconi.”

C’era di che restar senza fiato. A bocca aperta, sotto ogni profilo. E, fatto ancor più seccante, a bocca, era ormai da presumersi, asciutta.

E, per di più, la Bocconi! Incredibile! Dall’abisso della sua posizione di fattorino con uso di Vespa Cinquanta, l’impagabile Jimmy programmava il suo brillante futuro con la sbrigativa noncuranza di un giovane duca.» (pp. 29-30)

Riporto il breve e densissimo primo duello verbale (tennis? scherma?) tra Jimmy e De Rossi, mirabile sotto più punti di vista. Quello che interessa ora è la traiettoria di Jimmy che, tra pochi anni, potrebbe aver colmato quei «quattro centimetri» che lo differenziano dall’ingegnere De Rossi e ricalcarne la figura sotto tutti i punti di vista. Il mimetismo è evidente.

Prendo la palla al balzo per parlare della «bocca» in questo passaggio. Come al solito il gioco è ambivalente. La bocca aperta e asciutta dell’ingegnere risuona con il nome dell’università che Jimmy ha deciso di fare. È un caso? La domanda è retorica. Se avesse fatto la Cattolica o un’altra università prestigiosa la traiettoria del personaggio non sarebbe certo cambiata. La scelta della Bocconi, con le sonorità e le immagini che questa parola si porta dietro, lavora sottoterra, come il fiume nascosto che passa sotto villa De Rossi. Ne cogliamo subito l’ironia di superficie, borghese, amante del mot d’esprit. Ma il seme è gettato e, anche se dovessimo dimenticarci di questo dettaglio, la parola Bocconi risuonerà nei nostri incubi di lettori a bocca asciutta delle ultime pagine. Per tirare questo filo devo fare un balzo avanti:

«Ho mangiato quattro panini – disse Jimmy con infantile sorpresa. – Dovevo proprio avere appetito» (p.74).

«Pochi istanti più tardi ritraeva dal corpo di Jimmy il proprio sesso lordato di escrementi e di sangue, e lo nascondeva con ribrezzo e vergogna nei pregiati tessuti. Jimmy, gettato bocconi sull’erba, ansimava, tutto madido di luccicante sudore» (p.102).

La fame di Jimmy è vorace. In lui sia l’ermellino che la martora muoiono letteralmente di fame. Non a caso divora ben quattro panini nel giardino di De Rossi (quattro come i centimetri che lo dividono da lui), non a caso i suoi bocconi sono voraci e enormi.

Ma anche l’altro significato della parola «bocconi» ci viene ricordato nel finale e il ragazzo, martora e assieme ermellino, viene lasciato bocconi dal suo rivale e modello, sventrato in qualche modo come Semien, punito per una colpa che non ha origine in lui.

È interessante notare infatti come l’uccisione del gatto non ci sia mostrata. Quando Jimmy va a fare i suoi quattro passi (ancora quattro, come i centimetri, come i bocconi…) nella parte selvaggia del giardino, ci viene solo raccontato «il suono più agghiacciante che l’ingegnere De Rossi avesse mai udito». Poi è questione di gatti e poi vediamo Semien sventrato e cosparso di formiche. Jimmy entra nel bosco e, quando ne esce, nel bosco c’è un gatto morto. Siamo subito portati a pensare che il delitto sia stato compiuto da Jimmy. Ma com’è possibile che, a mani nude e senza sporcarsi minimamente (se non una macchiolina rossa su una scarpa), il ragazzo abbia potuto aprire la pancia a un gattino?

Il fatto è che la logica ci impedisce di vedere quello che succede: dopo essere stato nutrito dal sacerdote (ricordiamo che nel momento del pasto Jimmy è descritto come un animale), l’innocente esce dal giardino, attraversa il deserto di un prato battuto da un sole inverosimile ed entra nel buio del bosco. Un suono arcano e indescrivibile giunge dal bosco. Jimmy esce dal bosco (quasi) immacolato. Solamente nel momento in cui De Rossi entra nel bosco troviamo il gattino morto. Il testo ci mostra il cadavere di fronte a De Rossi e non assieme a Jimmy. Ci suggerisce insomma il legame violento tra il gattino sostitutivo e l’ingegnere. Il simbolo inganna tutti: ci diciamo che è stato Jimmy a sacrificare il gattino. Ma il testo non ci mostra quello che noi supponiamo. Ci mostra invece De Rossi assieme al cadavere, De Rossi che da quel momento in poi perde le caratteristiche di controllo e misura che lo hanno contraddistinto fin ora. Come se fosse stato l’ingegnere a uccidere il gattino e vibrasse ancora dell’energia del sacrificio. Logicamente è impossibile, lui era altrove e ha sentito il grido a distanza. Ma dal punto di vista compositivo Semien morto e De Rossi sono due figure dello stesso quadro. De Rossi è poi l’unico a usare la forza fisica e la violenza, in modo diretto questa volta, nei confronti di Jimmy. E questo mutamento avviene in lui alla vista del corpo senza vita del gatto di suo figlio. Il parallelismo tra ciò che accade a Semien e ciò che accade a Jimmy – e quindi anche tra Jimmy e Gegè, salvato dal sacrificio di Semien – pare anche confermato dalle parole che De Rossi pronuncia parlando dell’amore di Gegè per Semien:

«Lo amava! – gli gridò con furore sul viso. – Lo amava! Capisci che cosa vuol dire? Lo amava! Che cosa gli dirò, quando torna?» (p.95)

E in seguito del suo amore per Jimmy:

«Hai rovinato tutto, stupido, stupido idiota! Io ti amavo, piccolo idiota, ti amavo!» (p.100) Questo parallelismo d’amore perduto, di Gegè per Semien e di De Rossi per Jimmy, completa la sovrapponibilità simbolica tra i tre: gli infanti e l’animale espiatorio.

Provi ad afferrarmi, non ci riuscirà; provi a ferirmi, il sangue scorrerà da tutte e due le parti e, ineluttabilmente, ci unirà, come due indiani che si scambiano il sangue vicino al fuoco, in mezzo alle bestie feroci. Non c’è amore, non c’è amore.

Bernard-Marie Koltès, Nella solitudine dei campi di cotone, trad. Ferdinando Bruni, Ubulibri, Milano, 1991


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  1. La Termolux dell’ingegnere De Rossi si arricchisce grazie al brevetto di un dispositivo di controllo delle caldaie che produce: domestica il fuoco affinché le sue calorie servano al comfort della vita borghese evitando che la potenza del fuoco deflagri, facendo esplodere come bombe le dette caldaie, che si rivelerebbero allora strumenti di sterminio.
    La Termolux è un relitto aziendale del «glorioso passato di costruttori» del nonno e del padre di De Rossi (Erode il Grande, padre di Antipa e Filippo, fu un grande costruttore, sia detto per più tardi) e questo suo statuto di relitto la colloca armoniosamente in un contesto arcaico di gestione del fuoco della violenza tramite la valvola di sfogo del sacrificio piuttosto che con sistemi più avanzati di controllo come quelli forniti dal sistema giudiziario. ↩︎

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