Testo di Serena Majulli
Immagini di Paul Klee (Phantom perspective)
Iniziò come una svagatezza, un sentirsi in balia di spostamenti d’aria che le frusciavano tra i piedi quando stava in classe, o a vaporizzare le piante al davanzale della cucina, o a cambiare la flebo alla vecchia appisolata in poltrona nell’attesa dell’arrivo della badante notturna. Altre volte le procurava un brivido alle gambe mentre guidava, come se un buco della carrozzeria richiamasse aria fredda tra il pedale del freno e quello della frizione; eppure i bocchettoni dell’aria erano serrati perché sempre la vecchia nei trasporti si lamentava della corrente che ti schianta, e pareva che tutti i dolori dell’età e della malattia glieli avesse in un solo istante causati la corrente. Giusto il tempo di richiamare ossigeno dal finestrino appena abbassato e chiudi che c’è corrente, la vecchia riusciva a pronunciare con chiarezza feroce. Così l’auto procedeva dall’ospedale a casa da casa all’ospedale, perfettamente sigillata, e il buco tra i pedali non c’era, lo aveva detto il carrozziere.
Iniziò che quasi non se ne accorse, non fosse stato per il sollievo istantaneo della frescura che l’accarezzava. Non fosse stato che si aspettava vampate di calore da un mese all’altro, da un giorno all’altro, perché i seni e i fianchi si erano arresi da tempo a ogni forma di curiosità, di desiderio tonificante, e pareva puntassero a raggiungere il suolo mentre le trame di grinze sulla pelle del collo si infittivano ogni inverno. Poi c’erano le miriadi di efelidi comparse a segnarle l’età sul dorso delle mani e sugli zigomi, che tutti chiamavano macchie e lei invece efelidi, per evocare la benedizione di una tenerezza infantile sulle proprie mani e scongiurare odori di urina, occhi secchi e cattivi, biascicare pensieri tra parole sdentate. Insomma normalmente non avrebbe badato a tutta quella frescura e avrebbe goduto dei pochi istanti di leggerezza che precedevano la corrente, come aveva iniziato a chiamarla.
Se nelle prime due settimane la corrente durava poco, e poteva confondersi con l’eccitazione che la animava per l’imminenza di un incontro con lui, dalla terza notò che le correnti si attardavano e tornavano numerose, a intervalli irregolari. Quando le sentiva avvicinarsi lei si fermava, si concedeva un bel respiro a occhi chiusi e le ascoltavasalire dai piedi alla punta dei capelli. Per trarne maggiore godimento aveva preso a pensare a lui appena le si rizzavano i peli delle gambe, segno inequivocabile di un’imminente scossa: pregustava il momento in cui, finalmente liberata dall’ultimo cambio della sera, avrebbe dato istruzioni a chi doveva trascorrere la notte con i rantoli della vecchia e i suoi continui tentativi di buttarsi giù dal letto e i pianti e gli ululati. Non si chiedeva più come avesse potuto sopportare tutta quella disperazione senza di lui: ora che c’era la corrente a percorrerla e vivificarle l’attesa tra un amplesso e l’altro, restava in ascolto e infilava le incombenze della giornata come sulla lista della spesa. Quasi le dispiaceva andare dal medico e accertarsi dell’origine del fenomeno, casomai fosse stato un qualcosa da cui bisognava guarire, ma insomma la vecchia glielo avrebbe imposto ne avesse avuto la lucidità e, oltre ai miliardi di cellule epiteliali che quella perdeva squamandosi di giorno in giorno e disperdeva invisibili per la casa, a lei toccava pur sempre l’assicurazione di famiglia della vecchia, e di evitare i mesi di attesa per rx toracica, ecocardio, esami del sangue, tutto in day hospital, clinica privata, con le polpette e il purè nel vassoio di plastica servite a letto. Se li era fatti prescrivere e ci aveva perso una giornata con l’eccitazione che altri avrebbero dedicato a dodici ore di trattamenti in una spa: si era goduta gli scarrozzanti per i reparti sul lettino con le sbarre o in sedia a rotelle, gli sguardi comprensivi e pietosi della medica e dei tecnici radiologici, gli infermieri gentili per aiutarla ad alzarsi, ad andare in bagno se ne aveva bisogno; bastava che chiamasse perché c’era un pulsante per tutto, per il letto per la tv per ricevere un sorriso e poi scusi ho sbagliato pulsante; infine aveva provato tutti i distributori automatici di bibite in ogni corridoio, e i vassoi del pranzo e della cena si era goduta, quello suo e della vicina di letto che rifiutava il cibo ospedaliero e la guardava mangiare con un misto di curiosità e ripugnanza. A parte il sibilo al petto, le correnti non si erano manifestate e la giornata era trascorsa deliziosamente: una volta rientrata a casa, spuntata dalla lista della spesa la voce ‘accertamenti medici’, lei non ci aveva pensato più.
Dalla quarta settimana lecorrenti si fecero sonore: non avrebbe saputo descriverne la qualità del rumore né la provenienza ma era certa che il suo udito, così come i peli su tutto il corpo, e i timpani, e specialmente il destro, entrassero in risonanza con il fenomeno. La cosa si risolveva in una specie di fruscio interiore destro, una via di mezzo tra pulsare e sfregare. Anche del suono delle correnti per un po’ aveva dubitato, per via delle tante notti e giornate a sentire la vecchia ulularle in casa, a corromperle il silenzio, a costringerla ai tappi e alle cuffie, ma quei lamenti riuscivano a infiltrarsi sempre tra i pensieri, a distrarla durante la preparazione delle lezioni o del brodo o dell’ennesima terapia. E anche a causa di lui aveva dubitato dell’esistenza del suono dicorrente, per come le rantolava sul collo quando non la lasciava nemmeno salire in casa, correva ad aprirle la portiera e l’afferrava per le mani, la spingeva sul cofano della macchina e non c’era verso di farlo stare zitto, che più lei gli diceva piano, non qui, ci vedono! Piano che ci sentono!, più lui si eccitava e urlava mordendola, come fanno gli animali che si accoppiano tenendosi per la collottola. Allora tanto valeva godersi quei rantoli e i cinque minuti di sordità che accompagnavano l’orgasmo. Quanti anni ci erano voluti per trovare un esemplare simile? Cinquantatré a settembre. Cinquantatré anni senza conoscere il piacere di una monta come si deve, di un uomo che sapesse cosa farne di tutto quel suo corpo che era sempre stato tanto, troppo, fuori misura e fuori luogo. Che poi dalla vecchia come aveva fatto a venire fuori una come lei? Persino il ginecologo lo aveva affermato stupito, ed era stato uno degli aneddoti preferiti della vecchia per i compleanni, per i pranzi e le cene di famiglia finché, grazie a un dio impietoso, quella aveva preso a farsi cadere i denti e a sputare la dentiera e a biascicare tutto tranne qualche maledizione e suppliche sull’eccesso di corrente: così i complimenti del primario alla vecchia, su come fosse riuscita a non squartarsi partorendo una neonata di quelle dimensioni, erano ormai solo un ricordo.
Tutti minuti, tutti secchi, tutti neri in famiglia, tranne lei.
Il sibilo nel petto era comparso la quinta settimana, e si era manifestato intermittente e sempre più sonoro, insieme agli accessi di corrente, e lei aveva sentito il bisogno di chiederne riscontro a qualche amica a cui aveva fatto visita: lo senti anche tu questo fruscio? Come se fosse una zanzara vicino all’orecchio destro ma anziché da fuori proviene da qui dentro, e si indicava il petto con l’indice – sterno avrebbe detto la vecchia, è lo sterno che ti duole, tra il manubrio e il corpo xifoideo – e a lei veniva da sorridere pensando a quanto avrebbe sputato ora, la vecchia, se anche ne avesse avuto la lucidità, a pronunciare sentenze anatomiche e diagnosi. E per caso l’amica non sentiva nemmeno un certo fruscio di aria fresca tra i piedi? Chiedeva lei mentre teneva ancora il dito puntato al petto; ma l’amica non percepiva il fenomeno e anzi pareva in imbarazzo e guardava il dito come fosse stato un’incrostazione fecale sul bordo del bidet. A quel punto l’amica di turno abbozzava discorsi sulla solitudine, sul fatto che insomma dopo i cinquant’anni si è ancora giovani, e perché affrontare tutto da sola, perché non cercarsi un compagno, farsi aiutare, prendere un cane, chiamare i figli… I discorsi con le amiche, dopo le domande di rito sulle le correnti, prendevano quella piega lì, così al terzo tentativo si arrese a considerare i suoni e gli spostamenti d’aria un fenomeno unicamente suo, una forma eccezionale e rara di anti-menopausa;forse la vecchia l’avrebbe chiamata così.
Si disse che avrebbe ritirato l’esito degli esami, un giorno o l’altro, e non perse più tempo andando a visitare le amiche.
Dalla sesta settimana, parallelamente alle correnti ai peli al suono all’orecchio destro al sibilo nel petto, anche se non ne coglieva il nesso, gli incontri con lui crebbero per quantità e qualità mentre il quotidiano, fatto di lavoro accudimento della vecchia pasti pulizie e cura delle piante ai davanzali, le procurava ora una noia che solo a pensarci montava in fastidio crescente e si placava negli accessi di corrente o negli incontri con lui o in stoviglie lanciate a terra, con voluttà, tra sbuffi di rabbia feroce e scintille di ceramiche a esplodere per la cucina, e imprecazioni così gustose da pronunciare ad alta voce che lei aveva preso ad annotarle, per assaporarle poi in sequenze interminabili, come perle di un rosario da sussurrare alle orecchie della vecchia, meglio se colta d’improvviso, nell’angolo della casa in cui stava parcheggiata.
Dalla settimana successiva, per arginare la noia e conservare ancora qualche piatto del servizio buono, lei aveva preso a dedicarsi a organizzare le giornate e i principi nutritivi dei pasti in funzione dei momenti di piacere: aveva rielaborato le centinaia di diete che la vecchia le aveva propinato per tutta l’esistenza, e che ora usava come carta di recupero per prepararci le lezioni o come carta da culo da quando aveva smesso di comprare cose inutili come la carta igienica, inutile come gli imbellettamenti linguistici che la vecchia le aveva imposto per una vita intera e che non avevano più ragion d’essere, e allora carta da culo lei andava a bisbigliare all’orecchio della vecchia, e giù con una rosario di imprecazioni, per godersi poi il sussulto di sdegno e il ringhio gorgogliante che quella produceva sgranando gli occhi, salivando e ansimando. Altre volte lei sorprendeva la vecchia con toni pacati in cui le serviva informazioni su pasti e medicinali, sui turni di assistenza, impreziosite di elencazioni suggestive, rosari di parti anatomiche da tempo dimenticate sotto strati di indumenti, e azioni comuni quali pisciare cagare scopare succhiare e fottere; più la vecchia ansimava e si contorceva, più lei rideva di gusto e arricchiva e impreziosiva il rosario. Insomma tra una preghiera e un incontro con lui, le notti passate a consultare i manuali nella biblioteca della vecchia per realizzare una combinazione di nutrienti che la rendessero prestante ed energica e, dopo tentativi e aggiustamenti, ridotto ogni apporto di carboidrati e sviluppata una sorta di dipendenza per proteine e trigliceridi, si era ritrovata incredibilmente lucida e vigorosa.
Tra la settima e l’ottava settimana la sua pelle si era fatta ambrata e lucente e lei non sapeva se attribuirne la causa agli attacchi di corrente, alla dieta, alle preghiere quotidiane con la vecchia, o all’appagamento di ogni anfratto convessità o superficie del suo corpo per la tardiva scoperta di un uomo in grado di contenere e accogliere tutto il desiderio che in una vita non si era concessa nemmeno di immaginare e che ora cercava con l’intensità della fame d’aria. E si malediva per aver passato anni a studiare, e in casa a leggere, e a fare le tante cose solitarie che le avevano impedito di conoscere il mondo, gli uomini, e lui. Doveva certamente essere così, come le avrebbero confermato gli esami appena si fosse ricordata di ritirarli: ovvero che la sua rinascita al desiderio era responsabile delle correnti, del loro perdurare, della carnagione olivastra e lucente, del sibilo al petto, dei fruscii al timpano destro, della crescita irsuta dei peli unita all’infittirsi dei capelli, che era normale diventassero bianchi e a lei invece nascevano neri in striature di ossidiana tra quelli castani.
Quando a scuola le colleghe iniziarono a fissarle la nuca senza dire nulla, e si ritraevano e distoglievano lo sguardo appena lei le notava, avrebbe voluto liberarsi di quel pasticcio di colori sulla sua testa ma fece l’errore di confidarsi con lui, e lui si infuriò all’ipotesi del taglio della chioma dicendo chissenefrega a me piacciono così: del resto lui amava afferrarla per i capelli come fossero state briglie con cui strattonarla, piegarla, tirarla su, inarcarla, per poi liberarle il collo e morderlo, ma solo alla fine, quando il momento del piacere era massimo e nel morso la sollevava ancorandosela al petto e strizzandole i seni. Gli piaceva che i capelli di lei celassero fino alla fine quella smania di morderla e di divorarla dal di dentro, dalla punta del membro fino alle viscere, per poi abitare il simulacro del corpo di lei, scavato, come fosse stata una seconda pelle. Di che cosa le avrebbe fatto, lui non faceva mistero e anzi glielo raccontava minuziosamente, con la perizia dell’edile incisa nelle mani grandi e ruvide, lavorate dal freddo e dalla fatica; anche questo a lei piaceva infinitamente, ovvero di essere ispirazione per pensieri che poche settimane prima l’avrebbero fatta svenire di vergogna e invece dimmelo, lo istigava, dimmelo cosa mi faresti. E lui rispondeva prodigo di ti prendo e ti scavo, ti spiano e ti monto, ti smonto e rimonto e poi ti apro, ti perforo ti trivello ti ribalto: era un’opera di sfondamento e di ricostruzione quella di lui, di un edificio dissestato e in rovina, come il corpo che lei si sentiva di indossare, e di ricostruzione di uno nuovo fatto di correnti frusciii e sibili, che forse erano il suono prodotto da organi e muscoli e tessuti mentre si ritemprano e rinascono nuovi al piacere più profondo.
Alla nona settimana, richiesto un periodo di aspettativa sul lavoro per non dover nascondere o tagliare i capelli che dal castano chiaro viravano al nero e si ispessivano come liane arboree, e per potersi dedicare a quell’opera di edificazione del suo nuovo corpo frusciante e lucente, per concedersi insomma di aprire varchi e erigere e sfondare e riempire e sibilare e frusciare rumorosamente e infaticabilmente, anche lei aveva preso a dire cose a quell’uomo smisurato, cose che mai si sarebbe sognata prima, per via della stazza di cui era colpevole sin dalle nascita e del senso di vergogna che l’assaliva appena una pulsione le annebbiava la vista o le procurava un brivido lungo la schiena: ma le correnti avevano spazzato ogni pudore. E così prendimi montami sollevami alzami, si ritrovava ad implorare durante gli amplessi; e poi di più, ancora più in alto, più dietro ma anche più davanti; dentro, più giù, più dentro, ma anche sopra, in mezzo, possibilmente in mezzo, attraversami. In tutto quel sollevare e perforare di lui, che si adoperava in ogni fibra per soddisfarla e per arrivare ad artigliarle i capelli frondosi e azzannarle il collo, ne veniva fuori una gran confusione di ululati e annodarsi di capelli e di grugniti misti a sibili e rantoli vibranti dai timpani e dal petto di lei. La vecchia, dalla stanza buia in cui ora stava sempre allettata, partecipava anch’essa al fragore prodotto dagli amanti, emettendo ululati e sputi di imprecazioni per qualche tempo e poi più nulla, silenzio: forse si era abituata ai rosari di imprecazioni e di liste anatomiche, a tutto quel sibilare e grugnire, o forse aveva urlato tanto da perdere l’uso delle corde vocali; finalmente, aveva pensato lei, e se l’era dimenticata.
Licenziata la badante da che la vecchia si era ammansita, date le chiavi dell’appartamento all’uomo perché potesse venire e andarsene a suo piacimento, dalla decima settimana lei staccò il campanello e non rispose più al telefono da cui qualcuno, persone diverse ma con la stessa gentilezza asettica, voleva comunicarle informazioni riservate sul suo stato di salute, le ricordava di ritirare certi esami e prenotarne altri con urgenza, insisteva perché prendesse appuntamenti, passasse almeno in clinica, acconsentisse all’invio di un’ambulanza. No, no, sempre no, avrebbe risposto lei. Se stava morendo la cosa non la interessava, si sentiva bene come mai in vita sua e tanto le bastava: che la signorina gentile del telefono lo dicesse pure ai medici che la volevano di nuovo in clinica. E avrebbe chiuso la conversazione. Se avesse avuto un po’ di tempo da dedicare ella voce nel telefono, avrebbe saputo di un seme di Lathyrus oleraceus germogliante nel suo polmone sinistro, e di un altro che cresceva all’interno del suo orecchio destro, cose già precedentemente documentate in medicina ma in due differenti persone e mai nello stesso paziente. Avrebbe compreso finalmente l’importanza e l’eccezionalità del suo caso: non le interessavano le interviste in televisione, gli articoli sui giornali, la notorietà? E la possibilità di inaugurare nuove forme di vita? E le potenzialità, tutte da indagare, di una commistione tra specie umana e vegetale? No? E neppure se i due metabolismi potessero integrarsi in qualche modo, e le scoperte che se ne potevano originare? Nemmeno questo le interessava? Ma insomma non aveva ereditato un briciolo dell’acume scientifico della madre, né di amore o compassione per l’umanità intera a cui toglieva la sperimentazione di nuove cure, di nuove sensazionali frontiere di indagine clinica, metabolica, o chissà cos’altro?! Insomma dovevano infine chiamare la polizia, costringerla con la forza in nome del superiore interesse scientifico? Questo ed altro certamente le avrebbero detto. Ma lei non lo seppe mai perché staccò il telefono, e la luce e quindi anche il gas.
L’acqua soltanto le occorreva, nebulizzata e a ciclo continuo, e lui la fece scorrere per la casa attraverso tubi di gomma che installò in amorevoli geometrie aeree e che dotò di migliaia di minuscoli fori, con tutta la perizia e la precisione di cui era capace: acqua nebulizzata a ciclo continuo e amplessi sempre più frequenti.
Lei viveva accampata al centro della grande sala ormai liberata dalla mobilia accatastata davanti alla porta della stanza della vecchia, e se ne stava per lo più distesa a terra a godere della luce filtrata dalla grande porta finestra del terrazzo e dei vapori acquei del suo soggiorno. Così trascorreva ore, o giornate intere, ad attendere l’arrivo di lui, in uno stato di dormiveglia nel quale le correnti e i sibili e i fruscii la visitavano ormai costantemente. E non è che dormisse perché i suoi sensi erano desti come mai prima, e anzi poteva udire il pompare rallentato del cuore, il fluire ritmico del sangue nelle ramificazioni venose dalla giugulare alla punta delle unghie lunghe e coriacee.
Dall’undicesima settimana le parve addirittura di sentire, tra un sibilo al petto e un fruscio all’orecchio destro, il crepitio prodotto dall’accelerata inesorabile crescita di capelli e peli, sempre più tenaci e legnosi.
Alla dodicesima settimana, anche la voce di lei cambiò e le invocazioni a lui, a prenderla ancora e ancora, venivano impartite con un tono così roco e vibrante da far impazzire l’uomo di desiderio e indurlo a tentare ciò su cui egli aveva fino a quel momento solo osato fantasticare: vivere con lei, su di lei, dentro di lei, notte e giorno, annodarsi a lei mediante gli spessi capelli, nutrirsi del liquore ferroso e odoroso di terra bagnata e foglie che la sua pelle liberava al minimo sfregamento o graffio.
Alla ventesima settimana il puzzo invase tutto lo stabile e, quando i vigili del fuoco sfondarono la porta, capirono che mai più avrebbero attraversato un bosco o sfiorato una pianta senza contorcersi e vomitare: un uomo avvizzito stava annodato ad un tronco i cui rami acuminati lo attraversavano e crescevano in ogni suo tessuto, tanto che era difficile capire dove iniziasse l’albero e dove l’uomo mummificato. Infine una brezza quasi impercettibile percorreva l’aria immota della stanza, pregna dei miasmi del cadavere di una vecchia che, rimossa una catasta di mobili, trovarono rinchiusa nella stanza da letto adiacente.
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