Agata Christie, incomprensioni di genere

Testo di Marco Malvestio e Stefano Serafini
Immagine di Edi Šelhaus

La pubblicazione del Meridiano Mondadori dedicato ad Agatha Christie è, una volta di più, un’occasione per riflettere sullo statuto culturale delle letteratura di genere in Italia – termine di comodo che copre una varietà di esperienze letterarie e autoriali diverse accomunate soltanto dalla loro collocazione editoriale in relazione al campo “ufficiale” o mainstream. Si tratta di un prodotto singolare, che celebra un secolo di presenza di Christie nel catalogo Mondadori, e la cui curatela è affidata dunque non a un critico ma a uno scrittore illustre, Antonio Moresco. Occorre puntualizzare subito che questa non è, in senso stretto, una recensione del Meridiano: il volume è troppo personale (una ‘edizione elettiva’, la chiama Moresco stesso), troppo poco in dialogo (ma deliberatamente più che per ignoranza) con la produzione su questa autrice, per essere davvero suscettibile a una lettura critica circostanziata. Allo stesso tempo, però, ci pare che le scelte di Moresco, per quanto personali e legate al suo percorso come scrittore, siano sintomatiche di un certo modo di leggere e discutere della letteratura di genere in Italia.

La selezione di Moresco è estremamente originale, e la traiettoria che costruisce nell’opera di Christie, tra racconti e romanzi meno noti, invita senz’altro i lettori a ripensare quello che credono di sapere sull’autrice, al di fuori del suo ritratto ufficiale e degli innumerevoli adattamenti divenuti così tanto patrimonio comune da sfociare a tratti nella parodia involontaria. E tuttavia questa originalità non è priva di problemi. La prima cosa su cui è inevitabile soffermarsi è il titolo di questo Meridiano, Fiabe gialle, una scelta decisamente marcata rispetto ai più generici Opere, Scritti, Romanzi, o Romanzi e racconti che affollano la collana. In un Paese in cui la letteratura di genere (o, come la chiamava e ancora la chiama certa critica, paraletteratura) è stata consistentemente marginalizzata, o ammessa nel discorso culturale ‘alto’ solo in una forma astratta e intellettuale, il termine “fiaba” non sembra casuale. Certo, Moresco lo usa in senso lato e senza rigidità definitorie (e in questo senso è una scelta che illumina forse più la poetica del curatore che quella dell’autrice), e lo estende a un grande numero di capolavori della letteratura occidentale, dalla Divina Commedia a Cime tempestose, da Le illusioni perdute a Il grande Gatsby (p. XXX). D’altra parte, il termine “fiaba” suggerisce in una certa misura un depotenziamento del giallo, quasi a voler dire che il lavoro di Christie non vada considerato in virtù del suo innegabile talento formale, quanto per quello che vi sta a monte, per un certo insondabile contenuto di verità sul mondo e sugli esseri umani. Se Moresco giustifica questa decisione enfatizzando la presenza dell’infanzia in Christie (presenza innegabile, ma forse non preponderante come suggerisce), sembra invece una scelta in linea con la tendenza di lunga durata di accettare la letteratura di genere solo quando questa cessa di esserlo, solo per quanto non vi appartiene. Come negli anni Sessanta e Settanta certi autori italiani “alti” scrivevano romanzi di fantascienza sottolineando però, talvolta già in quarta di copertina, che non si trattava affatto di fantascienza ma semmai di una sua ripresa intellettuale, così Moresco pare sentire il bisogno di dire al lettore del Meridiano che Christie non è affatto una semplice giallista, bensì una scrittrice di alta levatura, che parla a ben altre profondità dello spirito. Il che pare vero anche a noi – con la differenza però che questo non si verifica, nei romanzi di Christie, a dispetto della componente di genere, ma proprio in virtù di essa. Il portato tematico di E poi non rimase nessuno, le questioni su vendetta e giustizia che racchiude, non bastano da soli a fare il fascino del romanzo, il cui potere di impressionarci non dipende dalla scelta dei temi ma dal modo in cui sono intrinsecamente legati ai meccanismi della suspense e del mistero.

L’obiettivo di Antonio Moresco è quello di sottrarre Christie alla visione monolitica, e ben radicata in Italia, che la vede mera autrice di intrattenimento, capace di produrre un enorme numero di romanzi dal valore sia estetico sia ideologico essenzialmente insignificante. Il tentativo di riposizionare Christie all’interno dell’establishment letterario italiano tramite la ricerca ‘del sotterraneo spessore letterario e drammatico’ (p. LXXVII) dell’autrice inglese è supportato da una passione e un impegno del curatore che sono innegabili. Pare restare tuttavia l’insuperabile incapacità di confrontarsi con la letteratura di genere – e che, in questo caso, è la letteratura criminale (crime fiction) o, quando assume maggiormente le forme del giallo (detective fiction), si può chiamare letteratura d’investigazione. Invece di cercare un nuovo e produttivo modo per interrogare la letteratura criminale, un modo che non si scusi per, o non nasconda, la centralità delle forme generiche nel suo modellamento e costruzione, Moresco, come tanti altri prima di lui, sembra ridurre tutto al mortificante ‘questo autore dovrebbe essere preso sul serio perché non è solo e non è tanto uno scrittore di gialli’. Il romanzo criminale o d’investigazione è ridotto essenzialmente, ancora una volta, a un gioco cerebrale, arido, un involucro vuoto, il cui contenuto, se c’è, va cercato nel suo doppio fondo, apparentemente nascosto e introvabile: nella produzione, ‘ci sono’, dice emblematicamente Moresco, ‘romanzi e racconti dove quella che ho chiamato la scrittrice nascosta dentro un’altra scrittrice si sbarazza dell’involucro, della sapienza ludica e della dissimulazione e si mostra in modo più diretto, indifeso, e allora si comprende da quale duro nucleo di dolore e di male, da quale drammatica consapevolezza venga fuori l’opera di questa narratrice siamese, che cosa ci sia al fondo del suo inimitabile gioco’ (p. XX).

La scelta di una delle due foto sulla copertina del cofanetto, di Christie bambina (mentre sul retro appare da anziana), è pure interessante in questa prospettiva. L’immagine, voluta da Moresco, partecipa al campo semantico della fiaba (e fa così eco al titolo) e dell’infanzia, un tema su cui il curatore torna a più riprese nell’introduzione: si tratta dunque di un ulteriore tassello di un processo di ridefinizione dei confini del corpus della scrittrice e della sua ricezione. La foto di Christie, scattata a inizio secolo, ricorda i bambini inquietanti e spiritati di storie di fantasmi come Giro di vite di Henry James, rimarcando dunque la componente perturbante del lavoro dell’autrice che a Moresco sta a così a cuore, a discapito invece di quella gialla. Allo stesso tempo, però, si tratta di una scelta iconografica che pare suggerire, in una certa misura, un’infantilizzazione dell’autrice: quasi che l’unica alternativa alla Dama coronata dal successo fosse una versione ad agentività ridotta, ‘una bambina nascosta o imprigionata dentro un’adulta, che ci guarda negli occhi dal suo irraggiungibile fondo alieno, e che poi rimarrà incastonata come una perla dentro l’adulta’ (p. LXIV). Questa infantilizzazione, del resto, è coerente con l’interpretazione che offre Moresco quando parla di Christie come scrittrice metafisica, paragonata pure a sante e mistiche (p. XII) – mancando in altre parole di riconoscerle il suo gigantesco talento formale in favore di una conoscenza “assoluta” e “immediata” che viene fatta corrispondere alla sfera del femminile. 

Le scelte editoriali operate nel Meridiano sono rivelatorie. Gli unici due romanzi d’investigazione inseriti nel volume appartengono agli anni Quaranta – Sipario (1945, che uscirà però nel 1975) e Il rifugio (1946) – e sono entrambi lavori cupi e crepuscolari, che si allontanano dalle forme classiche del giallo. Gli altri sono un divertissement come Tre topolini ciechi (1948), un racconto di suspense (‘Il villino degli usignoli’, 1924), un racconto di fantasmi (‘La lanterna’, 1933), un romanzo gotico come E poi non rimane nessuno (1939), un dramma sulla famiglia, l’innocenza, l’infanzia e l’idea di futuro a seguito delle distruzioni portate dalla Seconda guerra mondiale come La casa sbilenca (1949), un romanzo tragico come La rosa e il tasso (1948), scritto sotto lo pseudonimo di Mary Westmacott, un noir feroce come Nella fine è il mio principio (1967), e infine un romanzo che è l’opposto (letteralmente) della storia d’investigazione, Verso l’ora zero (1944), concepito come una dettagliata analisi psicologica di un gruppo di personaggi senza apparenti legami che in ultima istanza si trova coinvolto in un delitto che ognuno, per motivi diversi, potrebbe aver commesso.

Colpisce, quindi, che la raccolta escluda categoricamente qualunque romanzo pubblicato negli anni d’oro di Christie e del racconto d’investigazione in generale, cioè gli anni Venti e Trenta – testi, evidentemente, reputati troppo convenzionali, non abbastanza complessi all’interno del panorama della letteratura modernista, tesa all’innovazione formale; testi composti per lettori pigri, che ‘non vogliono soffrire, non vogliono condividere il dolore dello scrittore’ (p. XX), ma sperano solo di essere intrattenuti e distratti dalle brutture del mondo. Eppure, tutta la narrativa di Christie, anche quella scintillante e apparentemente limpida del periodo interbellico, è centrata sulla trasgressione e sulla devianza, che prende, a volte nello stesso testo, forme molteplici, spesso contradditorie e ambivalenti. È difficile comprendere l’assenza, in un volume che vuole mostrare la grandezza di Christie come autrice, di un testo formalmente complesso e linguisticamente raffinato come L’assassinio di Roger Ackroyd (1926), votato nel 2013 come il più grande romanzo criminale di tutti i tempi dagli oltre 600 membri della Crime Writers’ Association (CWA) e che ha scomodato, grazie alla sua natura multiforme e ambigua, le analisi di teorici della letteratura come Tzvetan Todorov, Gérard Genette, Roland Barthes, Georges Perec – che prima di morire stava proprio ultimando un saggio su questo testo, del quale sono però apparsi estratti sulla rivista Littérature – e Pierre Bayard.

Non solo Roger Ackroyd, però. Tutta la narrativa di Christie, specialmente quella più marcatamente gialla, come ha spiegato in un recente volume il grande critico australiano Alistair Rolls (Agatha Christie and New Directions in Reading Detective Fiction. Narratology and Detective Criticism, Routledge, 2022), è fondata sul dubbio, l’ambiguità, sia tematica che formale. Nelle sue opere, Christie moltiplica i significati e le possibili conclusioni sino a suggerire la proliferazione di livelli di lettura, contribuendo così a decostruire dall’interno il paradigma del romanzo giallo – l’assolutezza della soluzione investigativa, il trionfo della giustizia, la restaurazione dell’ordine sociale e morale – minando di conseguenza la sua stessa leggibilità. La mancanza di Roger Ackroyd e di tutti i grandi romanzi degli anni Venti e Trenta è sintomo di imbarazzo nei confronti di ciò che gli italiani identificano come ‘giallo’ – un genere apparentemente (ma solo per chi non si è mai preso la briga di approfondirlo) formulaico, rassicurante e ideologicamente conservativo, associato esclusivamente alla Gran Bretagna del periodo interbellico e alla scrittura femminile. Che non esista una monografia in lingua italiana, seria e accademicamente rigorosa, su Christie, così come su altre grandi autrici britanniche del periodo tra le due guerre come Sayers, Marsh, Tey, e Allingham, è più che mai indicativo.

Due ulteriori considerazioni, per concludere. L’analisi dei testi, come succede quasi sempre in Italia quando si parla di letteratura criminale, è del tutto priva di riferimenti al contesto – letterario, sociale, storico, politico – in cui le opere stesse sono state concepite; e a ciò concorre anche l’adozione dell’etichetta di “fiaba”, con la presunta universalità che questa forma comporta e la sua astrazione, in termini di ambientazione e personaggi, da coordinate reali. Questo porta a sostenere che i personaggi di Christie si muovono in scenari ‘inattuali e desueti’, il che fornisce ‘una forza atemporale al suo gioco metafisico, alla sua meditazione sul dolore umano e sull’incombente presenza del male nel mondo’ (p. XXI). Dispiace che non venga riconosciuta a Christie la capacità di rappresentare vividamente e impietosamente le trasformazioni storiche, sociali e culturali di un mondo in continua mutazione e transizione; basti pensare al modo in cui descrive lo spaesamento di fronte al lento sgretolamento delle dinamiche e dei valori del villaggio inglese dopo la Seconda guerra mondiale in un capolavoro come Un delitto avrà luogo (1950). Non c’è proprio nulla di atemporale, di fiabesco, o di desueto negli ambienti descritti da Christie.

La seconda considerazione riguarda la propagazione di un errore che è sia storico sia filologico, del quale io stesso (Stefano) sono stato vittima anni fa. Moresco scrive, come ha fatto anche qualche mese fa Vanessa Roghi su Il Post, che ‘durante il fascismo, in alcune traduzioni italiane di Christie, come nel romanzo Se morisse mio marito, sono stati aggiunti di sana pianta brani contenenti stereotipi antisemiti assenti nei testi originali’ (LXXIV). Questo è semplicemente falso. Quel passaggio è realmente presente nella prima edizione dell’opera. Chi per primo ha proposto questa tesi ha evidentemente comparato una versione inglese – non la prima, dato che il romanzo, come tanti altri di questo periodo, esce originariamente a puntate in rivista – in cui il pezzo era già stato rimosso. Il rimaneggiamento dell’opera di Christie è un fenomeno ricchissimo, stratificato e vecchio quanto lei, ed è l’ennesima prova che il clamore destato qualche tempo fa da chi si indignava per la modifica di alcune parole offensive e la depurazione di alcuni passaggi problematici ha poca familiarità con la storia editoriale di questo tipo di testi.

Difficile, dunque, capire a chi si rivolga questo libro e quale sia il suo pubblico di riferimento. L’operazione di Moresco è ambiziosa e nobilissima, ma l’effetto finale non è probabilmente quello desiderato. Il volume non offre né una visione tentativamente comprensiva dell’opera di Christie, né getta luce su un singolo aspetto o tema o forma della sua narrativa. Ci vuole semplicemente mostrare che Christie, dopo tutto, non era una giallista. E dunque perché queste sarebbero Fiabe gialle se non sono né fiabe né gialle?


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2 Comments

  1. Ottimo saggio, che mette in luce la grandezza dell’artista Christie; e che i generi non esistono, ovvero sono catalogazioni per studenti. I libri si dividono fra quelli scritti bene e quelli scritti male, tutto qui, come diceva Nabokov, autore della fiaba gialla “Lolita”. Mi sembra che, pur con rispetto, gli autori mettano in luce anche i limiti di Moresco come intellettuale, almeno nella selezione del materiale e nell’interpretazione dello stesso. Oltre, forse, a un’incompetenza per il ruolo affidatogli: non si può, semplicemente, escludere L’assassinio di Roger Akroyd, e va studiata la vasta letteratura sulla Christie, benché, come scrivono gli autori, non italiana.

  2. In questa scelta di testi mi sorprende di più la totale assenza anche di un solo romanzo con Miss Marple, più di quella dei classici degli anni venti e trenta (comunque ristampati in infinite edizioni). Miss Marple era un personaggio che la Christie amava molto, più dello stesso Poirot, e almeno un suo romanzo andava inserito, secondo me.

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