YGRAMUL #2 – In quello che gli indigeni chiamavano Ohio

Testo di Federico Dilirio
Copertina di Susan Orlok

Rewind. Risucchio prolungato del nastro magnetico. Stop.

Play. Segugi. F.Fwd. Segugi che la perseguitano, segugi che precipitano da elicotteri ministeriali, che la gettano a terra, che si infilano, che la frugano, che addentano le chiavi, che le strappano la katana, la fotocamera, la lettera d’addio. Stop.

Rec. «Per me è facile,» è la telepate che ora le parla «ma a te chi ti obbliga? Tu non sei dei nostri». Stop.

Play. È una corsa tra lamiere e bambù. È un dolore alla milza, alle branchie. È una caduta. Puoi anche avvertirne il dolore alla base dello stomaco. Alla base del collo, del colon. Dell’esoscheletro. Dell’esofago dell’esoscheletro.

Rewind. Sulla banchina dello Shinkansen rivede la ragazza, sente la sua ascella marinata, l’odore le entra in testa per non uscirne mai più. Cosa faranno con la fotocamera? Se solo avessi un mucchio di soldi. Se solo avessi i suoi poteri, i suoi superpoteri, lo saprei. Se solo avessi anch’io delle antenne. Le sue antenne. Cosa faremo della fotocamera? O se solo avessi un mucchio di soldi, soldi piovuti dal cielo. Se avessi le sue antenne forse e dico forse attrarrei quel mucchio di soldi che mi servirebbero per uscire da questa discarica. Un mucchio di soldi, o un mucchio di antenne. O me ne basterebbero solo due, di antenne, solo due, di numero. Due soldi, due. Traditrice, perché pensi al denaro, ora? Il denaro non esiste più, le pesetas. Perché il denaro, allora? Due, di due.

Play. La scaglieranno nell’azoto liquido con la katana, con i phaser, con le pesetas. Con la lettera d’addio. La lettera d’addio, prova artefatta, per incriminarla. Pause.

Play. Prima di inciampare, prima di impiccarla, prima di deriderla e di sbeffeggiarla, per qualcosa che comunque non ricorderà, useranno proprio quella lettera come prova della sua colpevolezza.

F.Fwd. Passeranno la vita a decrittare le immagini che ha scattato cercando di scappare, cercando in un ultimo e disperato sforzo fotogenico ed ellenico di raggiungere la telepate. Attraverso la telegenia, la ragnatela, la rete, la retroguardia, in retromarcia. Taci e clicca. Play. La sequenza della fuga evapora come un sudario in fiamme, soffio, sciabordio di madre che annega. Scorge il volto di un nativo davanti a lei, assomiglia a un cormorano, ali di catrame, faccia butterata, alito di fungo macerato, incancrenito, cresciuto nella baia imperiale imbambolata, sulla fronte di agricoltori spenti e disperati, nel buio della baia. Nel buio vede un’ultima volta la telepate soffocare nella discarica. Che assomiglia alla baia, solo più grande e ripida. Ripida verso il basso, ripida in profondità.

Rec. «Sputo sulla tua pietà, Kaede!». È anche quello uno dei suoi tanti nomi e non certo quello più usato. Se adesso dovesse dire il suo vero nome, il nome che le diedero le madri, no, non saprebbe proprio cosa rispondere. È tutto così strano, così usurato, il concetto stesso di nome è tutto così usurato.

Play. La telepate si sgretola.

Una figura la insegue, ma lei è in salvo, nella stanza. La telepate si smantella, snaturata. La telepate è tutta così usurata.

Il granchio clicca Stop. Torna sedersi.

Eject.

La moltitudine di occhi del crostaceo fissa oltre la ragazza. Una di quelle chele è aperta: di quelle chele proprio quella senza guanto, guarda un po’. Acchiappa la VHS con la fuga registrata. Senza tante cerimonie la estrae sbatacchiandola dal videoregistratore. Con cura certosina ora, con la fila dei denti poi, strappa la pellicola, fagocitandola, millimetro dopo millimetro, in un sonno della ragione che sembra rubare il tempo alle Parche, lassù dove sono parcheggiate tra gli angeli, filando la lana come la Berta. Alla ragazza pare ci metta un’eternità. Si guarda attorno, luci a pioggia dal soffitto la penetrano fino all’osso dell’amigdala: sono lì apposta. Le ossa, le luci. Lei questo lo sa, anche se non ha la minima idea di come lo sa. Chiedere alle Parche, tramite una chiamata interurbana agli angeli, dovrebbe essere vietato dalla costituzione. Le pare che qualcuno abbia detto che prima era lei a fare il lavoro sporco del granchio, anche se non sa come sia possibile: nonostante tutto, nonostante quei lunghi arti che vede spuntare dal corpo, la differenza tra lei e il granchio è evidente. Si erge sulle zampette, poi, lo schifoso. Striscia fino al magnetofono. Clicca Play. Sembra dire, sotto quello smoking: «Ricominciamo, baby». Obiettivo dell’essere ripugnante è far ascoltare alla giovane un dialogo, avvenuto tempo prima. Quanto tempo prima sarà svelato tra poco. Per quanto riguarda il dialogo: una delle voci riprodotte è della ragazza. Lei però non ricorda quella conversazione, come non ricorda un mucchio di cose, tenetelo a mente. L’altra voce è del granchio (bello satollo, una volta digerito il nastro dentro il suo ventre spasmodico), che lei sa, grazie a un rigurgito di memoria, chiamarsi Lonely: il granchio, non il ventre. Mister Cristobal Lonely, specialista in minzioni, eruzioni cosmiche, interrogatori complicati e diagnosi. Conosciuto anche, da molti addetti ai lavori disoccupati, come il Disilluso Comico. Non è facile distinguerle, le voci si somigliano tutte. La voce: un’invenzione dei nativi, che la sua razza ha copiato. Però tra la sua dizione e quella del granchio c’è una bella differenza, potete scommetterci.

«Hai detto che eri sullo Shinkansen».

«E ho steso il primo».

«Andiamo con ordine, Kaede. Prova a leggere il mio labiale. Nel senso che l’hai ucciso?».

«Sei sordo?».

«Non perdi il vizio di condurre il gioco, piccola serpe. Bene, tornerai quella di prima. Dopo la mia cura, ovviamente. Ora, ascolta».

«Mi sto innervosendo. Toglimi queste cose dai polsi, bestia, mostro. Cane, infame».

«Hai usato la lingua, Kaede?».

«Ti ecciti per un nonnulla, vecchio porco con le chele».

«Dimmi la verità!».

«Non avevo niente! Ero nuda, come un bruco. Un bruco iridescente, ancorché bellissimo».

«Santa Regina Coeli, che schifo! Che hai fatto poi?».

«Credi che non mi sia accorta che questa conversazione ti sta eccitando? Sono tornata a sdraiarmi sul sedile. Ecco cosa ho fatto. Ancora non ti sei annoiato?».

«Ancora no! Eheheh!».

«Hai bisogno di materiale per i tuoi sogni bagnati, damerino in chele, ossa e carapace? Il controllore è passato. Ha visto il cadavere. È corso via. Lo Shinkansen ha fuso il motore. Sono scesa. Una stazione tossica, dalle parti dello zoo. Mezzi di sorveglianza obsoleti, per lo più danneggiati. Sono uscita. Ho agitato le lenti multifunzione. Non ho visto anima viva. Ho corso per qualche yard tra i rottami. Sono caduta».

«Togliti l’aria strafottente, Kaede. Avevi la katana sanificata, eri ben lontana dall’essere inoffensiva!».

«Abbassa la cresta tu, maialino! Ti ho appena detto che ero nuda come le mamme mi hanno fatto. Assetata, dopo una lunga permanenza all’aria aperta. Dove potevo nascondere una katana?».

«Quando ti abbiamo trovato la katana era parallela alla coda. Splendeva di luce solare, figlia di Apollo».

«Ogni volta la tua versione cambia, si modifica di un particolare. Alle volte la katana è azzurra o di ossidiana; altre volte la lama è spezzata o ricurva. Dimmi che mi ami, che non puoi vivere senza di me e facciamola finita».

«Limitati a rispondere alle domande. I tuoi giochetti manipolatori sono vecchi di decenni, flaccidi all’inverosimile. Sai come funziona, hai fatto questo lavoro anche tu, prima di tradire. Nella discarica cosa è successo?».

«Non ricordo la discarica. Non ho mai tradito. Questo è quello che volete farmi credere. Nella baia ero sola».

«Nemmeno la puzza della discarica?».

«Nemmeno che?».

«Dove si trova la tua mente ora?».

«In un bar. Beve vodka. Vedo nativi che ridono. È bello essere tra loro. Poi vado a casa di questo. Mi spoglio».

«Brutta sudicia! Ritieni così seducente quel tuo corpo vigliacco da sgorbio? Prosegui, rospo».

«Agito le lenti. Non vedo anima viva. Corro tra i detriti. Un corpo seducente da rospo. Un corpo da reato. Lo vedo come mi guardi, merdoso».

«Nella discarica cosa è successo?».

«La realtà che si assottiglia come un gomitolo. Sei scemo?».

«Dove hai perso la memoria?».

«Un attacco psichico della telepate. Lonely, ora aiutami. Slacciami questi cosi».

Il nastro gracchia, uno scatto ne decreta la fine. Lonely sprofonda nella sedia. Friziona il telecomando. L’artefatto boccheggia, emana un bagliore. Un suono spaventa la ragazza. Cerca un’arma che non ha. Due seppie strisciano nella stanza.

«La conversazione che hai ascoltato è di dieci minuti fa». Lonely fissa il telecomando, avvolto dal raggio che emana. La luce lo inonda, gli dona, ringiovanisce i lineamenti. «Ora le seppie ti accompagneranno in camerino. È importante non dare troppo nell’occhio. Lo spettacolo sta per cominciare. Nascondi quelle mammelle: ai nativi non piacciono». Fa poi una piccola pausa, prima di concludere, senza alcun imbarazzo con la domanda delle domande, quella che nessuno vuole mai fare: «Dimmi, ritieni davvero così seducente quel tuo corpo da rospo?».

Il nastro trasportatore, a cui è stata fissata con ittica perizia, continua per un minuto buono, prima che con una botta in testa si decreti la fine dell’essere vivente, si fa per dire, che apre la fila e la precede. Uno via l’altro, senza soluzione di continuità. Una pausa ogni quarantacinque minuti. Lei viene semplicemente sbattuta in un’altra stanza della splendida filiera del controspionaggio. Pare che lo spogliarello di fronte ai nativi debba attendere, prima meglio aggirare le sue difese psichiche.

Fusillo intanto è già lì, al suo posto, sprofondato nell’apatia. John Fusillo, il nostro nuovo appiglio narrativo. La ragazza, che le hanno scaraventato nella stanza, appare volgare ai suoi occhi di divinità aramaica. La depressione lo attanaglia. Col lavoro che fa, come si fa a non essere depressi? Povero bestione. Fa così tanta fatica ad alzarsi dal letto alle dieci e venti di mattina. Quando è tornato lì? Svogliatamente afferra il barbatrucco, l’unico regalo rimastogli di nonna. Lo friziona con la proboscide. Scorre le ventose sul timballo. Anche se le impronte del pachiderma sono brasate dall’acido, l’oggetto si attiva, emanando un bagliore lugubre. Ecco, ecce, homo, sembra dirsi in un sussurro, il colosso. Un suono di ghiaccio che si frantuma, Alaska in un bicchiere ricolmo di bourbon, spaventa la ragazza. Si alza, lei, non lui, ma lei, si alza, di scatto dal nastro, cercando un’arma che non ha. Due androidi paralimpici entrano di corsa nella stanza. È fortunata, sembra. Prenderanno lei, niente colpo sulla capa.  Fusillo (questo il nome del pachiderma, nel caso ci fosse bisogno di ripeterlo) fissa il cilindro con aria svogliata, la festa è finita, andate in pace. Lo scaglia o lo appoggia in modo da essere avvolto dal raggio che emana. La luce cobalto gli dona, ringiovanendo i lineamenti opalescenti. Alza la zampa con le unghie spesse, che affondarono nella tundra, per cercare il rispetto degli antichi Mammut, quella zampa con tatuato l’autografo del cantante dei Pulp, che è anche il suo calciatore preferito, usata per accarezzare il metallo dell’arma. «La tua storia scotta come pastasciutta al sugo di noci, tenente Suzuki. Ti sei fregata con le tue mani. Ti assicuro che non ti conviene giocare, o ci divertiremo a darti in pasto a quei creativi che teniamo al J.F. Kagemusha a comporre spot pubblicitari contro il regime, nei quali pranziamo su qualsiasi invenzione della Givenchy, a pancarré e sashimi di sceriffo, per quindici lustri standard, per ogni lustro cinque battaglie di prosecco. Tu sai bene come funziona, o almeno lo sapevi fino a qualche tempo fa. Il fatto di essere figlia di due madri geneticamente lubrificate non ti salverà dal tribunale della Regina Himika e dalla banda dei quattro rigatoni Star, in qualsivoglia masseria di Hokkaido. Remember me, remember you!». La voce baritonale di Fusillo è parsa tonante alla giovincella, ma la chiusura delle porte dietro di lei, che i due androidi zoppicanti hanno prelevato dal nastro trasportatore per sigillara la stanza, trancia il discorso del mammifero tentacolare, che altro non stava facendo che citare, millimetro dopo millimetro, una tormentone estivo dello Utah. Il corridoio è buio, il suono delle pinne ovattato: ciak, ciak, ciak: expat! La vista della ragazza, dell’essere femminile se preferite, si abitua in fretta. Da quando le hanno strappato le lenti i suoi occhi vagano ininterrottamente, rigenerando velocissimamente e instancabilmente le innate proprietà adattative. Il corpo squamoso e iridescente, come lei stessa lo avrebbe definito, se le fosse stata data la possibilità di aprire bocca durante il secondo e ultimo interrogatorio fiume, con il caporalmaggiore Elephantman Fusillo, la proboscide assassina, segue i due manigoldi dalle sembianze umanoidi, che inciampano, sbatacchiando contro i muri. La mente della ragazza, però, è ancora in quel bar.

«È così che mi disse il presidente Nigiri: “Il futuro della nazione è sulle spalle di uomini come lei”».

Il nativo rise della propria battuta, irrorando le narici della ragazza di un alito misto di bourbon e nicotina, che non riusciva a celare il pesante olezzo di sangue gengivale, causato senza dubbio dalla visibile presenza di tartaro, nella bocca dell’essere inferiore. Ella trovò quell’afrore, se non immediatamente eccitante, in minima parte attraente. Sentiva un liquido più denso mescolarsi ai flussi oceanici, un liquido che poteva scorgere sotto al pavimento lucido del bar. Vuotò il vodkatini, eccitata come non mai, in preda a correnti ataviche, e senza altri pensieri se non quello di dare ai suoi fluidi il meritato riposo e un lauto premio, sussurrò poi nell’orecchio del buffone: «Riesci a trombare, dominandola, una della mia razza o hai bevuto troppo?».

Un nuovo rumore come di ghiaccio frantumato, di Alaska in una dolce nebbia di Amontillado, anticipa l’apertura della porta e la luce alogena le serra di botto le palpebre. Blink! Quando le riapre vede quella che aveva conosciuto con il nome di Psicoterapeuta rivestirsi, ingrato premio. Non può non notare le dodici mammelle, immense e ritte, distratte e frante, frutto di un’obsolescente tecnica di chirurgia plastica in voga più di un secolo prima nella zona dei sottosviluppati. Sa che la Psicoterapeuta aveva lavorato lì a inizio carriera, conducendo una serie di esperimenti che le valsero la menzione speciale all’annuale concorso Uramaki d’Oro. Menzione che non si tramutò mai nel premio vero e proprio. E che la Psicoterapeuta, visto come andarono le cose, valutò come la svolta peggiore della sua carriera.

«Dannazione, Suzuki! Sei in anticipo. Non mi piace essere interrotta sul più bello. Blocca il flusso dei fluidi che dall’intestino partono in perfetta funzione preordinatrice per distendere le rughe che rompono il mazzo, sul mio viso da adolescente e sinuosa siniscalca». Il cadavere aperto del sottosviluppato sul tavolo da lavoro fa intuire alla ragazza che la Psicoterapeuta se ne stesse cibando. Una pratica vietata da tempo, vietata per modo di dire, vietata per il popolo, sì, ma non per le élite, e un’ufficiale come la Psicoterapeuta poteva, ovviamente, sbattersene: nessuno avrebbe fatto la spia, tanto meno la ragazza ridotta a rispondere di accuse infamanti, e che, anche se ora come ora non se ne avvedeva, di nativi e sottosviluppati ne aveva trangugiati parecchi. «Che fai lì impalata, Kaede Suzuki? Muovi la tua ridicola pellaccia, allacciami dietro. Queste malefiche mammelle sono più dannose delle notti magiche aspettando un gol e sono poco meno di dodicimila miliardi di capezzoli a cui dar da mangiare, perché possano servire a qualcosa, ad esempio a nutrire il popolo. Lo sai o non lo sai da quanto tempo non vengo munta come Zio comanda? Sniff, sniff. Puzzi di nicotina: santa polenta! È contagiosa. Dovresti smetterla subito, prima di rovinare il gusto delle tue di mammelle. Il latte è tutto, in questo mondo sommerso».

Il nativo del bar, dopo aver fatto cilecca un par di volte, su un centinaio di tentativi andati comunque a male, stava cercando delle giustificazioni al mancato confluire di sangue nello smunto, scheletrico e pustoloso membro. Agitava le mani, scalciava come un cavallo pazzo, povero cucciolo! Il lezzo del suo fiato aveva perso ogni nota intrigante, invadeva la stanza, e la ragazza aveva l’impressione che potesse sbriciolare ogni centimetro della carta da parati vintage. La mente della ragazza gli chiese se avesse della vodka in casa e il nativo disse che in freezer aveva un paio di bottiglie “per le occasioni speciali”. Nuda, la nostra bellissima e silente eroina, se ne sgusciò in cucina, e dopo aver aperto una delle bottiglie “speciali”, se ne vuotò parecchi bicchieri: Glu, glu… glu glu glu!

«Non dovresti bere così, alla tua età».

«Non dovresti essere impotente, alla tua».

Lo schiaffo non raggiunse mai il muso della ragazza. I denti di lei già dilaniavano il volto di lui. Non capiva perché quelli della sua razza in passato si limitassero a ciucciare il midollo di questi zucconi, saccenti e succulenti esseri inferiori. Pensiamoci un attimo. Da dove nasceva questo sentimento di pietà che aveva avvinto le ultime generazioni della sua specie? Loro erano menti e corpi superiori, per forza e intelligenza, avevano tutto il diritto di nutrirsi di altri esseri, per lo più così chiaramente inferiori. O di farci quel che volevano. Vero è che c’erano delle controindicazioni. Staccò quindi uno zigomo, godendo dello shock anafilattico della vittima, che emise un urlo strozzato, che si ripeté strombazzando giù per le scale e l’ascensore, prima di strappargli di netto la lingua. Una lingua calda e salivosa era considerata ancora una vera e propria prelibatezza. Specie se sorretta da un così povero linguaggio. La mente della ragazza, in un impeto di ludibrio, vuotò la vescica sulla moquette della cucina. Quando si riebbe i resti dell’uomo giacevano tra il sangue e l’urina. Il quartiere era buono, le prede facili, l’affitto basso. Aveva segnato il territorio. Quella sarebbe diventata la sua tana, il quartier generale per futuri assalti alle prede. Ingollò quello che rimaneva del nativo in un inopinato gesto di puro amore. Tutto si poteva dire di lei, ma non che non fosse anche un’artista del burlesque.

«La vodka ti ucciderà» dice la Psicoterapeuta, dopo aver gustato la storia nella mente di Suzuki. La ragazza con lo sguardo fisso a terra si limita ad annuire. Quella che risponde al nome di Psicoterapeuta, prende il papiro in vinilpelle con incisi caratteri cirillici, spurgato per posta pneumatica, dalla fessura sotto il tavolo operatorio.

«Suzuki Combinaguai, nome di battesimo Kaede, numero di targa 4347A, nata ad Albuquerque, UASSAF, da Suzuki Combinaguai, nome di battesimo Kaori, targa 4345G e da Suzuki Combinaguai, nome di battesimo Kimiko, targa 4343A. Pessima studentessa, pessima soldatessa, pessimo agente. Si parla di te, vedi? E te, a quanto leggo, non hai questo grande curriculum».

La ragazza si limita a succhiarsi un dente che ha preso a pizzicarle. Trattiene l’impulso di ficcarsi l’unghia in bocca e staccare quel qualcosina bloccato tra le gengive. La Psicoterapeuta fa una palla del papiro e la getta nel grande secchio dove tutto sprofonda, di fianco al tavolo dove il cadavere del sottosviluppato giace inerme. «Sapresti recuperare il corpo della tua ultima vittima? Sapresti ritornare alla zona del delitto, laddove hai smarrito la mente? E smettila di succhiarti il dente. Sapresti fare un identikit del traditore sullo Shinkansen? Sapresti dirmi perché hai avuto paura di lui o del controllore? Sapresti dirmi se il controllore era un sottosviluppato o un traditore travestito? Quando hai ovulato per l’ultima volta? Parla, vacca senza lattosio, esprimi in parole semplici la tua posizione, prima che le mie dodicimila mammelle ritte tutte rifatte esplodano in un florilegio di latte scremato!». Senza aspettare la risposta, la Psicoterapeuta si sporge sul cadavere, facendo segno alla ragazza di affiancarla. La cassa toracica è spalancata, gli organi in bella vista, prelibatezze dall’afflato artico, ideali pietanze se cotte su misura e annaffiate da uno Chateau de Chateaubriand n°5. La ragazza sente il fluire dei liquidi, il calore nel volto, una fame liquefatta avanzare indefessa. «Ti stai eccitando, vero? Come una vecchia papessa! Un piatto unico, che non puoi poppare in qualsiasi battello aeroportuale».

La mente di Suzuki, o se preferite di Kaede Combinaguai, è  ancora in attesa nell’appartamento, ma sta invecchiando. Ogni secondo passato lontano dal corpo, quello che succhia il dente nella sala operatoria della Psicoterapeuta per intenderci, corrisponde a un anno di vita nella realtà della mente, un anno di vita nella discografia dei Kraftwerk: Radioactivity, Remaster 2009. Può vedere le squame ingiallire, rosicchiare tutto ciò che è commestibile, persino parte dei mobili, le lenzuola, le piume dei cuscini.

«Sveglia, non hai tempo». Sbam!

La voce della Psicoterapeuta non basta a riportarla nel presente del corpo. Con un gesto brusco la dottoressa la getta a terra, colpendola con un calcio nelle branchie. «L’hai persa, Suzuki! Hai perso il suo amore. L’hai ferita, Rachel Weisz! L’hai messa in ridicolo e l’hai lasciata morire, proprio quando aveva bisogno di te. Fattene una ragione. L’hai persa nella discarica. Al bar, ubriaca marcia. A casa del primo che passava. Non ha senso rimuginare. È tardi, rassegnati. Rasserenati! Non possiamo curarti, non posso salvarti. Faccio venire qualcuno a prelevarti!». Non sente dolore, è stanca. Potrebbe dormire, se capisse come riunirsi alla mente. Lì, sdraiata, senza forze, ripensa allo Shinkansen, alla campagna arrugginita, alla banchina dove tra traditori, nativi e sottosviluppati si era sentita spenta. Chi aveva cancellato la sua storia? O la storia era solo un parto della mente e si trovava decrepita nell’appartamento del nativo che aveva squarciato e scorticato? C’era un’altra ragazza sulla banchina o era sempre lei? Una proboscide che si insinua tra le gambe, direzione clitoride, per un’esplosione di funghi e cotiche mantecate. Chi aveva perso chi?

Boh.

Uno Sfigato con uno strambo paio di occhiali è in piedi, dove prima si trovava la Psicoterapeuta. Fissa un cyberdeck che gli illumina i bulbi di lilla.

Torna al bar, Kaede, all’uomo che puzzava di bourbon e sangue, Suzuki mia, alla strada tra il bar e la stazione, dolcissima Combinaguai, torna alla città dei sottosviluppati, torna ai traditori. C’era un traditore nella tua famiglia e sei andata a cercarlo? Andiamo con ordine, farò in modo che in questo paragrafo tu possa ragionare con calma olimpionica. Per chi lavorava? La ragazza ti fissava negli occhi, li avevate dello stesso colore, erano di un blu inquieto. L’altra ragazza, Quella Alta. Studiava arte e letteratura. Nella capitale. Quando è stata arruolata Quella Alta? Quando? Prova a chiudere i tuoi occhi da rospo. Apri le narici, respira. Torna indietro, alla sua ascella marinata. Inspira. Piena di bolle di rugiada, che discendono, un pelo dopo l’altro, un Badedas, un Neutro Roberts, un Malizia, profumo d’intesa. Espira. Uno spogliatoio di una squadra di pallavolo femminile. Vi state cambiando. Tutte con la canotta bianca, tutte con gli slippini bianchi. Qualcuna ha macchiato di giallo la mutanda, o di rosso o di marrone? Il pelo che s’intravede. Ti prudeva il sederino? Sei risalita dal water in bagno, partendo da uno stagno. Malefica ranocchia in cerca di grazia e pertugi, per poter esprimere la tua unica e immonda unicità. Hai trattenuto il respiro, la diarrea, e pare che le altre non abbiano notato la tua pelle verde, la tua scontrosa nudità.

«Risponda alle domande con un sì o con un no. Lei si chiama Kaede Suzuki Combinaguai 4347A?». Per la prima volta dall’inizio del racconto, sente estraneo quel nome. «Ha mai spacciato ioni di cianuro, acido prussianico o respirazione cellulare tra i nativi e nei territori non governativi? Ha mai promosso la felicità, l’autoguarigione, i picchi ormonali tra i fuoriusciti del California Roll? (pausa, agli Sfigati piacciono le pause dense di significato) Mi ha sentito? Avverte l’intensità e l’immenso power, su una scala da 1 a 10, della mia presenza fisica?».

Prima che se ne renda conto, lo Sfigato giace con il cyberdeck conficcato nel cranio e uno sguardo da bullone sotto gli occhiali. L’enorme lingua verde, tipica della sua razza, giace a terra tra gli schizzi di pus, eruttati dai globi auricolari. Chiude gli occhi, trae un profondo respiro. Odore di mandorla, di Malizia, aroma d’intesa. Il profumo delle ascelle dell’altra ragazza, Quella Alta. Cos’è una mandorla? È uno spazio interstellare tra un orgasmo e una proboscide. Ribaltato al femminile, lo spazio tra una clitoride e la stazione radio di Madame Curie. Un tempo quella parola aveva un significato. Di nuovo il rumore di ghiaccio che si frantuma, di un terremoto che sfonda l’Alaska e i carri armati di Vladimir Vladimirovich. La Psicoterapeuta entra con un matusa. È vestita con un abito svasato in cuoio, dettagli in rilievo. L’uomo indossa un trench sciancrato, pantaloni forati e capelli grigi. La ragazza sa che l’uomo risponde al nome di Nonno. Nonno Bastardo, ma questo lo sappiamo solo noi, che seduti in questa camera iperbarica, assistiamo alla proiezione. Nessuno fa caso al cadavere dello Sfigato, che ha cominciato a liquefarsi.

«Lei se ne viene con me,» sospira Nonno «ho già speso una fortuna e non ho visto risultati. Vi farò una pessima pubblicità».

La ragazza è in strada con Nonno, si copre gli occhi. L’insopprimibile luce del giorno, in quel pianeta dove loro sono ospiti sgraditi, è una certezza alla quale non si è mai abituata.

Nonno la infilza con un paio di lenti da sole, che le stanno larghe. Ahi! Fa’ piano, vecchio cazzone di merda!

Salgono su una Mitsubishi Benz che la ragazza giudica dello stesso colore di Nonno.

«Branco di calamari» bofonchia Nonno, serio, facendola sedere dietro.

La macchina puzza, cacca di cavallo, cappella di studente che non scopa e non si lava mai il glande.

Ripensa alla banchina, all’attesa, allo Shinkansen. A Quella Alta. Si ritrova in un campo. Corre. Sente di essere inebriata. Si volta, non vede nessuno. In lontananza una figura ondeggia verso di lei. Ha paura, estrae un phaser, anche se sa che li ha dimenticati sullo Shinkansen. La fantasia è un’arma invincibile, crede. Aspetta che la figura sia vicina. E spara. Ha una buona mira, ma i colpi non fermano la minaccia. Getta l’arma. Scappa. Braci, rottami. Inciampa. Cade, batte la faccia. E poi la coda. Sente dei passi che si avvicinano. Chiude gli occhi.

Fusillo è davanti a lei. Barrisce con fiato anonimo, caldo e note amare. Il magnetofono è spento, il videoregistratore pure. Come sa che è un dottore? Ha un camice color arancione e antracite, che gli lascia libere le proboscidi. Ne ha più di una, senza contare quella tra le gambe. Nessun odore di mandorla. Nessun odore di sedere di cane, di quelli che faticano tanto ad annusarsi, ingarbugliando i guinzagli degli astanti. Qualcosa nel vuoto della mente le suggerisce che i veri dottori odorano di culo di cane. Ma lui no, anche se gli elefanti si annusano il culo, tendono a non ingarbugliare i guinzagli. No, non può essere un vero dottore. È Fusillo, uno sbirro da strapazzo, che esegue malvolentieri un compito ingrato, un elefantone lettone fuggito da un circo interplanetario e riciclato come addetto allo spionaggio industriale e alla tortura dei dissidenti.

Quella Alta era una sua amica. Avevano fatto un lungo viaggio. Le aspettavano in una scatola. Lì avrebbero dovuto finire il lavoro. Prima di essere intercettate. Ed è proprio nel momento della rivelazione, quando colpita dai raggi capisce che ogni scuola è una discarica, che il pachiderma si intromette.

«Ricapitolando,» la voce di Fusillo è flebile come l’epidermide delle sue ventose «abbiamo trovato un osso pelvico, passaporti falsi, uno zaino contenente quelli che sembrano essere due Panasonic di secoli fa, una costola. Una fotocamera Nikon. Vecchie pesetas. Ti rifaccio la domanda: è stata legittima difesa o vuoi appellarti al quinto emendamento?».

La ragazza non risponde. La rivelazione è svanita. Sa che lo zainetto blu era di Quella Alta.

«Povera Suzuki, sei fortunata che il tuo profilo genetico non sia stato individuato tra gli oggetti. Abbiamo motivo di credere che tu fossi una delle tredici traditrici travestite viste precipitare nella discarica. E in qualche modo scopriremo la verità. Assimila, Suzuki: le parole sono aria fritta e noi possiamo friggere l’aria. E friggere una ciabatta come te non è mai stato, e non sarà mai, uno spreco di tempo o un compito ingrato».

Di nuovo rumore di ghiaccio frantumato.

La ragazza è al bar. Il bicchiere in mano ha dentro vodka, limone, ghiaccio e uno strano roditore che nella lingua dei nativi si chiama Topinambur.

Beve l’ultimo sorso. Una fitta allo stomaco le provoca un senso di nausea. Ignora l’uomo che cerca un approccio. E che ucciderebbe se le cose proseguissero come spera lui e come lei ha previsto.

Esce. Il sole tramonta. A che ora ha appuntamento con la Psicoterapeuta per la cura? Il cervello le dà noia, e la cisti dietro la nuca non è un bel sentire. Il sole di quel piccolo pianeta le rovina le squame. Da quando si è trasferita sembra invecchiata di decenni. Eppure ama quel pianeta dove un tempo erano predatori e ora sono ospiti indesiderati. Che banalità questo tramonto, pensa. Che giorno è oggi? Non lo sa, ma sa che è un giorno di terapia. Un giorno difficile. Tutti i giorni sono giorni di terapia. Tutti i giorni sono giorni difficili. Se almeno qualcosa dentro di lei funzionasse a dovere, come un tempo. Ma è questo che fa il tempo: ti rompe in mille pezzi diversi. È stato un caldo giorno di maggio. La grande palla rossa si adagia nel pozzo gravitazionale, all’ombra delle correnti intossicanti e dei monoliti in fiore. E il crepuscolo non è che il riflesso delle vetrate, nelle navi abbandonate negli scarichi urbani di quello che un tempo i nativi chiamavano Ohio.


YGRAMUL è una rubrica curata da Vargas.
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