Testo di David Erik Nelson
Traduzione di Martina Tiberti
Copertina di Susan Orlok
«Lissa?» urlò Seth, il marito di Melissa, dall’ingresso piastrellato dove stava lottando per togliersi la giacca Carhartt incrostata di cartongesso. «Che diavolo è un ‘Taco Burger’?»
Alla parola Taco Burger, il gozzo di Lissa sussultò così violentemente che lo sentì toccare i denti posteriori. Deglutì a fatica e replicò «Che ne so», per poi tamponarsi la faccia con un panno umido ed attraversare la porta della cucina. Si appoggiò allo stipite simulando una perfetta nonchalance. «Cioè, quando ero piccola il Kip’s Taco Burger era uno zozzone su Michigan Avenue, ma è chiuso da una vita. E non ho mai preso un taco burger. Kip era famoso per la pizza».
Molto di questo era vero: il Kip’s Taco Burger era stata una tavola calda su Michigan Ave. E sebbene Kip Arndtz – “Il Re della Pizza della contea di Jackson” – si fosse fatto conoscere per qualcosa di diverso, la pizza era stata senza dubbio la grande attrazione del Kip’s Taco Burger.
Ma tutto il resto era una menzogna totale: Lissa sapeva cos’era un taco burger, e ne aveva mangiati un bel po’, fino al giorno in cui Kip il Re della Pizza era stato arrestato e il ristorante messo sottochiave.
«Kip’s Taco Burger». Rimuginò Seth, lasciando cadere il sedere sulla panchina dell’ingresso per togliere i lacci dagli scarponi infangati. «Be’, comunque SherriLynn lo ha comprato».
Lissa non riuscì a trattenere il grido di sconforto che le sfuggì dalle labbra: «No!»
«Già». Seth sogghignò. «Presto si rimetterà in piedi e lascerà il nostro divano». Sbirciò dentro lo scarpone. «Dio, finalmente ci liberiamo di Seinfeld».
La sorellona di Seth – una donnina attaccabrighe, Florida Panhandle doc – era scesa la scorsa primavera da un Greyhound, stringendo una borsa da palestra viola rattoppata con del nastro adesivo. Quella borsa conteneva letteralmente tutti gli averi di SheriLynn: due paia di jeans, una felpa, T-shirts e intimo per una settimana, una borsa zip con l’etichetta IGIENE, un quaderno da college a righe larghe su cui annotava le medicine e il piano terapeutico, e per finire il cofanetto completo dei DVD di Seinfeld. SherriLynn insisteva per guardare un intero episodio di Seinfeld ogni notte, rigorosamente in ordine; aveva già ripercorso i dieci anni della serie due volte in un anno.
Di conseguenza, Lissa e Seth avevano visto ogni singolo episodio di Seinfeld, a cominciare da ‘Il nazista della zuppa’, fino alla fine e poi da capo. La domenica prima si erano sorbiti il ‘Il nazista della zuppa’ per la seconda volta, e SherriLynn aveva di nuovo urlato, «Niente zuppa per te!» così, di botto, per poi ridacchiare tra sé e sé.
«SherriLynn ha avuto una vita difficile…» aveva detto Seth a Lissa. Era marzo e aspettavano che l’autobus da Tallahassee arrivasse in stazione «… ma giuro su Dio che è totalmente inoffensiva».
Questa frase aveva colpito Lissa come una promessa inquietante, ma si era rivelata corretta. Dopo tutto non poteva dire che essere costretti a guardare un episodio di Seinfeld al giorno fosse una violenza perseguibile in qualche modo. Eppure SherriLynn era riuscita a imbattersi nell’unica cosa che Lissa non avrebbe mai, mai, mai voluto ricordare – e a cui dunque aveva pensato ogni giorno.
«Questo è… accidenti, questo è… un bel salto per lei… per chiunque! Firmare per un affitto…»
«Non ha affittato nulla» la corresse Seth, frugando inutilmente nel suo scarpone.
Lissa si calmò un po’. Gli immobili commerciali non erano la sua specialità, ma non ci voleva un genio degli affari per capire che nessuna banca locale avrebbe preso in considerazione il Kip’s Taco Burger, e che nessun istituto di credito in America avrebbe concesso un mutuo a una donna di mezza età sola, disoccupata, senza fissa dimora e con una storia di ricoveri psichiatrici forzati. Per di più, quel ristorante –in stato di abbandono da più di vent’anni – non avrebbe mai superato i controlli necessari.
«Sarò comunque felice di darle una mano…» aggiunse Lissa con entusiasmo, «… a sistemare tutti i dettagli, per le ispezioni, il mutuo, l’atto di proprietà; e non voglio percentuali, ovviamente…»
Seth stava già scuotendo la testa.
«No. L’affare è fatto. La segreteria telefonica dice che ha pagato tutto in contanti». La sorella maggiore di Seth odiava parlare al telefono, e così, navigando nel menù della segreteria telefonica, aveva trovato un sistema esoterico per lasciare messaggi senza far squillare l’apparecchio del ricevente.
Lissa restò immobile sulla porta. La bocca spalancata, e per un momento non riuscì nemmeno a respirare. Seth continuava a ispezionare lo scarpone.
«Come?» Finalmente Lissa riuscì a parlare. «Dorme nella…» Aveva quasi detto stanza del bambino. Ma quella stanza non era mai stata utilizzata come cameretta; il piccolo Seth Junior non era sopravvissuto al secondo trimestre. «… nella nostra stanza per gli ospiti», concluse Lissa. «Dove ha preso i soldi?»
Per catturare una luce migliore, Seth agitava lo scarpone e lo ruotava. «Sai quei Bitcoin di cui parlavano alla NPR?» le chiese.
Lissa se ne ricordava. La criptovaluta – un concetto che faticava ancora a comprendere– aveva mantenuto una quotazione di cento dollari a “moneta” per anni. Poi l’anno precedente era impennata verso le migliaia, raggiungendo il picco di ventimila intorno a Natale. Era come il Lotto Mega Millions, ma giocato solo da pirati informatici slavi e svitati come sua cognata.
«Sì, e allora?» incalzò Lissa.
«Be’, pare che SherryLynn ne avesse un po’». Seth strabuzzò gli occhi. «Eccoti qua!» disse, ed estrasse un cavo di scarto che si era infilato nella fodera dello scarpone. «Insomma, adesso è a tutti gli effetti proprietaria di quel posto. Non torna a casa per cena. È tutta presa dalle pulizie». Attorcigliò il filo di rame in un anello e lo gettò nel contenitore della differenziata fuori la porta della cucina.
«Comunque». Seth batté le mani, si alzò in piedi e scivolò nella camera da letto passandole dietro. «Questi discorsi su taco burger e pizza mi hanno fatto venire fame. Vado a darmi una lavata prima di cena».
Lissa restò sulla soglia della cucina. Nel cuore della casa, suo marito entrò nella doccia e iniziò a cantare a squarciagola Macho Man dei Village People nella versione di Homer Simpson. Un ricordo improvviso della cucina di Kip – brace e friggitrici, carne sfrigolante e spezie per tacos – le inondò la mente. Lissa andò verso la cantina e vomitò con discrezione nella tazza del bagnetto di servizio, accanto al ripostiglio.
Dopo cena, Seth pulì la tavola e caricò la lavastoviglie mentre Lissa versava una porzione di stufato di manzo dallo slow cooker alla tazza termica. Ne era avanzato un bel po’; era riuscita a mala pena a mangiare.
«Faccio un salto a vedere come se la cava SherriLynn», disse, senza alzare lo sguardo dai biscotti che stava avvolgendo nella stagnola. «Per darle una mano. Le porto un po’ di cena. Le darò un passaggio fino a casa. Non mi va che torni in bici di notte.»
«Ricevuto», rispose Seth dalle sue spalle mentre puliva il tavolo. Disse qualcosa riguardo il vedere la fine della sua serie preferita prima che SherryLynn e Seinfeld occupassero di nuovo il soggiorno. Lissa non replicò. Con la testa era già oltre la porta.
Il viaggio in auto fino al Kip’s Taco Burger dette a Lissa un momento per pensare. Seth e sua sorella maggiore erano nati nelle paludi della Florida, lì dove Seth e Lissa si erano conosciuti, sposati, e avevano comprato la loro prima casa. Ma Lissa era originaria di Jackson, Michigan. Mentre Seth e SherryLinn erano cresciuti intorno al bacino del fiume Apalachicola mangiando arachidi bollite, carpe fritte, e ostriche selvatiche, Lissa era stata allevata in Michigan con una rigorosa dieta a base di Kip’s Taco Burger, uno stravagante panino di carne macinata aromatizzato con peperoncino in polvere McCormick e tenuto insieme da una generica miscela di formaggio grattugiato Fiesta Blend.
Fino al 1996.
Nell’aprile di quell’anno, Rhoda – la moglie di Kip Arndts, “il Re della Pizza” – era scomparsa. Rhoda era piccola e graziosa, un’incantevole franco-canadese dai capelli corvini che sembrava aver smesso di invecchiare a trent’anni. Ma sotto la superficie, il rancore e un pacchetto al giorno di Kool 100s al mentolo, avevano continuato a macinarla dall’interno. Il risultato era sconcertante, come una minuta bambola di porcellana ripiena di vermi razzisti delle dimensioni di una salsiccia.
La scomparsa di Rhoda sarebbe potuta passare inosservata: l’economia era in crisi, e Rhoda Arndtz aveva ovvie riserve a restare incatenata a una paninoteca in difficoltà e a un simpatico babbeo – specialmente dopo che quel simpatico babbeo aveva speso ben oltre le loro possibilità per costruire un raffinato forno a legna per la pizza.
E poi i procioni erano entrati nella spazzatura di Kip. Capitava spesso – raramente Kip si ricordava di assicurare con la corda elastica i coperchi dei suoi cassonetti. Ma quella mattina, oltre a disseminare per Michigan Ave la normale serie di lattine, cartoni, involucri di plastica e verdure rancide, i procioni avevano anche disseminato un bel po’ di ossa. Questo era strano, dato che Kip gestiva un locale di hamburger e pizze, non uno di costolette grigliate. Ciononostante, quel macello restò lì fino al tardo pomeriggio, quando il reparto di piccole scout Brownie 321 arrivò per fare il suo dovere civico e pulire quella porcheria. Fortunatamente, la capitana era attenta e perspicace: notando qualcosa che condivideva un’inquietante somiglianza con la testa di una donna dai capelli corvini che faceva capolino dalle alette di un cartone di lattuga mollemente adagiato sul ciglio dell’asfalto, si era affrettata a far risalire il resto della truppa sul minivan, annunciando che si era totalmente dimenticata di aver organizzato un tour a sorpresa molto speciale alla stazione di polizia.
L’edizione del Citizen Patriot di Jackson il giorno seguente fece molta attenzione a dissipare le preoccupazioni dei lettori che qualche porzione di Rhoda Arndtz fosse entrata in contatto con prodotti alimentari, superfici per la preparazione del cibo e utensili da cucina del famoso buffet del Re della Pizza. Assolutamente, nemmeno una molecola di Rhoda Arndtz era finita nell’impasto: a Jackson gli amanti della pizza potevano dormire sonni tranquilli.
Sfortunatamente, a Lissa la pizza di Kip non piaceva molto; troppo panosa. Era entrata da Kip la mattina prima, aveva la terza ora libera ed era impaziente di soddisfare una voglia di taco burger con carne macinata piccante.
Il cartello sulla porta diceva “CHIUSO”, ma la porta non era serrata, così era entrata con passo noncurante e dietro di lei suonò il campanello. Questo non era per niente da lei – Lissa era una santarellina a ventiquattro carati – ma era una mattina di primavera insolitamente calda, e non si sentiva una santarellina; si sentiva più una da taco burger.
Il posto era completamente vuoto. Rhoda non era ancora arrivata. Molti bambini avevano paura di lei: nonostante la bassa statura e le fattezze elfiche era caustica come un bicchiere di stura lavandini. Ma a Lissa Rhoda piaceva proprio per questo: sì, la donna appollaiata dietro la cassa era cattiva, ma lo era in modo divertente. E, bonus: malgrado il suo disprezzo quebecchese per la Francia, Rhoda era ben disposta e desiderosa di spettegolare con lei in francese sugli altri cittadini.
Lissa aveva suonato il campanello vicino al bancone. Rhoda non era arrivata. Poteva sentire Kip che sferragliava nel retro, fischiettando un motivetto strumentale e vivace che usciva dalla radio. Suonò un’altra volta e ordinò un taco burger. Ancora niente.
Alla fine girò intorno al bancone e spingendo la grande porta a vento si ritrovò nella cucina calda, in una gustosa nuvola di tacos alla carne e tortillas fritte. Kip era in cucina, stava processando una montagna di carne macinata sulla piastra e armeggiando coi cestini della friggitrice. Un lungo tavolo da lavoro d’acciaio separava la piastra dalla porta. A un’estremità del tavolo era fissato un tritacarne, mentre per tutta la sua lunghezza erano allineate diverse teglie, ognuna ammassata di hamburger appena macinati, pronti per essere conditi e grigliati. A destra della porta da cui era entrata, poggiato sullo scaffale sotto la finestra passavivande, c’era un vassoio d’acciaio pieno di carne per tacos appena rosolata. Il vapore saliva, arricciandosi languido alla luce del mattino. L’odore era celestiale. Lo stomaco vuoto di Lissa brontolava e si contorceva.
E così allungò la mano – anche se sapeva che quello che stava facendo equivaleva a rubare, oltre ad essere antigienico – agguantò un pugno di carne e se lo cacciò in bocca.
Di solito Lissa andava da Kip a notte fonda, quando era l’unico posto aperto e lei e i suoi amici avevano un languorino da dopo cinema. I taco burger erano buoni anche in quelle occasioni. Ma quella carne appena grigliata era meravigliosa. O forse, le attraversò la mente il pensiero, la carne era meravigliosa non perché era appena macinata, ma piuttosto perché era primavera, e lei era in un posto dove non avrebbe dovuto essere. Forse, era questo che i ragazzini che saltavano le lezioni per fumare le sigarette e darsi le palpatine dietro al campo da football avevano capito in anticipo.
In ogni caso, se i taco burger erano sempre così buoni, pensò, avrebbero venduto più della pizza, senza dubbio.
Lissa aveva appena notato il grande forno a legna con la cupola di mattoni – il fuocherello acceso al suo interno e il piede di porco appeso a un lato – quando Kip si girò e cacciò uno strillo, chiaramente sorpreso di scoprire che non era da solo.
«Non sono ancora aperto», balbettò. «Stavo ancora preparando…» la sua voce si spense, fissava Lissa inebetito, con le dita in bocca, immobile come un cervo alla vista del cacciatore.
«Scusi». Lei arrossì, succhiando l’ultima traccia di grasso dal pollice «È super buono».
Kip provò a muovere la bocca ma non riuscì ad articolare alcun suono. Lei notò quanto i suoi occhi fossero rossi e lacrimosi. Una domanda iniziò a prendere forma sulle sue labbra, ma lui la fermò.
«Jalapeño», disse, pasticciando la parola così male che suonò come Spanglish per “piccola carretta”. Si sfregò gli occhi con il dorso della mano. «E le cipolle negli occhi. Per caso hai… non hai…» Si fermò per riprendersi. «Non hai mangiato la carne, vero?»
Lo stomaco di Lissa ebbe un sussulto. «È, tipo… una grave violazione del codice sanitario se ho usato le mani?»
Kip aggrottò la fronte.
«Ero venuta per un taco burger», farfugliò Lissa, «puoi prendere la carne per fare il mio proprio in questo punto,» indicò una fossetta nella montagna di carne, «e riavrò indietro i miei germi».
Ci fu una lunga pausa mentre un qualche dibattito interiore si svolgeva nella testa di Kip. Alla fine, alzò le spalle. «Perché no», disse. «Un taco burger, offre la casa. Patatine o crocchette?»
Lissa optò per le crocchette. Si sedette al banco per mangiare. Il taco era così buono che non le era nemmeno venuto in mente di domandarsi – figuriamoci chiedere – dove fosse Rhoda.
Al processo, saltò fuori che Kip aveva bastonato, macellato, e macinato sua moglie. Aveva cominciato sul tardi, la notte precedente, e ci aveva lavorato fino alle ore piccole. Poi si era preparato una tazza di caffè, e l’aveva trasformata in quasi trenta chili di carne per tacos. Stava facendo un’altra pausa quando era passata Lissa, si era preparato una tazza di caffè, aveva mangiato un po’ di porridge istantaneo, e poi era tornato al lavoro. Quando la polizia era arrivata quel pomeriggio, Kip aveva già caricato le teglie di tamales e taquitos nella cella frigorifera.
Interrogato sul movente, Kip aveva dato una rapida (e confusa) spiegazione, che il rapporto della polizia sintetizzò come «il sospettato ha indicato il coinvolgimento di influenze sataniche». Quando gli fu chiesto perché pensava che il Diavolo volesse così tanti tamales e taquitos, il rapporto rilevava che «il sospettato si è agitato e ha risposto bruscamente: “Chi ha detto che il Diavolo voleva cibo messicano? Ma io dico, se il Diavolo ordina dei tacos, gli preparereste davvero dei tacos?”»
Tre giorni dopo, Lissa se ne stava in chiesa mezza addormentata quando il vecchio pastore, a metà della messa, citò ad alta voce il Levitico, rimarcando la promessa del Signore che:
Io ancora procederò con voi con ira e con contrasto; e io ancora vi castigherò sette volte più, per i vostri peccati. E mangerete la carne de’ vostri figliuoli, e la carne delle vostre figliuole.
Sentendo quelle parole, Lissa si svegliò di colpo e vomitò sulla moquette industriale color beige. Non riuscì a trattenere un boccone di cibo per i successivi tre giorni e nel frattempo perse sei chili.
«Influenza intestinale».
Nessuno seppe mai della visita di Lissa alla tavola calda. L’unica cosa che Kip non confessò quando la polizia entrò nel ristorante dopo la soffiata delle piccole scout Brownie 321, fu proprio che le aveva preparato un taco burger con le crocchette (offerto dalla casa).
Nonostante il giornale terminasse ogni articolo su Kip – le accuse, il processo, la condanna, la successiva reclusione, e la coltellata definitiva nel cortile della prigione – chiedendo “chiunque in possesso di ulteriori informazioni contatti la polizia di stato del Michigan” Lissa non ci riuscì mai. Aveva zero interesse nel vedere stampati insieme “Tesoriera del Club di Francese” e “L’unica autentica cannibale di Jackson County” sotto la sua foto nell’annuario.
Lissa entrò nel parcheggio fatiscente di Kip. Si chiuse in macchina ad ascoltare il soffio del radiatore, e ripeté a voce alta ciò che aveva intenzione di dire:
«SherriLynn, credo che quest’attività ti darà dei problemi, non hai alcuna esperienza di come si manda avanti un ristorante e questo in particolare, è stato chiuso dopo che il vecchio proprietario ha ucciso e cucinato sua moglie».
Poteva suonare un po’ duro ma era meglio essere diretti con SherriLynn. I suoi processi mentali erano una tana di coniglio in continua ramificazione, era facile smarrirsi. Se SherriLynn puzzava e provavi a suggerirle, «Una doccia alla fine della giornata ha un effetto rilassante su molte persone, e favorisce il riposo notturno» era probabile che mezz’ora dopo ti ritrovassi persa in una conversazione sui parassiti cerebrali, troppo piccoli per essere intercettati dai sistemi municipali di trattamento dell’acqua. Era meglio dire «SherriLynn, puzzi. Per favore fatti una doccia.»
SheriLynn avrebbe annuito, avrebbe finito di vedere il suo Seinfeld, e si sarebbe fatta una doccia.
Lissa spense il motore e scese dalla Ford Explorer. Il sole d’ottobre si era appena immerso dietro la fila di alberi. Raggi sparsi di luce vivida perforavano gli spazi tra i tronchi imponenti senza riuscire ad attraversarli e riscaldare il parcheggio.
Lissa si voltò verso il ristorante. Le facce delle insegne erano state abbattute alcuni anni prima, rivelando impianti scoperti e schegge di lampadine fluorescenti. Ma le finestre, anche se opache di sporcizia, erano integre. Brillavano fiocamente. Si avvicinò alla porta, vide il cartello con la scritta CHIUSO e la sua mano si allungò per afferrare la maniglia. Naturalmente era aperto. Naturalmente il campanello tintinnò. Naturalmente lei entrò, la porta sibilò e tintinnò ancora, chiudendosi alle sue spalle.
Per un momento, non era più un ottobre tetro e lei non era più un agente immobiliare di trentanove anni, sposata, che provava inutilmente ad avere il suo primo bambino. Era una luminosa mattina di aprile, aveva diciassette anni e stava seduta al bancone masticando il suo ultimo taco burger. Il panino era soffice e tenero, la lattuga perfettamente croccante, il formaggio caldo e filante. E la carne, la carne era saporita, cotta e salata al punto giusto, una benedizione per la lingua.
La sua bocca si inondò di saliva, poi del rutto bruciante di reflusso. Sorrise con disprezzo a quel ricordo, deglutì con forza, e tornò al presente, nella sala da pranzo abbandonata del Kip’s Taco Burger.
La stanza era scura e vuota, ma eccezionalmente ordinata. Niente di inquietante – non era come se “non fosse passato un giorno”, o fesserie simili. Il lavandino era ossidato, il pavimento in linoleum tutto consumato, i tavoli spogli e consunti, niente tovagliette di carta o distributori di tovaglioli, nessuna bottiglia di ketchup, niente sale e pepe. Ma non c’era disordine o sporco, né tane di topi. C’era solo odore intenso di disinfettante Simple Green, detergente per vetri, e – incredibile, dopo tutti quegli anni – un aroma di carne fritta e pizza appena sfornata. Delizioso. Da qualche parte nel retro, una radio portatile suonava una musica mariachi affollata di fiati.
Lissa chiamò ma non ebbe risposta. Urlò ancora e senza pensarci suonò la campanella di servizio. Era sul bancone, vicino alla nicchia per la cassa.
SherriLynn irruppe dalla porta a vento, portando con sé una raffica calda e fragrante d’aria di cucina. «Hey!» urlò, il sorriso frenetico e gli occhi scintillanti. Era sporca e stazzonata, con l’alta coda di cavallo scompigliata e storta. Aveva una macchia incrostata di qualcosa – forse grasso di frittura rappreso – sulla fronte. Era come se avesse pulito il ristorante trasferendo tutto lo sporco e il disordine su di sé.
Lissa le offrì la tazza termica e degli involti. «Ti ho portato la cena. Dobbiamo parlare».
Sherrilynn accettò il cibo, stringendo goffamente la tazza nella curva del gomito mentre strappava il foglio di stagnola e infilava in bocca un panino. «Frazie», disse attraverso l’impasto del boccone.
«Muofio fi fame!» Mandò giù con gusto, poi fece una sorsata di zuppa dal beccuccio della tazza, succhiando rumorosamente. «Squisito! Comunque, devo finire le pulizie…»
Lissa prese un respiro. «SherriLynn», cominciò, «credo che questo posto ti darà dei problemi…»
«Per la storia dell’omicidio?» chiese SherriLynn.
Per la seconda volta in quella notte, Lissa ammutolì.
«Ne dubito», disse SherriLynn. «Hanno prelevato e demolito la friggitrice, la piastra per grigliare, i taglieri, il tritacarne e tutte le altre cose che aveva usato, hanno fatto una detersione profonda con la candeggina al perossido di idrogeno, che ha denaturato tutte le proteine, incluso il DNA.»
Lissa batté le ciglia.
«Me l’ha detto l’agente immobiliare. Credo che forse sono obbligati, per trasparenza? E comunque il forno della pizza lo hanno lasciato, perché non l’ha usato per cuocere la moglie, ed è per la pizza che questo posto era famoso, e io faccio una pizza buonissima, e so come farla in ambito commerciale perché ho lavorato in mensa per quasi l’intero periodo che sono stata alla Casa per la Salute Comportamentale dell’Eastside, principalmente perché non sono mai stata considerata un pericolo per me o per gli altri, però ho anche imparato a cucinare per una media di quattrocentoventicinque persone ogni giorno, e poi, se quel tizio non avesse cucinato la moglie io non mi sarei potuta permettere questo posto, e anche la casa che sta qui dietro, che era inclusa, così non devo più vivere con te e Seth e potete di nuovo provare ad avere un bambino». Succhiò di nuovo la zuppa. «Ma ho ancora molto da pulire in cucina e quindi grazie per la cena e ciao!» Slurp.
SherriLynn girò i tacchi e se ne tornò in cucina mettendosi un secondo panino in bocca.
Lissa restò da sola nella sala da pranzo, ancorata alle piastrelle consumate.
Pian piano si rese conto che era tutto estremamente sospetto: SherriLynn non amava soltanto parlare; SherryLynn amava parlare di cose come detersione profonda, proteine denaturate e di tutte le minuzie che avevano a che fare col cuocere per quattrocentoventicinque persone (in media, al giorno).
Lissa girò attorno al lungo bancone e mise la mano sulla porta della cucina.
Poi si fermò.
L’ultima volta che aveva spinto quella porta, era stato, senza dubbio, il più grande errore della sua vita.
Fece un respiro profondo – dentro il naso, fuori dalla bocca, come le aveva detto l’analista. Poi ripeté una volta il suo piccolo mantra, pronunciando con attenzione ogni parola – anche se in silenzio, nella sua testa:
La cosa migliore del giorno più brutto della tua vita
È che niente potrà mai andare peggio
La discussione con sua cognata, per quanto seria, non sarebbe mai stata paragonabile alla mattina di primavera in cui aveva mangiato Rhoda Arndtz.
Lissa entrò in cucina.
Quello che la colpì per primo non fu il sangue – e c’era molto sangue, sangue fresco – ma l’odore.
Quando era una ragazza, Kip odorava di tacos e crocchette fritte. Negli incubi di Lissa, puzzava di letame di mucca, terra bagnata, e fogliame ammuffito, ricoperto dall’odore metallico di sangue e carne inacidita.
Questa cucina – la cucina di SherriLynn – non aveva quell’odore. Questa cucina aveva un odore bizzarro, di monete immerse nell’aceto, bagni per camionisti appiccicosi di urina, ferro bruciato. E anche, nauseante e delizioso insieme, di pizza appena sfornata ai funghi e salame piccante.
Il tavolo di preparazione d’acciaio dove Kip aveva macellato Rhoda non c’era più, anche se le otto macchie circolari color ruggine marcavano ancora il pavimento in linoleum dove erano state poggiate le gambe. Non c’erano più nemmeno la friggitrice e la piastra contaminati; le sagome incorniciate di grasso sul muro, suggerivano che fossero stati rimossi come denti marci.
Ma il forno a legna in mattoni di Kip era sempre lì, dominava su tutto, come la testa sporgente di un idolo ciclopico, con un unico occhio fumante.
Il pavimento di fronte a questo dio infuriato era viscido di sangue. SherriLynn si piegò sulla chiazza rossa davanti al forno. C’era sangue sulle sue Keds bianche. Una piccola mezza luna di sangue aveva inzuppato l’orlo penzolante della sua T-shirt giallo pallido, nel punto in cui si accovacciava a strofinare il pavimento.
Non era una pozza di sangue innocua. Una cosa così era sconvolgente, ma forse SherriLynn poteva avere una spiegazione semi-ragionevole delle sue – “Le salsicce fresche sono il top Lissa, così ho comprato un maiale da Mark Sponsler in fondo alla strada e l’ho macellato io stessa!”
No, quelli erano squarci, pozze e lunghi rivoli a spirale. Segni che testimoniavano il passaggio di una terribile lotta prima della morte. Il pavimento era cosparso di braci e tizzoni; alcuni si stavano freddando, appiccicosi di sangue.
Un arco di sangue rappreso si allungava fino al forno della pizza. Attraversava le fauci spalancate dell’apertura intersecando l’iscrizione che la circondava in caratteri fluidi:
LODE AL RE DELLA PIZZA E BENEDETTO SIA IL SUO REGNO ETERNO
Al lato della bocca del forno, vagamente incandescente, c’era un rettangolo alto e stretto, disegnato con la stessa vernice spray termoresistente nero opaco. Appeso all’interno c’era il piede di porco lungo tre piedi che Lissa aveva notato quel giorno di aprile. Le parole scritte sopra, esibite in sgraziate lettere maiuscole, erano un avvertimento:
NON RIMUOVERE!
Il piede di porco era imbrattato di sangue.
SherriLynn – che solo ora Lissa notò indossare due guanti, uno da cucina in gomma gialla e uno commerciale da forno – stava inginocchiata davanti a un corpo. Ma il corpo di che cosa, Lissa non sapeva dirlo. All’inizio, pensò che si trattasse di un procione ciclopico – il mantello era acuminato, grigio e nero. Ma mentre guardava SherriLynn, che lo trascinava sul pavimento, verso il sacco dell’immondizia abbandonato sulla porta del retro, Lissa si accorse che non aveva alcun mantello. Quella che aveva scambiato per una pelliccia untuosa dalle punte sporgenti erano invece squame o scaglie, come quelle che avevano gli alligatori e i pangolini nei documentari che guardava Seth. E non aveva né una testa né una coda: era simmetrica dall’inizio alla fine, il rapido schizzo di un porcellino di terra. Aveva la pancia chiara e tante zampette, corte e tozze.
«Niente zuppa per te!» SherriLynn rimproverò la bestiola, la sua voce era quella di una donna che borbottava tra sé mentre puliva il disordine di una persona sbadata. Quel tono di voce fu il dettaglio che, per qualche ragione, riportò Lissa all’assoluta realtà della situazione.
Per la seconda volta quella notte, ebbe un conato di vomito. Si precipitò verso il grande lavello triplo, ma tutto quello che uscì dal suo stomaco fu bile, calda e appiccicosa. La sputò nel lavandino, poi appoggiò la fronte sul bordo freddo d’acciaio laminato.
«Va tutto bene! Va tutto bene!» insisteva SherriLynn, che dietro di lei grugniva per lo sforzo. Lo strombazzare metallico alla radio continuava a ronzare, senza andare da nessuna parte. Una mano massaggiò delicatamente Lissa tra le scapole. Lei urlò e si voltò di scatto, sollevando le mani in una disperata imitazione di qualche manovra di kung fu che aveva visto in uno dei film d’azione che piacevano a Seth.
«Va tutto bene!» Ripeteva SherriLynn, gridando sopra la musica. Le mani sollevate, i palmi in fuori. Il guanto giallo sulla mano sinistra era lordo di sangue. «Va tutto bene! Succede solo quando supero i cinquecento gradi, e comunque non voglio fare la pizza napoletana! Mi piace la newyorkese. Si conserva meglio nei viaggi, tra il ritiro e la consegna. E regge condimenti più pesanti.»
Lissa vide che ciò che restava del tavolo da lavoro – incastrato tra un frigorifero a vetri vuoto e un piccolo lavandino – era impolverato di farina e zeppo di vaschette in plastica per alimenti, trasparenti e quadrate: peperoni verdi, fette di salame, funghi marinati, peperoncini, basilico fresco e foglie di spinaci. Dall’altra parte del frigo c’era uno scaffale a griglie di metallo, vuoto, salvo che per una bella pizza adagiata in piano sul cartone aperto. Mancava una fetta.
«Puoi spegnere la musica?» Urlò Lissa. SherriLynn si affrettò a obbedire. «Che diavolo è successo qui?»
«Versione corta o lunga?» chiese SherriLynn.
«Corta».
SherriLynn rimase in piedi, spalle indietro, petto in fuori. «Ho sconfitto i mostri tre volte!» Sorrise raggiante, poi sistemò la frangia con la mano, lasciando una macchia di sangue fresco sulla fronte.
Lissa sbirciò oltre le spalle di SherriLynn. La cosa che SherriLynn stava trascinando sul pavimento quando Lissa era entrata non c’era più. La traccia di sangue terminava accanto a un sacco dell’immondizia stracolmo vicino alla porta di servizio.
«Tre volte?» Chiese Lissa.
SherriLynn girò sui tacchi come una guardia di Buckingham Palace e marciò verso la porta sul retro dove c’era un sacco per la spazzatura nero di dimensioni industriali. Fece cenno a Lissa di seguirla.
SherriLynn aprì il sacco, rivelando tre di quelle larve puntute. Lissa scoprì di essersi sbagliata: non erano davvero simmetriche. Ciascuna di loro aveva due estremità diverse. Una rotonda e smussata, mentre l’altra sembrava un prolasso rettale coi denti, o una bocca nata per cibarsi di qualcosa che Lissa non voleva immaginare.
«Credo che avrò bisogno della versione lunga».
Venne fuori che la versione lunga non era così lunga: SherriLynn stava pulendo il ristorante da alcune ore e le era venuta fame, così aveva deciso di farsi una pizza. Aveva acceso il fuoco, era andata al supermercato per comprare gli ingredienti, era tornata, e si era messa a cucinare. Non aveva avuto la pazienza di riscaldare completamente il forno – ci sarebbe voluta un’ora – così lo aveva alimentato per riscaldarlo il più possibile spostando la brace ai lati, aveva infilato la pizza dentro sistemandola vicina alla fiamma aperta, e l’aveva girata spesso.
«È un’attività impegnativa – troppo per un ristorante che sforna pizze. Ecco perché di solito scaldi il forno a una temperatura molto alta, poi accumuli le braci e cuoci usando il calore refrattario che emana dall’interno in argilla. Ma è un buon metodo per cuocere la pizza; migliore di quello tradizionale, se ti piace affumicata.»
Quando aveva tirato fuori la pizza, aveva deciso di spostare il carbone di nuovo al centro, aggiungere altra legna, e farlo partire davvero. «Come una prova da sforzo, e poi stavo già pensando alla cena. Finirò per ingrassare gestendo questo posto. E poi fa freddo qui, no?»
Aveva appena affettato la pizza quando il primo mostriciattolo col sedere a forma di bocca, era colato fuori dal forno.
«Stavo per cacarmi sotto!» disse SherriLynn. La cosa aveva colpito le piastrelle con un flaccido thunk! Come un marmocchio grasso caduto dal letto. Si era messo a inseguirla grufolando sul pavimento, muovendosi con sconcertante fluidità. SherriLynn si era allontanata di corsa. La cosa l’aveva raggiunta. SherriLynn aveva afferrato l’arma più vicina – il manico di uno scopettone, che spuntava dal pesante secchio in plastica gialla per strizzare il mocio. Aveva spinto il secchio del mocio nelle fauci bramose della creatura. La dentatura spinosa – che scattava spasmodicamente – aveva fatto presa sulla plastica liscia e dura e l’aveva segata via, rilasciando una cascata di acqua saponata e grigia. La cosa aveva sputacchiato e si era ritratta. SherriLynn l’aveva agganciata con l’unico attrezzo sensato – il lungo piede di porco in ferro di Kip – e l’aveva polverizzata.
Si era presa un momento per respirare e poi, con la logica instancabile di chi è genuinamente affetto da un disturbo mentale, aveva ricominciato a pulire. «Insomma, prima o poi bisogna pulire, e non sarà facile una volta che questo casino inizierà a seccarsi.»
Mentre puliva, il fuoco si era spento e il forno raffreddato. Quando ebbe finito, il calore era appena sufficiente a cuocere dei biscotti. Aveva messo dentro più legna, l’aveva fatta strepitare ed ecco che, mentre stava appoggiata sul grande lavandino per bere un bicchiere di fresca acqua sulfurea, un altro verme insanguinato era scivolato fuori dal forno “come una cacca di cane squagliata”. Il piede di porco stava ancora contro il lavello dietro di lei, dove lo aveva lasciato a scolare, e così l’aveva ripreso e aveva pestato a sangue il secondo mostro. Come molte cose, la seconda volta era stata più semplice. «Ci prendi la mano, è quello che sto cercando di dire».
SherriLynn s’era messa di nuovo a pulire e aveva riflettuto a lungo sulla situazione. «Mi pare abbastanza evidente che è un fenomeno connesso con la temperatura, quindi ho pensato che avrei fatto una prova». Aveva spento il fuoco, fatto diminuire la temperatura fino a duecentosessanta, poi aveva riempito il forno di legna appena tagliata. La temperatura era salita rapidamente, trecento, trecentosettanta – ben oltre la soglia richiesta per fare una buona pizza e oltre. SherriLynn aveva afferrato il piede di porco, le mani serrate, la barra inclinata indietro come una mazza da baseball. Il termometro aveva raggiunto i quattrocentottanta gradi ed era continuato a salire. Poi ci fu un lampo e un getto di aria calda come uno scirocco di tabasco. Plop, un altro tarzanello del diavolo, un vermocione con gli aculei unti urtò le piastrelle, e lei l’aveva eliminato con la dovuta celerità.
«Poi sei arrivata tu», concluse SherriLynn «Ed eccoci qua».
«Eccoci qua», ripeté Lissa in modo piatto, e pensare che solo quindici minuti prima, era convinta che la cosa peggiore che le potesse capitare fosse mangiare una porzioncina di una piccola donna franco-canadese.
SherriLynn annuì in modo incoraggiante.
«È una follia», disse Lissa.
SherriLynn la guardò male. «Hai una spiegazione migliore? Qui non si tratta di stalking di gruppo e bisbigli elettrici», tagliò SherriLynn, riferendosi ad alcune delle accuse che avevano portato al suo ricovero forzato e al ritorno in Florida. «Hai visto il sangue e i vermi. È vero come la realtà».
«Sì» fece Lissa vacua. «Vero come la realtà. Ora spegniamo il fuoco, chiudiamo questo posto e andiamo via».
«No!» Lissa sussultò. «Non voglio tornare sul divano a guardare Seinfeld!»
«Io e Seth ti aiuteremo a trovare un lavoro…» cominciò Lissa.
«Nessuno con un po’ di cervello vorrebbe assumermi!» urlò SherriLynn. Era vero: prima del ricovero c’erano stati alcuni battibecchi con la polizia, uno dei quali era finito in una notizia che in poco tempo era diventata virale, completa di ripresa video, del suo nome, cognome e foto segnaletica. «Sono l’unica persona abbastanza pazza da assumermi».
Lissa aprì la bocca per controbattere, anche se non avrebbe saputo cosa obiettare, ma SherriLynn non la fece parlare.
«Tutte le cucine professionali sono pericolose: tubi del gas, affettatrici, coltelli, friggitrici. Ma adolescenti strafatti e persone con disabilità mentale ci lavorano tutto il tempo senza fare disastri. E questa non è diversa. Diavolo, è meno pericolosa. Per prima cosa, è più facile da gestire: per fare la pizza ho solo bisogno che il forno raggiunga i trecentosettanta gradi. E il problema si verifica sopra i quattrocentonovanta gradi. Ho un margine di quasi duecento gradi. Secondo, sarò sempre qui quando il forno è acceso. Volevo iniziare solo come servizio da asporto. Nessuno vende pizza qui intorno comunque. Poi, quando avrò messo insieme un po’ di soldi, assumerò un fattorino, e questa sarà l’unica pizzeria a domicilio della città. Un monopolio. E terzo, anche se la temperatura aumenta e arrivano le larve, posso farle fuori».
Per un momento Lissa dubitò della sua stessa sanità mentale perché il ragionamento non faceva una piega. Le cucine professionali sono pericolose. E potevi dire qualunque cosa su SherriLynn, ma era estremamente competente. In un certo senso era questo che l’aveva fatta finire al Tribunale Distrettuale di Escambia. Se fosse stata ugualmente pazza ma meno competente, si sarebbe fulminata da sola, molto prima di riuscire a danneggiare abbastanza ripetitori telefonici da attirare l’attenzione delle forze dell’ordine.
Ed era così anche questa volta, le sue assurde convinzioni erano totalmente accurate.
«Dimostramelo», disse Lissa. «Dimostrami che hai la situazione sotto controllo».
SherriLynn era raggiante. «D’accordo!» Si precipitò verso il forno e usò la punta del piede di porco per ammucchiare la brace, poi con cura, caricò la legna. Lissa dovette ammettere che sembrava sapesse cosa stava facendo. Forse aveva sottostimato la capacità di SherriLynn di fare del piccolo ristorante un’attività a tutti gli effetti – tralasciando la questione del portale per l’inferno nell’unico elemento della cucina che era rimasto, ovviamente.
La temperatura salì gradualmente: trecento, trecentosettanta, quattrocentoventi. SherriLynn prese il piede di porco e si mise a lato della bocca ruggente del forno.
E poi un botto e un lampo, abbagliante come un fulmine, seguito da un getto di aria calda che fece arricciare la peluria sulle braccia di Lissa. Quando la vista tornò a schiarirsi, non c’era alcun verme di sangue sul pavimento.
Lissa aveva ipotizzato che sarebbe stato tutto un flash! Bang! Larve e sangue! Fece un respiro profondo per chiedere quanto tempo avrebbero dovuto aspettare ma si fermò quando notò due mani ossute che tastavano lungo l’apertura del forno. Erano mani antiche, magre e coriacee. Ognuna aveva tre dita, ogni dito era lungo e segmentato, delimitato da due pollici opponibili.
Le mani si aggrapparono ai lati opposti dell’apertura incandescente del forno e tirarono. Spuntarono le corna, come quelle di un cervo ma ancora più ramificate. Erano incorniciate da lunghe orecchie appuntite che si allungavano dalla sommità di una testa ispida come quella di un maiale. La pelle era terrosa, color ocra rossa, macchiata dall’età. Il volto era piatto, e Lissa non riusciva a definirne l’aspetto. Era come guardare un uomo che aveva come padre un Neanderthal e come madre uno specchio deformante.
Aveva un occhio solo, ma trilobato. Il naso era appena accennato, un bozzo con due narici sopra una bocca che era ruvida e scorticata e con molte lingue. Si guardò attorno avidamente, poi sorrise. Un sorriso che era come un segnale di rischio biologico. Lissa non riusciva a capire come la sua testa si tenesse assieme. La creatura sbatté le palpebre. Le sue ciglia – foltissime – si schiudevano attorno alle pupille a forma di quadrifoglio.
Guardare le faceva male al cervello. Offendeva il decoro di una mente razionale. Voleva scappare via ma restò ancorata a terra, temendo che la vista di una preda in fuga potesse spingerlo ad attaccare.
Il demone ispezionò la stanza, come un cliente in visita ad un immobile in vendita. Le braccia erano di nuovo tese e spingeva il torso spigoloso e scheletrico fuori dal buco. Al torso erano attaccati i fianchi e poi le lunghe gambe pelose. I piedi erano proprio come le mani, e si reggeva sulle punte delle dita, come una capra sugli zoccoli.
Solo, non sul pavimento.
Stava cavalcioni sulla superficie curva del forno come un operario comunale su un tombino, con le mani sui fianchi e la testa rovesciata all’indietro per incontrare il loro sguardo.
C’era qualcosa di regale nella postura di quella creatura. E Lissa realizzò che era questa cosa, e non Kip, il vero Re della Pizza, un sovrano alieno che non obbediva ad alcuna legge – nemmeno alla forza di gravità.
«’alo» disse. «Excusez-moi…» E continuò. In francese.
Lissa sentì il piede di porco di SherriLynn che tintinnava sul pavimento.
Lissa al liceo adorava il francese. Ma il liceo era stato molto tempo prima, e la voce della cosa… la sua voce era molto fastidiosa. All’inizio, pensò che aveva il suono di un tritarifiuti pieno di ghiaia e letame, o del chiacchiericcio ridanciano di un enorme stormo di corvi. E poi, quando il demone arrotolò languidamente un r gutturale, udì debolmente la voce di un bambino che urlava, «Mamma! Mamma! La mia pelle! La mia peeellee!»
E dopo, nel chiacchiericcio affabile del demone, poté udire le urla di tutti i dannati e non riuscì a smettere di sentirle.
Fece un passo indietro, il respiro mozzato, lo stomaco appiccicato in gola. Non voleva vomitare di nuovo – non aveva più niente da vomitare. E nemmeno voleva essere scossa dai conati. Così si mise a parlare.
«Pardon» cominciò. «Mon français…»
«Parli demonese!» sussultò SherriLynn.
Lissa la zittì con un cenno della mano. «Parlo francese», sussurrò. «Sta parlando in francese».
«En français, s’il vous plaît», intervenne la creatura.
«Perché parla francese?» sibilò SherriLynn.
«Non lo so!» sibilò Lissa – anche se forse lo sapeva. il Citizen Patriot aveva pubblicato un articolo su Kip e il suo forno poco dopo che lo aveva costruito. I mattoni erano stati ordinati apposta da Mort & Sons Landscape Supplies, ma aveva preso tutto il materiale refrattario del piano di cottura da un agricoltore locale che aveva rinvenuto una grande quantità d’argilla mentre spianava un campo incolto. Molto prima che se ne occupassero gli inglesi, il Michigan era infestato da cacciatori di pellicce francesi – di cui rimaneva qualche cognome e i nomi di un sacco di strade. Forse l’ultima volta che il demone era stato evocato, Cadillac e Pontiac erano ancora uomini, e non automobili.
Lissa zittì SherriLynn e riprese il discorso: «Pardon», disse. «Il mio francese, è vecchio e ischeletrito. Per favore ripetere di nuovo. Lentamente».
Il demone si fermò, spalancò il suo unico occhio restituendo un sorriso a forma di falce. Annuì. «Oui. Bien sûr…» E iniziò a raccontare.
La voce del demone era orribile e il suo francese arcaico, ma Lissa riuscì a seguire ciò che diceva: la terracotta del forno era una porta, spiegò, e quando la terracotta diventava calda, la porta si schiudeva. Le qualcosa del demone – credette che li chiamasse “i miei pulcini” – erano scivolati attraverso il cancello e si erano persi. E questo era un peccato.
Lissa riportò a SherriLynn una versione semplificata, poi offrì le sue condoglianze al Re della Pizza, facendo attenzione a non posare lo sguardo sul sacco della spazzatura dove stavano accasciati “i pulcini” schiacciati. Provò ad immaginare la reazione del demone alla vista di quel massacro, e immediatamente costrinse la sua mente a cambiare strada, come avrebbe allontanato un cane da una scheggia appuntita d’osso di pollo.
Il demone respinse le sue belle parole con un tch-tch di disapprovazione. Il passato era passato. Una volta che avessero chiuso l’interrupteur della porta, tutto si sarebbe sistemato.
«Gli si è interrotta una porta?» sussurrò SherriLynn, teatrale.
«No», sibilò Lissa. «Interrupteur significa ‘interruttore’. La porta ha un interruttore. Gli serve il nostro aiuto per chiuderlo».
«Che razza di porta ha un interruttore?»
«Non lo so», Lissa tentò di mandar via SherriLynn; il Re della Pizza stava ancora parlando.
«Quindi è più come la porta di un garage? O, tipo, il cancello di una comunità recintata»
«Non lo so!»
Lissa rivolse tutta la sua attenzione al demone e gli chiese cosa gli servisse per chiudere la porta.
«Sang», rispose secco.
Ricordando il crimine e la confessione di Kip, Lissa non restò sorpresa.
«Sang?» chiese SherriLynn.
«Sangue», rispose Lissa.
SherriLynn tirò fuori il telefono e iniziò a schiacciare i tasti. «Ok», bofonchiò, iniziando a camminare avanti e indietro. «Poteva andare peggio».
Lissa riportò l’attenzione al Re della Pizza. «Sang de l’animal?» azzardò speranzosa.
«Non. Le sang d’un homme».
Lissa riferì a SherriLynn che il sangue animale non era sufficiente. Doveva essere sangue umano.
«Tipico», sibilò SherriLynn con voce acuta. «Ok. Tutto quello che dobbiamo fare è controllare il registro dei molestatori e trovare il tizio peggiore, diciamo nell’arco di venti chilometri. Attirarlo qui – chiamarlo per dirgli che ha vinto una pizza gratis! – e poi finirlo col piede di porco…»
«SherriLynn!» Lissa rimase a bocca aperta.
La prontezza con cui SherriLynn aveva preso in mano la situazione e ideato quella soluzione efficiente e immorale, preoccupò Lissa – ma, a essere sinceri, la preoccupò come un problema per domani.
Lissa tornò al demone. «Seulement le sang d’un homme?» chiese.
Il demone sorrise ancora una volta, poi scrollò le spalle in modo disarmante alla Maurice Chevalier. «Ou d’une femme, mon cho». Annusò l’aria allusivamente e strizzò le narici in modo simpatico.
Lissa annuì con solennità, pensando a Roda, piccola e pungente, col culo sullo sgabello, i gomiti piantati sul bancone, la sigaretta tra le dita, che sorrideva graziosa, odiando tutti con la stessa verve.
«Quanto sangue?» chiese.
«Normalement, beaucoup». Disse l’ultima parola con uno scintillio negli occhi, mimando con le dita lo scoppio di fuochi d’artificio.
«Beaucoup vuol dire ‘molto’», annunciò SherriLynn, diteggiando frenetica il telefono. «Lo so». Fissò lo schermo accigliata. «Molti di questi stupratori sono ragazzi mingherlini. Mi chiedo se uno possa bastar…»
«Cazzo!» sbottò Lissa. «SherriLynn, sta zitta!»
Non era stata la parola beaucoup a catturare l’attenzione di Lissa, ma normalement. Se la procedura per chiudere l’interruttore della porta normalmente richiedeva molto sangue, poteva richiederne occasionalmente di meno.
«Quale circostanza potrebbe richiedere meno sangue?» chiese.
Il demone strinse le labbra e fece una faccia strana. Lissa ipotizzò che fosse un’espressione di profonda irritazione – come un giudice infastidito di fronte a un colpevole che stava per cavarsela con un cavillo. Ma non poteva esserne sicura; quel coso maledetto aveva un aspetto troppo strano. Era come provare a decifrare lo stato emotivo di una delle sue larve.
Infine rispose «Si c’est le sang d’un cannibale».
Lissa non poté trattenere una risata amara; «Il sangue di un cannibale».
Tipico, pensò.
«Il sangue di un cannone?» chiese docilmente SherriLynn. «Che cacchio significa?» Lissa la ignorò.
«Quanto ce ne vuole…» chiese Lissa «di sangue di cannibale?»
«Juste un frottis».
Solo una strisciata.
«Okay», fece Lissa al Re della Pizza.
«Cosa diavolo è un sangue di cannone?» Insisté SherriLynn. «Che sta succedendo?»
«Sangue mestruale», mentì Lissa. La bugia le sembrò divertente come solo un destino crudele sa essere: se c’era una sola persona che poteva provare simpatia per un cannibale involontario, quella era certamente SherriLynn. Ma anche in quel momento estremo, Lissa non riuscì ad ammettere quel suo fallimento personale. E così raddoppiò le bugie per omissione, come aveva fatto per tutta la vita. «Sang d’un cannibale in francese è un…come si chiama…»
«Modo di dire», suggerì SherriLynn.
«Modo di dire», concordò Lissa. «Un modo per dire sangue mestruale. Se usiamo, ehm, del sangue mestruale, ce ne vorrà solo un po’».
«Vado a prendere un secchio», disse SherriLynn.
Lissa si girò a guardarla: «Per cosa?»
«Per il sangue».
«Che cazzo dici?»
«Hai sentito il tipo, Lissa: serve beaucoup sangue per portare a termine il lavoro. Ora…», indicò il telefono «questo ragazzo è un po’ più lontano, ma è un tipo grassoccio, penso che una pizza gratis sarà un’ottima esca…»
Lissa alzò le mani esasperata «Ma mi stai a sentire? Ne serve molto se è il sangue di un uomo; a noi basta una striscia».
Ora era SherriLynn ad essere esasperata. «Sì, se è sangue mestruale, Lissa!» SherriLynn, per ragioni che Lissa non poté capire, pronunciò la parola “mestruale” con una smorfia e facendo le virgolette con le dita. «Dove diavolo la troviamo una molestatrice con il ciclo a quest’ora della notte? O magari…» SherriLynn fece una risata stridula, «O magari vorresti rapire una donna innocente da tenere legata finché non le viene il ciclo?»
«Cristo Santo!» urlò Lissa. «Ma quanto cazzo sei fuori, SherriLynn? Non è che il sangue mestruale è una merce rara, pazza furiosa! Che cos’hai che non va?»
SherriLynn restò in silenzio, avvilita. E Lissa all’improvviso si ricordò che per SherriLynn il sangue mestruale era davvero qualcosa di raro ed estraneo: aveva avuto un’isterectomia a undici anni, dovuta a una Cosa Molto Brutta che Seth non voleva raccontare.
SherriLynn scappò in sala da pranzo.
[CONTINUA…]
YGRAMUL è una rubrica curata da Vargas.
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