Il canto delle averle

Testo di Chiara Checchini
Immagini di Library of Congress

«Mamma ne ho preso un altro!» esulta Sebastiano dalla sua postazione sul ciglio del torrente. Sembra una creatura dei boschi, a petto nudo, illuminato dalle trine di luce che filtrano dagli abeti.

Giulio zampetta con il salmerino in mano, correndo a piedi nudi sulla terra fredda, attutita da un tappeto di aghi di pino color ruggine.

Fisso con condiscendenza la benda sbrindellata che gli avvolge il braccio, la canottiera sporca, gli sbuffi di terra sulle guance arrossate, i capelli arruffati.

I ciocchi di legno scoppiettano sotto la lastra d’ardesia, le squame del pesce scintillano e il fumo riempie la radura.

Thor gironzola eccitato intorno alla brace, il richiamo della natura lo sta cambiando. Sparisce per ore, annusa tracce, esplora i boschi, a volte rientra che è già buio.

«È pronto!» grido e i bambini accorrono veloci, affamati come non mai. Ci mettiamo seduti intorno al fuoco a spolpare la carne morbida del pesce.

Attacco Teo al seno, accarezzandogli il piede che spunta dalla tutina impolverata. Incrocio le gambe e sento una fitta. Il pantalone si solleva quanto basta da lasciare intravedere un grosso ematoma e Sebastiano mi posa una mano sulla spalla.

Mentre i piccoli dormono nella tenda Sebastiano va a raccogliere frutti di bosco per la merenda. «Domani mattina potremmo salire verso le cascate, lì è pieno di mirtilli!» propone.

«Per i mirtilli è presto, non sono ancora maturi.»

Sebastiano si morde il labbro.

«Le fragole sono quasi finite e i lamponi li abbiamo saccheggiati», ribatte.

Annuisco, distogliendo lo sguardo.

«È bello stare in questo posto. Starei qui per sempre», mi confessa, disegnando piccoli cerchi nel terriccio con la punta di un bastone.

Forzo un sorriso.

Fa per dire qualcosa ma si trattiene. Va a rintanarsi nella capanna che abbiamo costruito giorno dopo giorno, con infinita pazienza, addossando lunghi rami al grosso tronco di un abete rosso.

Il tempo sta cambiando. Le avèrle trillano saltellando da un ramo all’altro e le nuvole si accalcano nel cielo.

Prima di cena lavo i bambini con l’acqua riscaldata sul fuoco. Mangiamo un risotto liofilizzato –

una delle ultime buste – e ci addormentiamo stretti nella nostra tenda, ascoltando la pioggia fitta e sottile che bagna la nostra radura.

I miei pensieri si amplificano nella pioggia.

Tic Tic. Abbiamo bisogno di provviste, sta finendo tutto. Tic Tic. Il cane. Abbaia troppo, ci farà scoprire. Tic Tic Tic. Il fumo del fuoco, non è prudente. Tic Tic. Se ci trova, questa volta… Tic Tic Tic Tic Tic.

Le palpebre diventano pesanti.

Procedo veloce, troppo veloce, impugnando stretto il manubrio del monopattitno, su una discesa che non riconosco, proprio a ridosso del torrente.

L’aria fredda della sera mi punge la pelle.

Freno, freno ancora.

Sui lati, alti lampioni proiettano ombre torve sull’asfalto.

Schivo all’ultimo sagome incerte ammonticchiate ovunque.

Accanto a me compare Omar, procede al mio fianco con aria rassicurante, sorride mentre tenta di farmi sbandare.

Lo slalom tra gli ostacoli è sempre più faticoso, queste forme chiare sono sempre di più, invadono quasi tutta la carreggiata.

Mi accorgo che si muovono, si arrotolano e si srotolano.

La strada si addentra nel bosco, i lampioni finiscono ma quelle forme sono fluorescenti, illuminano a giorno l’asfalto.

Omar mi affianca e mi urta, non è più lui.

Si è trasformato in una di quelle creature, è un mostro strisciante dalla pelle diafana e dallo sguardo abbagliante.

Mi punta gli occhi contro e mi acceca.

Urlo e mi sveglio.

Thor sta abbaiando. Il nero pece delle nostre notti all’addiaccio è interrotto da due fasci di luce. Anche il silenzio è infranto, sento il ronzio di un motore nel mezzo dello stillicidio mediato dalle fronde.

Appena esco dalla tenda qualcosa di duro si abbatte sulla mia testa.

Vedo un lampo, le mie orecchie fischiano e mi accascio per terra.

E tutto inizia a ruotare.

Terra bruna, fili verdi, gocce color melograno.

È sangue. Il mio sangue. È caldo.

Lo sento colare sulla tempia, giù tra le labbra, sui denti.

Tutto gira, gira.

Mi risveglia una stretta allo stomaco, un fiotto di vomito mi risale fino in gola e scroscia sulle felci lucide di pioggia.

Cerco di mettermi seduta, ma il mio corpo non risponde. Resto carponi, le dita affondate nella terra scura.

«Bambiniiii!» biascico.

Voci intermittenti, vicine e inafferrabili insieme, fanno vibrare l’aria.

«Giù le mani da mio fratello!» urla Sebastiano.

«Cosa vuoi fare Omar? Rompermi anche l’altro braccio?» chiede Giulio, mandandomi in pezzi.

La risata di Omar riecheggia per la radura.

«Non toccarli!» vorrei gridare ma dalla mia gola esce un gorgoglio.

Il ringhio di Thor si trasforma in un abbaiare forsennato che non riesce a sovrastare il grido disumano di Omar.

Tutto gira, gira.

La testa pulsa e tutto intorno è marrone indistinto.

Il pianto disperato di Teo mi riscuote dal torpore. Puntellando i gomiti e le ginocchia nel terreno umido mi dirigo verso la macchia blu della tenda, finché non sento il suo corpo caldo contro il mio. Lo stringo a me e crollo.

Sento freddo, una sensazione di bagnato.

Le caviglie.

Avverto un mugolio, distinto. Vicino.

Dischiudo gli occhi e vedo una massa chiara che mi si struscia addosso. È Thor, mi lecca i piedi.

Teo dorme, sento il suo respiro regolare e mi trascino fuori a tentoni, strofinando la manica sugli occhi. Poco più avanti intravedo due sagome scure. I miei bambini sembrano adulti, tanto più grandi della loro età. Sono di spalle, e stringono in mano dei grossi bastoni.

Thor ulula, ora che inizio a rimettere a fuoco mi accorgo che ha il muso intriso di sangue.

«Mamma!» grida Giulio, rosso in faccia.

«Omar non doveva venire qui, mamma. Gli ho detto di lasciarci in pace, ma non mi ha dato retta», dice Sebastiano, stringendo il bastone così forte che le nocche diventano bianche.

Omar è legato a un albero, illuminato dagli abbaglianti del suo fuoristrada. Ha una ferita sulla coscia e il volto contratto dal dolore. È stretto in vita dalla corda rossa che usiamo per stendere la biancheria.

Intorno al tronco i bambini hanno tracciato un solco circolare e l’hanno riempito di pigne e cortecce.

Saltano nel cerchio e iniziano a girare in tondo, velocemente. I piedini bianchi guizzano in aria.

«Omar Omar Omar,

tu non sei più il nostro papà!»

La canzone mi lacera dentro per la colpa.

Omar solleva la testa, lucida di sudore.

«Slegatemi o vi ammazzo tutti!», la sua voce mi stritola.

I bambini si lanciano uno sguardo d’intesa e prendono a camminargli addosso, calpestandogli la gamba sanguinante. Omar senza fiato geme.

«Omar Omar Omar,

tu non sei più il nostro papà!»

Nei loro furiosi girotondi, gli tirano addosso manciate di aghi di pino e blocchi di terra.

Omar urla, ma la sua rabbia non fa che eccitare i bambini. Corrono verso il greto del fiume e tornano con le mani piene di ghiaia, che gli fanno ricadere sul capo.

«Maledetti!!!» grida contorcendosi.

Sebastiano e Giulio gli spalmano fango sugli occhi, sulle orecchie, sulla bocca.

«Omar Omar Omar,

tu non sei più il nostro papà!»

Omar impreca, poi mi vede e mi folgora. «Liberami o ti ammazzo!» grida.

Il consueto terrore mi schiaccia, mi sento chiusa in una morsa.

Il respiro si incaglia, la gola si stringe.

Lotto contro l’impulso di liberarlo. Devo farlo. Una forza mi calamita verso di lui.

Sono gli occhi imploranti dei miei figli a fermarmi.

Socchiudo per un istante le palpebre.

Ora non è il momento di affrontare la nuova paura, quella dell’assenza, anche di quei rari spiragli di buono che restavano e che erano diventati il mio tutto.

Scuoto la testa lentamente, ignorando il dolore che mi avvolge la nuca.

«No no no», dicono i bambini scuotendo a loro volta la testa, sollevati.

Omar grida con tutto il fiato che ha in gola e Sebastiano gli riempie la bocca di terra.

«Shhhhhh! Non disturbare le creature del bosco!» gli intima Sebastiano, con una sfumatura virile che mi mette i brividi.

Omar ritrae la testa, torce la bocca, spalanca le mandibole e tossisce. Tossisce e sputa, tra i conati, emettendo suoni che non hanno più nulla di umano.

Thor ringhia eccitato e i bambini sorridono, brandendo i bastoni con fare minaccioso. Hanno il volto trasfigurato, non li riconosco più.

«Adesso basta!» grido terrorizzata reggendomi la testa.

Sorretta dai ragazzi avanzo fino davanti all’uomo che per troppo tempo ha spadroneggiato su di me, su di noi.

Lo guardo fisso negli occhi.

«Liberami!» bofonchia.

«Non funziona più, l’incantesimo è rotto», gli dico ferma.

Omar tossisce, una schiuma scura gli cola dagli angoli della bocca.

«Omar Omar Omar,

tu non sei più il nostro papà!»

Omar piange di rabbia, le lacrime disegnano righe chiare sulla maschera nera del volto.

Thor lo sorveglia, incede lento con le orecchie ritte. Avanti e indietro, avanti e indietro.

«Cercate le chiavi della macchina», dico barcollando.

Sebastiano gli fruga nelle tasche, ma Omar libera una mano e lo afferra per i capelli.

Thor si scaglia contro Omar e gli conficca i denti nel braccio.

Omar non grida e non molla la presa, digrigna i denti e dilata le narici, lanciandomi uno sguardo folle, di sfida.

D’impulso afferro il bastone di Giulio e colpisco Omar sulla testa.

Resto lì, con il braccio sospeso a mezz’aria mentre Sebastiano con gli occhi lucidi si svincola dalla presa.

«È finita, ce ne torniamo a casa.»

«Respira ancora», a Sebastiano trema la voce.

Lancio il ramo lontano.

«Scioglietelo. In fretta prima che si risvegli!»

«Ma, mamma…»

«Noi non siamo come lui.»

Mi concentro sui miei passi, cercando di andare dritto.

Dalla mia ferita gronda sangue scuro sul vermiglio delle ultime fragole, falcidiate da passi ciechi.

Sebastiano corre a prendere Teo, ancora addormentato nella tenda. Procediamo svelti con i piedi nudi nel fango, fino alla macchina di Omar, ferma nel mezzo della radura.

Thor salta dentro per ultimo.


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