Testo di Alessandro Chidichimo
Copertina di Claudio Parentela
Io di lavoro faccio ‘u sbirro. Sono dieci anni ormai che porto la divisa e me ne vado in giro cura pattuglia, faccio i posti di blocco, vengo a casa tua se chiami, perché ti hanno arrobbato, se ti litighi con i vicini e qualcuno finisce all’ospedale, oppure se il capitano mi manda a prenderti, perché sai bene quello che hai fatto, o no?
Non ho mai avuto problemi, mai un incidente, mai sparato un colpo con la pistola d’ordinanza, né mi hanno mai sparato addosso. Nemmeno una nota negativa sul mio stato di servizio. Nessuno che ha mai avuto qualcosa da dire sulla mia condotta, né i colleghi, né i civili. Tutto regolare, finora. Niente da segnalare.
Certo, io posso essere pure bravo e buono, fare solo il mio dovere senza far male a nessuno e senza abusare della mia posizione di sbirro, far rispettare la legge seguendo il regolamento e intervenire se ci sono delle infrazioni obbedendo agli ordini del capitano. Perché io obbedisco solo agli ordini e in dieci anni non ho mai preso nessuna iniziativa personale. Posso anche essere il migliore del mondo, ma la gente di qui odia me e quelli come me, gli sbirri. ‘Nculacchitemmuartu1 è quello che ci gridano sempre dietro. Per non parlare degli ‘nculammammata2, povera mamma, pace all’anima sua, che chissà cosa averra pensato d’averci un figlio sbirro. Ci jestimano3 anche se non abbiamo fatto niente di più del nostro lavoro, anche se non li abbiamo arrestati, portati al comando per un controllo, per un interrogatorio. Che posso dire? Insultare gli sbirri fa parte dei discorsi quotidiani, nu ‘nculacchitemmuartu t’u ricuagli sempre, pure quando non lavori e ti riconoscono per strada e al supermercato. E non sono solo gli adulti, che al limite li puoi pure capire, ca su’ sempre arraggiati e che sicuro tutti hanno la coscienza sporca ca ancunu trancano4 sicuro che l’hanno fatto, ma su’ anche i guagliuniaddri5. Tutti ci detestano per partito preso, per tradizione, perché da sempre è così che si fa: ‘u sbirro è nu merda, ‘nculacchilemmuartu. Ecco cosa dicono e cosa insegnano ai figli. Così è diventata n’abitudine e noi sbirri più esperti non ci facciamo più caso, e ormai anche quando ci bestemmiamo contro tra di noi, ci chiamiamo sbirri ‘i merda. A volte le reclute e chiri minchiuni degli sbirri del nord s’incazzano, ma poi sono costretti a farsela passare, perché non ci possono fare niente, non possono mica arrestare tutta ‘a città e correre dietro a ogni ‘nculacchitemmuartu.
Gli insulti e quest’odio sono più o meno tutto quello che la gente ha contro di noi. Non è che ci sparano addosso, cercano di ammazzarci e ci creano grossi problemi. Provano a scappare, certo, succede quando ci mandano a prenderne qualcuno a casa. Si calano dalle finestre, passano da un balcone all’altro, strisciano in qualche buca che hanno fatto nel pavimento, ma che non porta da nessuna parte, perché è stata lasciata a metà, come tutto nella loro vita. Ma li pigliamo subito, ormai è un copione che conosciamo a memoria, e se gli va male prima di essere acchiappati cadono e si rompono un braccio, una gamba e pure la testa.
Mentono, mentono sempre, lo sappiamo, anche se non ne hanno motivo, mentono a priori a noi sbirri. Non hanno mai visto niente di niente e non conoscono nessuno, come se fossero arrivati ieri nella città dove sono nati e da dove non si sono mai mossi. E no, non c’è verso di farli parlare. Facciamo le domande di routine, ma sappiamo che nessuno ci dice la verità. Sempre provano a fricarci, senza farsi fricare6.
Noi, gli sbirri, cioè come dicono loro gli sbirri ‘i merda, facciamo parte del mondo in cui vivono e sanno che non c’è niente da fare per mandarci via. E che pure che io mi prendo una pistolettata e muoio, oppure vado in pensione e finisco di girare in queste strade, dopo di me ce ne sarà un altro e poi un altro sbirro ancora. Noi, gli sbirri ‘i merda, siamo una rottura di palle e iattura inevitabile con cui convivere e con cui prima o poi c’hai a che fare, ed è tutto. Noi siamo noi, loro sono loro, ‘nculacchilemmuartu. E non ci può essere niente tra noi: né amicizia, né alleanze, né accordi, né una tregua, niente proprio.
Lo Stato qui, e noi con lui, non è il benvenuto. Fossa pi’ loro, creavano ‘na colonia indipendente, senza leggi né Stato e soprattutto senza sbirri. E un po’ già l’hanno fatto, ma non grazie a una loro iniziativa, figurati, perché loro c’hanno la vilienza7, ma perché lo Stato ha abbandonato la speranza di tirare fuori qualcosa di buono da questi poveracci e tutto quello che fa sono solo inutili interventi improvvisati, qualche arresto da campagna elettorale e un nuovo parcheggio. E allora penso che c’hanno pure ragione d’essere arraggiati.
A volte mi chiedo come i ladruncoli morti di fame di qui sono accussì minchiuni, ca ara fine si fanno sempre arrestare. Sicunn’ammia forse lo fanno apposta per starsene un po’ di tempo chiusi in galera: fuori dal mondo, ma al sicuro. E su questo li capisco. Pure a me certe volte mi viene da chiedere la pensione anticipata e andarmene via. Ma poi penso: e pu’ chi fazzu? Perché la pensione, se me ne vado mo’, sono due spicci che non ci vivi, e io sono solo e non so stare con la gente. Mi pare chiaro che la gente unn’è cazzu d’u miu – ‘i fimmine pu’ unni parramu proprio.
Certo che pure io signu statu curi fimmine. C’ho provato, nu par‘i vote, grazie anche al cosiddetto fascino della divisa da cui certe ciote8 del centro città si fanno fricare – perché nel quartiere mio mai e poi mai nessuna si mintissa ccu nu sbirro. Ma la relazione più lunga che ho avuto – se di relazione si può parlare – è durata nu par‘i misi più o meno. Alcune mi hanno mollato dicendo che ero freddo e, per mettere a verbale fedelmente le loro affermazioni e i fatti accaduti, gli pareva di «andare a letto con un baccalà surgelato». Altre scomparivano, non mi telefonavano più e io non le telefonavo. Devo ammettere che nemmeno il sesso mi interessava: troppa ciroma9 per così poco, avevo pensato dopo la prima volta che l’avevo fatto e la mia opinione non era cambiata. E non capivo tutto st’accanimento a parlarne sempre. Così avevo smesso del tutto di cercarne e stavo bene così. A mmia in fondo, un minni fricava nnente di nente. La mia vita andava bene così, a starmene da solo.
Pure io sono di qui. Questa è la città dove sono nato e cresciuto fino ai diciott’anni, quando finita ‘a scola ccu nu diploma all’istituto tecnico, sono entrato nelle forze dell’ordine credendo che avrei viaggiato, avrei visto posti nuovi, fatte nuove esperienze e magari vissuto qualche avventura. Insomma, speravo di aver fatto la cosa giusta per una vita diversa da quella degli altri del quartiere, che molti non sono mai usciti nemmeno dalla città, se non per finire in qualche carcere lontano oppure emigrare in Germania a fare gli operai in lavori infami e scomparire per sempre. Invece, nu cazzu, nu cazzu proprio. Dopo il corso di formazione e addestramento di dieci mesi più un altro periodo di qualche mese al nord, che c’era nu friddu ca mi si ghiacciavano ‘i mutanne e mi faceva jestimare tutto e tutti.
‘A verità, era che io al nord non mi ci trovavo bene a fare lo sbirro. Non solo in caserma mi smerdavano come terrone, ma inoltre non capivo come parlavano e soprattutto erano troppo rigidi e formali. Il regolamento era seguito così alla lettera che diventava un altro regolamento e mi sembrava che facevano a gara a chi era più testa di cazzo, soprattutto con noi nuovi arrivati, forse perché anche fare la testa di cazzo era parte dell’addestramento. E poi – lo ripeto perché è vero – c’avevo freddo tutto il santo giorno e cancariavo10 la notte quando uscivamo in pattuglia. ‘U friddu soprattutto era insopportabile. Perché le persone in fondo su’ ‘i stesse da ogni parte: basta che c’hanno nu poco ‘i potere e si cridano subito gesucristi. Che miseria l’animo umano, o no?
Mo’, pare che non lo fanno più, che non sei mai assegnato al territorio da cui vieni. Però all’epoca si diceva pure che uno poteva usare le conoscenze che c’aveva sul territorio per avere facilità nel risolvere problemi e che la popolazione si sentiva più tranquilla con uno sbirro, che sempre sbirro ‘i merda rimaneva, ma che almeno era di lì come loro, che parlava il loro dialetto e non uno sbirro nordista di merda (due volte merda quindi), per esempio, che li faceva sentire invasi da uno straniero – e in più sbirro. E a loro, a quelli del comando, andava bene ficcarmi di nuovo nel buco da dov’ero uscito, se ne stessero tra di loro gli scimpanzè, avevo sentito dire a un capitano, ‘nculacchilemmuartu. Perché pure che eri sbirro come loro, quelli del nord sempre merde restavano.
Qualcuno può pensare che andando a lavorare nella mia città, ero ricattabile, che la delinquenza usava la mia famiglia per farmi fare quello che volevano loro, oppure ancora peggio che magari c’avevo nu cugino delinquente ‘ndranghetista con cui ero d’accordo per fare traffici e fricare gli sbirri. Ma leggendo il mio breve dossier, si vedeva che non c’avevo nessuno. Figlia unica con genitori deceduti, mamma, pace all’anima sua, era morta che ero guagliuniaddru che nemmeno me la ricordo – un sorriso, forse, dei capelli che si muovono perché ci doveva essere vento e io che allungo una mano per toccarli, ed è tutto. Papà, di lavoro postino, ultimo sopravvissuto di due fratelli morti col padre e la madre in un incidente al chilometro ventidue della superstrada statale che porta al mare facendo un frontale con un camion che trasportava bombole del gas quando era adolescente, l’aveva raggiunta all’altro mondo subito dopo che io ero entrato nelle forze dell’ordine e c’avevo uno stipendio: come a dire che mo’ se ne poteva andare dall’unica persona che gli era mai davvero interessata, cioè mamma.
Era stato proprio papà a farmi fare domanda per le forze dell’ordine. Forse sperava pure lui che mi mandavano lontano e che nel nostro quartiere e in tutta la città addirittura, non mi ci vedevano più. Ma, comunque, un lavoro l’avevo e non finivo mezzo delinquente e, ancora peggio, morto di fame disoccupato. Aveva deciso per me che non ero molto intelligente e nemmeno c’avevo ambizioni. Finire a prendere ordini senza pensare troppo, mi aiutava a stare al mondo. Con mamma morta, io per lui ero più un problema da risolvere che ‘na consolazione o addirittura ‘na gioia. Penso che in fondo ‘un linni fricassa nnente di me. Non mi abbracciava mai, non mi sfiorava nemmeno, mai una mano sulla spalla oppure che mi prendeva in braccio se ero troppo stanco. Non mi diceva mai qualcosa di bello, non mi portava mai al mare, mancu nu gelato, che vabbè non eravamo ricchi, però nu gelato una volta tutti lo possono comprare. Mi diceva solo quello che dovevo fare o non fare, come se mi stesse già abituando alla vita da caserma. Poi, dopo aver dato gli ordini, non parlava per tutto il resto del giorno. Quando eravamo da soli, io e lui, dopo la scuola e il suo lavoro da postino, perché non mi dava il permesso di andare in giro con i compagni di classe così come lui non vedeva i colleghi o altri amici e dovevo tornare subito a casa, dopo che mangiare, vestirsi, lavarsi, i compiti di scuola, tutto quello che dovevo fare era finito, ce ne stavamo zitti a guardare davanti a noi. Non accendeva nemmeno la televisione e io non potevo farlo – mo’ ca ci pianzu ‘un m’arricuardu di averla mai vista appicciata. Finché a me veniva sonno per la noia e lui diceva: beh, adesso a letto. E c’aveva il tono di uno che voleva dire: dopo questa lunga serata di divertimento, è il caso di andare a riposarsi perché sei stanco. E se non mi alzavo subito, perché mi ero proprio addormentato supa ‘a seggia oppure facevo finta, sperando che mi toccasse con la mano per svegliarmi, lui allora prendeva il palo della scopa e mi scuoteva con la punta sul petto e dandomi piccoli colpi sulle braccia e le gambe. Finché io rassegnato non mi alzavo e andavo a letto da solo. Il palo della scopa era l’unica cosa con cui mi ha mai toccato.
A forza di non parlare, si perde l’abitudine. Sembra che ti dimentichi come bisogna dire le parole e stare cittu diventa ‘a regola. E quando parli, se parli, è come se ti dimentichi che parlare si fa in due. È come se cammini all’indietro, così non vedi verso dove vai e quello che hai davanti agli occhi – la gente, i posti, le cose, la vita, il passato che hai – diventa sempre più piccolo e distante. E se ti parlano, è difficile ascoltare cosa dicono – e più parlano e più tu sei lontano. E se succede qualcosa, da quella distanza e con le spalle voltate, è difficile capire cosa succede. Io e papà stavamo lì, lontani, e ognuno da solo. Papà aspettava di andarsene del tutto e raggiungere mamma. E, in fondo, anche io aspettavo di andarmene, ma nella direzione opposta, come se tutto questo indietreggiare silenzioso, mi serviva per prendere la rincorsa. Ma per andare dove?
Il dialetto unnu sacciu11 parlare bene, figurarsi scriverlo. Con papà non solo non parlavamo mai, ma quando parlava, i pochi ordini che mi dava, erano in un italiano strascicato, con l’accento certo, ma mai in dialetto. Forse non voleva che io avessi qualche legame qui, nemmeno con la lingua, dovevo essere uno sconosciuto a questo mondo. La solitudine doveva essere assoluta, forse per non soffrire mai. Così l’unico dialetto che ho imparato è quello che ho sentito a scuola dai compagni di classe, a volte in strada, ma poi visto che tornavo a casa subito dopo, non c’era il tempo che attecchiva, che lo facevo mio. E mamma chissà in che lingua mi parlava, non me la ricordo la voce di mamma, non ho un suono per lei. Accussì, certo, posso dire qualcosa, c’ho l’accento, ma sbaglio spesso, non lo so dire, invento qualche parola, e i suoni soprattutto quelli che mi sembra hanno tante d e tante g, come cuddgrurieddgru o non so come si scrive12, le improvviso come se le ho appena sentite la prima volta. Così sembro di qui, ma anche di un’altra parte. Basta che apra la bocca per dire qualcosa in dialetto e tutti capiscono che c’è un problema, che faccio finta, pensano. Capisco, eh, capisco quello che dice la gente qui. Ma resto sempre come un turista a casa mia. Così anche io preferisco non parlare molto. Rispondo solo alle domande e agli ordini.
Nella città, nel quartiere dove faccio il giro io, di delinquenti seri, gente pericolosa curi cazzi, non ce ne sono mica. Sono tutti rubagalline, campioni mondiali in fricacumpagni13, trafficanti vari, piccoli delinquenti e scassinatori maldestri che vengono da famiglie di delinquenti che vivono dentro e fuori dal carcere. Non è niente rispetto alle grandi città dove c’è lo spaccio di droga serio, dove si spara per davvero senza dire buongiorno e buonasera, ci stanno le grosse attività delle organizzazioni criminali e le gang – tutte robe di cui ho solo sentito parlare nei racconti di altri sbirri, quando ce ne stiamo seduti in macchina ad aspettare. Da qui a pensare a un rapimento di un familiare di uno sbirro, oppure una minaccia di ammazzamento di figlio o di mammata, ci vuole una fantasia sfrenata, daveru ‘na sconoscenza della gente del posto. Lo ripeto: qui, noi sbirri siamo odiati come la jella, scansati come la merda di cane per strada, jestimati male, ma poi le cose finiscono lì più o meno.
Ammazzare unnè crianza. Quelli che ammazzano sono altri ancora, che vivono pure qui, lo sappiamo, come no, ma di cui non si parla nemmeno e fanno di tutto per fare come se non esistono. Certo, anche i piccoli delinquenti se possono tirarci ‘na palata ara capo, avendone la possibilità senza che noi sbirri li vediamo, o farci proprio ‘na paliata14, non perdono l’occasione, ma senza ammazzarci, solo per poterlo raccontare in giro agli amici e prendersi ‘na bella soddisfazione. Perché anche se uno sbirro non gli rompe le palle e non ha arrestato mai nessuno dei compagni loro, dua paccari15 se li merita di defolt.
Io personalmente non ho mai ricuoto paccari – almeno finora. Forse perché i delinquenti locali vedono che in fondo in fondo pure io non so cosa sto facendo e che forse potevo essere anche dalla loro parte, se solo i ladri c’avissano nu stipendio assicurato e contributi per la pensione e un ufficio dove papà mi poteva iscrivere. Insomma, forse, si sono accorti che infine ‘un minni frica nnente. Dello Stato e di tutta la retorica che sentivo circolare in caserma quando facevo l’addestramento e dovevano provare a convincerci che eravamo dalla parte dei buoni e a farci credere a qualcosa oltre che al posto fisso e che era ‘na figata di portare ‘na pistola, ‘un minni frica nnente. Di fare arresti, di avere successo, di fare il mio dovere, ‘un minni frica nnente. Della patria, della famiglia, della chiesa, ‘un minni frica nnente. E quando devo cantare l’inno nazionale o stare sull’attenti davanti alla bandiera che siamo passati in rassegna ‘i nu sinnacu o nu vescovo, a me tra le labbra viene sempre da dire ‘nculammammata, perché l’odio per quelli che c’hanno il potere, ce l’ho pure io, ci sono cresciuto, filtrava pure nel silenzio di papà, lo ritrovavo ogni volta che uscivo di casa, a ogni appello delle presenze la mattina a scuola. L’unica cosa che voglio è che nessuno mi rumpa ‘i palle e tornarmene la sera a casa sano e salvo e senza avere problemi, e, adesso lo capisco, senza aver vissuto.
Io non faccio niente di più di quello che mi dicono di fare. Constato il reato, che posso fare d’altro? Il capitano mi dice di arrestarli e io li arresto. Cchi minni frica a mmia? Tanto lo so, ve l’ho detto, che loro in galera ci stanno pure bene, c’hanno l’amici e a volte sono pure fieri di andarci, che vuol dire che sono diventati delinquenti veri, certificati dallo Stato, ccu puru nu fissa cumammia16 ca l’arresta. A me basta eseguire gli ordini, e sbrigarmi in fretta per non trovarmi troppo invischiato in burocrazia e complicazioni del regolamento e rapporti, ca su’ sempre rotture ‘i palle. Mo’ che sono dieci anni che faccio lo sbirro, ho capito pure come scaricare il lavoro sugli altri. Chiri minchiuni d’i sbirri del nord, per esempio, tutti ligi al dovere e sempre a sottolineare che si fa così come fanno loro nè, perché loro seguono le regole nè, perché loro ‘nculacchilemmuartu dico io. Oppure i colleghi giovani che sono tutti entusiasti come s’avissano scoperto ‘u cazzu e io gli suggerisco, ascoltami ca tiegnu decianni d’esperienza, che fanno bella figura se scrivono un bel verbale ordinato, lo firmano e lo portano al capitano personalmente.
No, a questo lavoro non ci credo. L’avete capito. Non ci credo che cambiamo le cose davvero, come dicono ara televisione. Facciamo parte di un sistema di equilibri e navighiamo a vista, senza ‘na direzione, secondo quelle che sono le priorità della giornata. Non c’è nessun vero grande progetto per cambiare le cose, e nemmeno le piccole, o solo il quartiere da dove vengo io per esempio, o solo una persona. C’è sempre un’altra priorità, più importante, più urgente. C’è sempre un nuovo ministro, un nuovo comandante, un nuovo sinnaco che deve fare vedere che lui fa qualcosa, che è una fortuna, che è stata fatta la scelta giusta d’averlo nominato, eletto, votato, e ara fine ci andiamo di mezzo noi. E poi che cosa dovremmo cambiare? E se poi cambiamo in peggio? Chi lo dice che i cambiamenti sono una buona cosa?
Non provo nemmeno un qualche piacere personale a portare la divisa, l’arma di ordinanza, né mi diverto ad andarmene in giro con la macchina tutta sparata a cento all’ora in centro città cura sirena e i lampeggianti. Su’ tutte minchiate! E ‘un mi piaciano i colleghi ca si sentano importanti. Per me è solo un lavoro e lo faccio solo per avere i soldi e starmene tranquillo. Io faccio ‘sto lavoro come ne farei un altro, come un impiegato normale. Non ho ambizioni di diventare generale cum’a nu mitomane, e nemmeno capitano, ca su’ sulu rutture ‘i cugliuni.
Se devo dire la verità – ma che resti tra noi – nemmeno nella legge ci credo. La legge è una parola complicata che è difficile da spiegare e nemmeno io la capisco tanto. Ma noi sbirri non è che dobbiamo capire tutto della legge: ci aiuta la catena di comando a sapere cosa fare e cosa non fare seguendo il regolamento. Non dobbiamo farci troppi problemi e non dubitare. Soprattutto qui dove non succede mai o quasi mai niente di grave proprio. Dove se sei spiartu, ne esci in piedi e senza problemi né dai delinquenti né dal comando. C’è uno spazio tra la legge e la sua applicazione dove proviamo a starci tutti. E se c’hai i soldi e un buon avvocato e se non l’hai fatta proprio grossa, tipo che ti trovano con la testa di tua moglie sul tavolo della cucina incartata nella carta acetata che si usa per il pesce, allora te ne tiri fuori con poco o niente. Scusate il dettaglio macabro, non sono solito dire queste cose così, non è buona educazione, unnè crianza, dicono qui. Ma non sto inventando niente, non sono uno che inventa, come quegli scrittori che sono pronti a inventare qualsiasi cosa per farsi amare, per farsi dire bravo, o peggio ancora gli attori teste vuote che vivono vite che non hanno mai vissuto, manichini che cambiano vestito ogni stagione, io riporto solo i fatti. C’era stato davvero il caso dell’avvocato del paese vicino che aveva fatto notizia in tutta la nazione e io ero pure finito per un secondo al telegiornale, mentre lo portavo fuori da casa sua che ancora indossava il grembiule da cucina sporco di sangue. E i miei colleghi mi avevano applaudito, non tanto per l’arresto perché mi c’ero trovato, perché era il turno mio, ma per essere stato visto aru telegiornale: un vero evento nella nostra noiosa routine quotidiana e io ci facevo ‘na figura di vero sbirro che fa il grande arresto. Per fortuna della testa della moglie dell’avvocato se n’era occupata la polizia scientifica che era stata mandata da una delle caserme centrali più grosse. Io, quando ero entrato con il collega, avevo solo visto un pacchetto rotondo come un pallone da calcio e nemmeno una goccia di sangue sul tavolo o per terra. Noi abbiamo constatato il sangue sul grembiule dell’avvocato e l’assenza della moglie e ‘sto pacchetto sul tavolo e chiamare al comando. I colleghi sono arrivati diretti diretti con la televisione già pronta che li seguiva.
L’avvocato era un uomo ordinato e meticoloso, caratteri indispensabili, credo, per fare un lavoro come il suo e per farlo bene, nell’interesse del cliente, perché ne ho visto capre, altro che avvocati, che ar’imputati li perrupano17 facendoli condannare ancora peggio. Ordine e meticolosità sono pure cose che ti servono per farla franca se hai commesso un omicidio e un crimine in generale. Quelli che si fanno fricare spesso sono per dei dettagli dimenticati e per la confusione generale in cui vivono e fanno le cose. E, inoltre, devo dirlo, malgrado l’orrendo crimine dell’omicidio della povera moglie, l’avvocato era stato molto educato con noi sbirri e non aveva fatto resistenza né nessun problema. Quando abbiamo bussato alla porta, mandati a vedere dalle telefonate insistenti della sorella della moglie e dalla sua intervista alla televisione locale, finché il capitano ci aveva detto di andare a vedere che così la finisce di romperci i maron’, l’avvocato ha aperto così come si trovava, non ha cercato di scappare e nemmeno provato a mentire. Aveva già capito chi era che lo cercava. Era venuto con noi silenzioso e poi aveva risposto a tutte le domande, collaborando il più possibile con il capitano. Io volevo sapere anche perché aveva fatto ‘sta cosa orribile, c’averra voluto parlare, per capire. Mi faceva strano di non sapere veramente perché l’avìa fatto, oltre a quello che hanno detto alla televisione. Ma non è compito mio fare queste domande e nessuno ci teneva a saperlo per davvero. Tutti avevano fretta di archiviare il caso, condannare l’avvocato e dimenticare, anche e forse proprio perché questo crimine era qualcosa di troppo enorme per questa piccola città. Forse è stata una mia impressione, ma dopo quest’omicidio, qualcosa è cambiato in città e forse pure dentro me. Continuavo a pensare a quel pacco incartato sul tavolo della cucina e alla calma dell’avvocato. Ma il mio lavoro era finito nel momento in cui l’avevo consegnato al comando. Pensare ai perché e spiegare le ragioni, era ‘na cosa per i superiori e per chiri fissa d’i giornalisti – n’altra categoria ‘i spirtazzuni ca cridano che il mondo sia davvero come ce lo dicono loro.
Un’altra cosa l’avvocato non c’ha saputo dire, o meglio non c’ha voluto dire: dov’era finito il resto del corpo della moglie che non era stato più trovato. E io credo ch’è stata solo una questione di fortuna: se arrivavamo un giorno dopo, se la sorella della moglie non faceva ciroma cura televisione, magari non trovavamo nemmeno la testa e il sangue sul grembiule, se all’avvocato gli davamo tempo, lo mandava via cura varichina o jettatu ‘u grembiule. E senza testimoni né prove, né il corpo del reato, era davvero difficile riuscire a tenerlo in prigione.
Voi non ne avete idea, vinni state tranquilli seduti a leggere, ma un sacco di gente scompare ogni anno e non se ne sa più niente. Noi sbirri non riusciamo a ritrovare tutti. E magari la moglie dell’avvocato finiva come una di quelle. E poi come sospettare di un avvocato? Come non credergli se diceva che non ne sapeva niente? Di certo aveva pensato a tutto. Era n’uommino ‘i crianza, mica nu delinquente ignorante cumu vu’avutri18 che vi accontentate di fricare tutto quello che vi capita e vivete alla giornata.
Quando finisco il lavoro, faccio la spesa se ne ho bisogno, e poi resto solo a casa a guardare dalla finestra, mentre la televisione alle mie spalle resta sempre accesa anche se non la guardo e anche se non l’ascolto. D’estate me ne sto sul balcone. Ai vicini non piace, perché sanno che lavoro faccio e si sentono sorvegliati: «’Stu capi ‘i minchia ‘un sinni po’ sta’ chiusu ara casa?» e chiudono le tende. «‘Nculacchilemmuartu!» e sputano dalla finestra. A mmia ‘un minni frica nnente di chiru ca pensano e dicianu. Io resto sul balcone, zitto, e guardo davanti a me, guardo il cielo. D’estate ascolto la radio. Notizie e musica, senza capirci nulla né delle une né dell’altra. Leggo i titoli del giornale sportivo che compro rientrando a casa, perché poi ho qualcosa da dire con i colleghi nella volante o quando dobbiamo fare degli appostamenti inutili che sono sempre nu cacamento ‘i minchia. Un minni frica nnente nemmeno d’u pallune, ‘a verità, ma qualcosa devo dirla, sinnò i colleghi s’esaurisciano ccu mmia e io finisco chiuso in caserma dietro ‘na scrivania a riempire carte, o peggio che peggio d’u psicologo, che mo’ in ogni caserma c’è ‘u psicologo ca ti caca ‘u cazzu non appena sbalestri nu poco.
Camminare ti fa scoprire un sacco di cose. Una cosa che non vi ho detto è che io cammino, cammino dappertutto. Non solo per fare la spesa, per andare al lavoro e tornarmene a casa, ma anche solo per camminare. Alla gente non piace vedermi in giro e al comando gli sembra ‘na cosa strana. Ma quando cammino posso pensare. Non ho qualcosa di preciso a cui pensare, ma giusto un pensiero, come una distrazione dell’attenzione a tutto quello che mi sta intorno, che accompagna il movimento, che mi fa sentire che posso continuare all’infinito e magari camminare fuori dal quartiere e poi dalla città, senza fermarmi. Finito il lavoro, spesso già in caserma senza nemmeno tornare a casa, mi levo la divisa prima di uscire, e poi cammino – pure che c’è la pioggia o il sole forte. E quando, certi giorni, sento che quel pensiero delle gambe non basta, che la disattenzione non è sufficiente, che voglio provare a ricordare qualcosa, non so cosa, forse mia madre, allora cammino di più finché non è notte e poi di nuovo mattina. C’ho la macchina, certo, come fai a vivere senza macchina qui? Ma la uso solo se devo fare delle commissioni e non ho tempo, quando mi sono comprato il nuovo divano, per esempio, oppure quando me ne vado in giro una volta la settimana solo per tenere in vita la batteria e le gomme.
A volte ho pensato che cammino per ritrovare pure un contatto con mio padre, quello che non ho avuto nel suo silenzio. Come postino, a quei tempi, si faceva tutto il lavoro a piedi, non c’avevano motorino né macchina di servizio. Qualcuno si era organizzato con la bici se doveva andare nei nuovi quartieri che si creavano ai confini della città, ma lui camminava sempre facendo il suo giro di consegne. Prendeva il pacco di lettere al centro di smistamento e poi partiva a piedi. Usciva presto di casa e tornava nel primo pomeriggio, o al più presto quando aveva finito. Non gli cambiavano mai il giro, se non per qualche emergenza, quando c’era da coprire il turno di qualcuno. Quando morì mamma, lo hanno messo in ufficio a smistare le lettere. Non usciva più per fare il giro e lavorava in silenzio. Forse i suoi superiori avevano capito che non aveva più voglia di di camminare, di andare da qualche parte, non c’era più nessun posto dove andare.
Ecco, insomma, com’era la mia vita. Credo che è abbastanza. Come dicevo, io non ho mai preso un’iniziativa che fosse mia, personale. Se continuavo a fare come sempre, nulla di tutto quello che vi racconto – e nemmeno ‘sta cosa di raccontare – succedeva. Ma unnu sacciu chi m’ha pigliato chiru juarnu. Forse non avevo scelta, era quella cosa che si chiama destino. E questo è il mio verbale di com’è andata per davvero e perché le cose sono cambiate e perché mi ci sono trovato.
Dopo il lavoro c’era ancora nu sule ca ti bruciava tutto, fuori la pelle e dentro la bocca, e ti confondeva lo sguardo con il sudore sulle ciglia. Come sempre volevo camminare fino ara casa, pure ca facìa cavudu, pure che il capitano mi aveva detto che mi accompagnava lui perché ci doveva passare con la volante e forse voleva parlarmi, forse perché dopo il caso dell’avvocato era tutto nu nervo e questa cosa che io camminavo giorno e notte per la città ‘u facìa sta’ supa pensiero. Era ‘na cosa di cui i colleghi gli parlavano e chissà ch’avissa pensato se mi vedeva pure, proprio come i vicini, ogni giorno sul balcone zitto ad ascoltare la radio e a guardare davanti a me. Ma non mi piaceva stare in compagnia del capitano quel giorno. Di solito la sua presenza mi rassicurava, perché così non dovevo decidere niente, eseguivo gli ordini, gli davo ragione e tutto andava bene. Ma quel giorno no – e soprattutto se mi voleva parlare del fatto che camminavo, che poi era ‘na cosa solo mia, che non riuscivo a spiegare e nemmeno illegale. Volevo stare da solo, come sempre, senza dover rendere conto a nessuno. E poi l’orario di lavoro era finito, perché dovevo passare del tempo con un collega anche dopo il lavoro? Non era nel regolamento. Me ne sono andato di fretta per non stare a dare altre spiegazioni. E lui non c’ha potuto fare niente.
Passavo per delle strade da cui sicuro c’ero già passato, ma forse non ci avevo fatto tanta attenzione, oppure era la stagione, unn’u sacciu, quando cammino ho spesso ‘a capu vulata19. C’era una fila di tutte case vecchie che non erano nemmeno appartamenti, ma proprio case di uno o due piani, fatte di mattoni e pietre e senza intonaco all’esterno. Tra le pietre a volte si vedevano erbacce che c’erano cresciute. Erano di quelle case che sono rimaste in città e che il comune aspetta di espropriarle e i privati di comprarle per abbatterle e farci nu palazzo ‘i deci piani. Quel giorno mi sono fermato a guardarle meglio. Forse perché faceva davvero troppo caldo e mi dovevo riposare. E forse anche per far dispetto a chiru cacaminchia d’u capitano. Davanti alle case c’erano piccoli giardini. Alcuni ben tenuti con qualche pianta fiorita e un piccolo orto ccu dua pimmaduri e dei panni stesi ad asciugare su un filo di ferro tirato tra il muro e un alberello. Altri erano abbandonati a sé stessi da molto tempo ed erano pieni di erbacce e piante venute fuori dalla terra senza essere state piantate e senza che qualcuno si era occupato di tagliarle. Davanti all’entrata di una di quest’ultime con la porta di legno azzurro, del colore chiaro che si usava una volta nelle case di campagna qui, e due scalini, c’era un giardino aggiustato alla buona, senza fiori e verdure, dell’erba mezza bruciata dal sole, e tre alberi di fichi con i frutti che sembravano maturi, verdi e poi rossi, di quelli grossi, che si chiamano fioroni, e certi si vedeva anche da lontano che erano già buoni. Che fortuna, ho pensato, di averci questi alberi davanti casa. Chissà chi ci abita? Se anche io c’avevo un giardino con questi alberi potevo essere felice, non puoi essere triste con dei fichi nel tuo giardino. M’immaginavo che me ne stavo seduto in giardino, guardando la gente passare – che tra i denti invidiosi diceva ‘nculacchitemmuartu – mentre aspettavo che i fichi fossano buani per mangiarli. Ero ancora fermo lì. Ho voltato la testa a destra e a sinistra, per vedere che nessuno mi vedeva. Sono entrato nel giardino. Volevo rubare un fico, sapere che sapore aveva. Volevo sapere com’era avere una vita diversa. Non avevo mai rubato niente in vita mia. Non ne avevo avuto il tempo essendo entrato subito nelle forze dell’ordine e, per seguire il regolamento, l’arrobbare me l’ero proprio scordato. Ma quei frutti, grossi e carnosi, che pendevano dall’albero in quel giardino tra le case vecchie, inaspettati, il fresco delle grandi foglie che adesso sentivo standoci sotto, senza nessuno in giro a guardarmi e quel silenzio, erano irresistibili.
Solo quando mi ero fatto sotto l’albero, già il fiorone era aperto e ne mangiavo, ho sentito il rumore delle grida che veniva dalla casa, perché credevo che mi avìano visto ca fricavo i fichi. Erano in due almeno. Un uomo e una donna. Lei gridava. Lui pure. Ma non era con me che ce l’avevano. Ho mangiato d’un colpo quello che restava del fico e mi sono pulito le mani sui pantaloni e invece di andarmene prima di essere scoperto, forse per sapere chi c’abitava, di chi erano quegli alberi che non erano i miei, forse perché ormai avevo superato un primo limite, infranto una prima regola, ed era facile continuare, sono scivolato dentro la casa, senza farmi accorgere da loro, perché adesso vedevo che la porta era mezz’aperta, come se qualcuno era entrato di fretta senza pensare a chiuderla. C’era un ingresso dove non c’era nessuno e subito sulla destra un breve corridoio con un’apertura larga sulla destra, senza porta, che doveva dare su una stanza da dove sentivo venire insulti e minacce.
«Cchi vo’ fa’ ccu chira pistola?»
«’Nuclacchitemmuartu t’ammazzo!»
«Ma cchi cazzu cunti?!»
«Tu m’ha fricato e mo’ t’ammazzo!»
«Ma si’ ciuatu? Non ho fatto niente! E ‘u sa’ chi ti fanno?»
«Non ti credo! ‘Sta zoccola! E ‘un minni frica nnente si pu’ m’ammazzano a mmia! Nnente!»
«Tu si’ ciuatu!»
«T’ammazzu cumu nu cane!»
Guardai nella stanza di traverso senza farmi vedere. La camera mi sembrava larga, ma non troppo lunga. L’uomo aveva una pistola in mano e stava a circa un metro dalla porta. Sarei potuto entrare e afferrarlo con facilità dalle spalle e buttarlo a terra. Ma gli poteva partire un colpo. Dovevo stordirlo, era più sicuro. Sul fondo della stanza la donna era schiacciata contro il divano marrone scuro di pelle, di quelli vecchi, come se cercava di nascondercisi dentro, ma il suo viso teso e bianco aspettava il momento giusto per fare una mossa, scappare via, saltare addosso sull’uomo. Le dita affondavano nei cuscini.
Ho fatto un passo indietro, nascosto di nuovo dal muro, mi sono guardato intorno. Senza parlare, facendo attenzione a non fare rumore, ho preso una scopa che si trovava nell’ingresso. Svitai il palo di legno, tenendo ferma la spazzola con un piede. I due gridavano più forte, diventavano sempre più violenti.
«Mo’ ti sparo! Ti sparo!»
Il mio corpo si è mosso senza di me.
Il colpo gliel’ho dato rapido sulla nuca.
Che cosa dovevo fare? Se eravate voi al mio posto che cosa facevate? E se lui la sparava e l’aviss’ammazzata? Unn’avìa scelta, ve l’ho detto. Agivo senza essere io.
Il colpo gliel’ho dovuto dare davvero forte. Con tutte e due le mani. Ho sentito come ‘na vibrazione nel legno del palo della scopa. Lui cadde diritto diritto in avanti cumu nu salame e se non l’averra ammazzato la mia legnata, forse è stata la botta che prese sulla fronte cadendo in avanti su un tavolino di vetro che l’è preso proprio in fronte e gli ha spaccato la testa. Il sangue era dappertutto e lui non si muoveva più. E pure le urla erano finite.
Ho pensato alla testa della moglie dell’avvocato incartata sul tavolo della cucina. Mi veniva da telefonargli per chiedergli consigli su che cosa dovevo fare. E pure per parlare con un assassino, l’unico che avevo incontrato in vita mia per davvero, con cui mi sentivo, come dire, in confidenza. Ne avevo visto passare altri, a volte per dei trasferimenti da un carcere, ma lui l’avevo arrestato io, era ‘na cosa diversa. Attraverso di me lui era diventato ufficialmente assassino. C’era scritto pure sul verbale dell’arresto, il mio nome a fianco al suo. Era diverso, eravamo legati per sempre. E adesso anche io ero diventato un assassino. E sentivo ancora il sapore dolce dei fichi.
Lei non parlava. Io nemmeno. Ci guardavamo. Il silenzio era enorme e divenne insopportabile quando il sangue finì di zampillare dalla fronte spaccata. Io stringevo ancora il palo della scopa nelle mani. La stanza era nu sciuaddru20. Il corpo lungo lungo in mezzo che non si muoveva. Il tappeto vecchio come quelli per le camere dei bambini che si vedono alla televisione a fiori colorati gialli e verdi, mo’ era ‘mbusu di sangue21. E io che adesso non sapevo che fare. Poi volevo che il corpo spariva. Poi volevo che sparivo io. Poi volevo che tuttu ‘stu casino non era mai successo. Dieci anni e nemmeno nu problema e mo’ stu guaio. Mi ha pigliato ‘na cosa che volevo che io che vado a fare domanda con papà dieci anni prima, sparivo. Volevo che gli dicevo di no a patrimma. Volevo che patrimma m’avissa dittu ancuna cosa. Volevo che m’avissa aiutato a fare n’atra cosa. Magari entrare alle poste e fare il postino puru io. Volevo ricordarmi di mamma e che non era mai morta. Perché non posso ricordarmi di mamma? Perché non siamo mai padroni della nostra memoria? Volevo che tutto il mio tempo tornava indietro, perché tutto quello che avevo fatto e anche quello che non avevo fatto, in un modo o nell’altro, questi dieci anni tranquilli nelle forze dell’ordine, le centinaia e centinaia di chilometri di pattuglia e le infinite, estenauanti ore di appostamenti, tutto il tempo che non avevo passato con mamma e il silenzio di papà, mi avevano portato fino a qui, davanti a questo corpo morto, con la pozzanghera di sangue che si allargava e io diventato ormai un assassino. E i suoi occhi neri che continuavano a fissarmi. E io mi ci vedevo dentro. Ero nei suoi occhi e non mi permettevano di sparire. Il tempo finiva.
«Vavatinni!22». La sua voce era bassa, ma arraggiata. E io, come obbedendo al capitano che mi scuoteva quando c’avevo ‘a capu vulata e m’incantavo, non ho detto niente, ho aperto le mani lasciando cadere il palo della scopa che è caduto sul tappeto e si è fermato sui piedi del corpo dell’uomo con la testa spaccata, mi sono voltato e me ne sono andato. Forse non vedevo l’ora che qualcuno mi diceva cosa fare. Sono uscito dalla casa, le piante di fico mi sembravano grondare frutti maturi, dolci, che ora erano tutti aperti e carnosi e colavano nel giardino e dicevano di fermarmi a strafogarmi fino ad avere male allo stomaco e sporcarmi il viso, le mani, la camicia, i pantaloni, con le loro membra aperte. Sentivo che il sangue dell’uomo mi aveva spruzzato dappertutto. Anche se non vedevo nemmeno una macchia. Eppure mi sentivo sporco e imbevuto, appiccicoso, della carne dei fichi. Ho camminato per almeno due ore, o forse anche di più, senza una direzione precisa, c’era solo il vuoto, il silenzio. Poi mi sono sentito stanco tutto insieme, come mai prima, e sono andato a casa, camminavo e desideravo, forse come mai prima, quel vento tra i capelli.
Faceva ancora caldo, sono arrivato a casa che ero tutto sudato e freddo. Non me ne ero nemmeno accorto che avevo sudato. E il freddo era sorprendente. Forse era stata ‘na crisi ‘i panico. Mi sono levato tutti i vestiti. La camicia, il pantalone, le scarpe, tutto. Ho verificato attentamente, molte volte, che non ci fossero macchie di sangue. Poi ho messo tutto in lavatrice, perché mi sembrava che era meglio non correre rischi. Sono rimasto in mutande e canottiera. E mi sono seduto sul bordo della vasca da bagno a guardare la lavatrice che girava. E solo allora il mio cervello da sbirro ha cominciato a pensare come uno sbirro. Che ci facevo a casa? Dovevo andare subito al comando a chiedere aiuto ai colleghi. Anzi, no, il regolamento dice di aspettare sul posto dell’incidente l’arrivo dei colleghi. Che ci facevo a casa? Forse non era ancora tardi per tornare da quella lì, alla casa con i fichi, e chiamare il comando dicendo di mandare un paio di volanti e forse veniva il capitano in persona. E a lei che gli succedeva? E a me? Finivo in galera? Uno sbirro in galera se la passa brutta. L’avevo ammazzato per legittima difesa, potevo dire e, in un certo senso, era pure vero, perché l’avevo colpito per salvare la situazione, per impedire che quello sparava. Trovandomi in presenza di una situazione di emergenza con una vita di qualcuno a rischio e nel mezzo dello svolgimento di un crimine, nonostante non ero in servizio, senza l’arma di ordinanza, ero stato obbligato a intervenire e avevo improvvisato con quello che avevo trovato a disposizione sottomano. E non era mia intenzione di ucciderlo. Era stato evidentemente un incidente. E no, non avevo rapporti con il morto né con la possibile vittima. Era la prima volta in vita mia che l’incontravo. Io volevo solo stordirlo e i colleghi di certo riuscivano a dimostrare che a ucciderlo era stato il colpo sul tavolino. Però nu muartu supa ‘u dossier tuo, quando sei fuori servizio e le cose non sono chiare, e poi nu muartu bastonato, non ci faceva mai ‘na bella figura. E poi chi era quella là? Come potevo davvero dimostrare che non la conoscevo proprio e che non c’avevo niente a che fare con le loro pistole e gli affari loro? E di che affari si trattava? Perché quello la voleva ammazzare? Ne sapevo qualcosa io? Non potevo nemmeno dire che io volevo solo fricare nu fico. Nonostante era la verità, tutti già li vedevo che pensavano che ero nu fissa che non aveva un alibi e che mo’ improvvisava. Era come confessare ‘na colpa. La mia carriera era finita. Come era successo a papà, prendevano e mi seppellivano sotto le carte, niente più pattuglie, né andare in giro. Possibilmente trasferito in un posto inutile e lontano da qui. C’era pure la possibilità che mi costringevano alle dimissioni anticipate e che con soli dieci anni di servizio, con i soldi che avrei preso non ci avrei fatto nu cazzo. Mi dovevo trovare un altro lavoro, forse vendermi casa e andare via comunque, perché non ero solo sbirro ‘i merda, ma pure uno che ammazza la gente e nessuno, ancora più di prima, mi voleva vedere in giro e mi facevano dispetti, vrusciato l’auto, forse la porta di casa. E poi quello ammazzato non aveva amici? Non aveva gente come lui con le pistole che volevano vendicarsi? E chi mi difendeva a me? Io che non avevo amici, non avevo nessuno? La mia vita com’era prima, era ormai impossibile. Nessun posto dove nascondermi. E qui mi sono addormentato così, seduto sul bordo della vasca da bagno.
Nessuno mi è venuto a cercare la notte né la mattina dopo, né nei giorni seguenti. Passò ‘na simana così. Da nessuna parte ho letto la notizia di un uomo morto con la testa spaccata. Non c’è state nessuna denuncia al comando. Tutto regolare. Mi sembrava come se avevo sognato. Io continuavo ad andare al lavoro normalmente, fare la spesa, starmene sul balcone ad ascoltare la radio e guardare davanti a me, come se non era successo niente. Che dovevo fare?
Passò n’atra simana e niente. Forse chiru unn’era mmuartu. M0’ io non ho molta esperienza, ma ‘na capu spaccata cu tuttu chiru sangue, unn’è ‘na cosa ca ti salvi. Non sapevo che fare. Se dovevo parlarne con qualcuno, oppure se dovevo andare a casa di quella là per vedere che stava succedendo. E non volevo fare ricerche né da solo e né al comando. Restavano tracce delle ricerche e in un’inchiesta e con un morto, erano sospette. Di lei nemmeno nessuna notizia. E come poteva contattarmi, non aveva il mio numero e forse non sapeva nemmeno il mio nome – anche se uno sbirro, uno come me, nato lì e che se ne sta sempre in giro a passiare, tutti ‘u canusciano. Io non sapevo come si chiamava. Non avevo nemmeno guardato sulla porta di casa se c’era un nome. Né l’ho vista per strada quando facevo in modo di passare davanti casa sua con la volante. Finito il lavoro camminavo sempre per tornare a casa, mi aggiravo nelle vie parallele, ma evitavo di passare davanti agli alberi di fichi. Il loro sapore dolce non se n’era andato e vedevo ancora la testa spaccata. E poi vedevo i suoi occhi. I suoi occhi nivuri e fondi che mi fissavano dopo che avevo bastonato a quello e la testa gl’era spaccata, continuavano a guardarmi. Ogni volta che chiudevo i miei occhi, li vedevo. Se ero di pattuglia, mi sembrava di vederli ovunque, ogni strada, ogni persona. E sentivo la sua voce nella testa che mi diceva di andarmene. Niente era conforme al regolamento in questa storia. E no, non potevo parlarne con nessuno. C’era un morto di mezzo e io ero l’assassino.
Avevo sbagliato. Mi ripetevo che avevo sbagliato a non chiamare il comando. Ecco quello che dovevo fare, ‘nculammia. Così mi dicevo nei momenti più difficili, quando mi vedevo che spaccavo la testa a quello lì e quegli occhi neri erano dappertutto. Però, mo’, non lo so perché, sentivo pure che avevo fatto la cosa giusta. Che per una volta nella mia vita avevo agito, che c’era il destino, era vero, esisteva, e che gl’ero andato incontro.
«Picchì si’ ca?»
«…»
«Cchi bbu?»
«Non lo so».
«Parra! Diciami!»
«Unn’u sacciu!»
«Vavatinni allora».
«No, vulìa sapi’ cumu sta. Come stai?»
«Daveru?»
«Eh».
«Non ti credo. Tu si’ ca pi’ sapì adduvè finito ‘u corpo ‘i chirullà, o no?»23
«Pure».
«Di mia un tinni frica nnente, o no?»
«No, non è vero. Sono qui anche per te».
«Perché? Cchi cazzu vu’? Che vuoi da me?»
«Non lo so».
«Allora torna quando lo saprai».
«E se non lo so?»
«Non tornare mai più. Tu non ci devi stare qua! ‘A capì?»
Ma non me ne sono andato. Sono rimasto fermo, in piedi senza dire niente al posto dove c’era stato l’uomo con la pistola. Lei pure non parlava. Seduta sullo stesso divano marrone scuro di pelle dove l’avevo vista la prima volta. Dopo tutti quegli anni di allenamento al silenzio con papà, potevo stare così pi’ nu mese intero. Lei mi guardava e io guardavo lei. E non so quanto tempo era passato. I fichi nel giardino che nessuno aveva raccolto erano molto maturi e che quasi iniziavano a seccare e gli uccelli avidi stronzi s’ingozzavano con la loro polpa.
«Te ne devi andare adesso, aspetto gente».
«Me ne vado. Ci possiamo rivedere?»
«No. Vavatinni».
In strada camminavo piano. Era la stessa strada di sempre e non sapevo dove mi trovavo. Non ero più di quel posto, eppure non me n’ero andato. Faceva caldo e il sole era stanco, e non seccava. Ero sempre io, ma non ero io.
«Per i tuoi occhi grandi e neri che non posso dimenticare».
Qualcuno che non ero io, poi mi ha suggerito questa risposta che ho detto a voce alta. Mi sono fermato e ho pensato: ecco che cosa dovevo dire. Dov’eri tu quando mi servivi? E che fine ha fatto il corpo di quell’uomo? Che cos’è successo oggi? Perché ci siamo guardati così a lungo e nessuno parlava? Non avevo capito, ma sapevo che anche se diceva di no, il giorno dopo ritornavo da lei. Non ne potevo fare a meno.
Quella sera ancora, come sempre, mi sono seduto sul balcone a guardare fuori con la radio accesa. Non dicevo niente come sempre, la radio cantava e blaterava come sempre, ma oggi io non capivo le parole. E niente mi sembrava di conoscere di quel cielo e quelle case. Tutto era cambiato. Mi sembrava che non sapevo cos’era la vita prima di spaccare la testa di un uomo e prima che lei mi aveva guardato con i suoi occhi neri. In ogni storia c’è sempre un punto di svolta, c’è sempre un fatto che spiega il perché di quello che succede, come in una partita di calcio dove a un certo punto l’attaccante imbrocca il tiro giusto e cambia le sorti della partita. Forse questo era il mio. E spaccare la testa a quello lì era il prezzo necessario da pagare. Qualcuno doveva pagare. Dovevo spaccargli la testa per far andare avanti la storia. E mi sembrava giusto così. Non avevo rimorsi. Non sentivo niente. E quella testa, se dovevo, gliela spaccavo altre cento volte, colpito più forte, fortissimo, ‘nculacchilemmuartu.
Ogni sera quando ero libero dai turni del lavoro, tornavo da lei.
«Io signu sula».
«Puru io. Lo sono sempre stato».
«Che facciamo?»
«Che facciamo?»
«Perché ripeti quello che dico?»
«Non lo so».
«Te ne devi andare».
«Perché?»
«Perché è così che è meglio ed è così che voglio».
«Ancora un poco».
«…»
Forse dei morti non se ne deve parlare. L’uomo con la testa spaccata non c’era più ed era tutto e chi non era lì, non esisteva. Tra la gente come loro i morti sono silenziosi. Lei non ne ha parlato mai più. E nemmeno io. Ma riuscire a far sparire un cadavere e far sparire le tracce non è da tutti, lo sapevo, non è una cosa da quei delinquenti disgraziati morti di fame del quartiere. Ci vuole esperienza, sapere cosa fare, come muoversi, come non parlare – e soprattutto riuscire a non parlarne.
«Tu ‘u sa’ che non devi stare qui e non dobbiamo vederci?»
«Perché?»
«Ma dici daveru?»
«Eh».
«Ma tu ‘u sa’ chini signu i0? Tu ‘u sa’ chi fazzu io?»
«No. Chini si’? Chi fa’?»
«Sicuru cu unn’u sa’?»
«Noni».
«…»
«…»
Forse era stato quello che si chiama un colpo di fulmine? Ma nelle storie di colpi di fulmini non ci sono teste spaccate. Oppure no. Nelle storie che sentivo da guagliuniaddru e che mo’ mi ricordavo – ma chi me le aveva raccontate? – c’erano cavalieri che ammazzavano draghi e paliavano nemici per stare con le principesse e vivere felici e contenti. Forse quello con la testa spaccata era ‘u drago e lei ‘a principessa. Non lo so, ma qualcosa è successo tra noi. Io non ero abituato a sentire qualcosa, non sapevo proprio cos’era sentire qualcosa. Tutto era silenzioso, mancu nu sussurro, mancu nu fiato. Ma era un silenzio diverso da quello ccu papà. L’amore? E chi l’aveva mai conosciuto? Ho sentito di nuovo quel vento tra i capelli di mamma. Mi sembrava come un malore improvviso. E non mi sembrava che mi potevo riprendere. Ho capito che a volte le cose buone della vita sono travestite da catastrofi, disgrazie, fricature, teste spaccate, fichi troppo maturi, ed è questo che frica molti, che poi fanno la scelta sbagliata e perdono l’occasione della vita loro. Non le sanno riconoscere. Io però non sono loro. Non volevo essere come loro, non voglio essere come loro. Non lo sono mai stato. E non voglio perdere.
«Io e te facciamo parte di due mondi diversi, ‘u vo’ capi’?»
«E allora?»
«Non possiamo vederci».
«Perché?»
«Ohi madonna, cumu si’ minchiune!»
«Perché?»
«Finiscila ccu tutte ste domande!»
«Scusa».
«Non posso darti quello che vuoi».
«E che cosa voglio?»
«’A puttana ‘i mammata!»
«…»
«…»
«Sei arrabbiata?»
«’Ncazzata si dice, ‘ncazzata. ‘Un sa mancu parra’ ‘u dialetto».
«Si’ ‘ncazzata?»
«No».
«Vuoi che me ne vado?»
«No».
«…»
«…»
Adesso tutto quello che vedo è un segno. Tutto mi sembra avere una voce. Non sapevo il rumore che fa l’amore. Nemmeno un suono, ma che clamore. Nessuno me l’aveva mai spiegato. Almeno questo papà me lo potevi dire, perché tu l’avevi saputo con mamma: come si fa ad amare? Cosa si prova quando incontri qualcuno come tu avevi incontrato a mamma? E che succede poi? Che succede? Papà, dimmelo! L’estate ormai è dappertutto.
«Picchì un t’avvicini?»
«Picchì?»
«Avvicinati ja».
«Va bene».
La mia mano inesperta e non pronta al corpo di una donna, che era come la prima donna della vita mia, e non abituata a toccare ed essere toccata da un altro essere umano, e mai dall’amore, si muoveva male sul suo petto e fredda sentivo che era la mia mano.
«Vida ca ‘un m’adi arresta’, capì?»
«Sì».
«…»
«…»
«Così va meglio. Mo’ ‘un ti fermà».
«No, non mi fermo».
«Statti cittu».
Dicono che una volta che hai ammazzato il primo, poi diventa più facile. Se hai l’occasione oppure il bisogno di continuare ad ammazzare, devi farlo e basta, senza pensare al primo, tanto il primo te lo porti sempre dietro, poi i volti e gli spari si confondono. Ormai sei un assassino, uno o dieci non cambia, sei e sarai sempre un assassino. Il passato, quello che hai fatto, non si può cambiare. Devi andare avanti e se devi uccidere di nuovo, ucciderai. Ma non puoi fermarti. Mai più, se vuoi continuare a vivere, se vuoi che quello che hai fatto ha un senso per te, adesso. E gli altri, quelli che hai ammazzato e quelli che ammazzerai, non sono più importanti, sono tutti uguali, un tinni frica cchiù nnente di nnente.
«’U sa a chini appartiegnu?»
«No».
«Sicuro?»
«Lo so. E mo’?»
«Nente. Ma ‘u sa’ ca tu si’ nu sbirro?»
«Sì, ‘u sacciu».
«E che ca ‘un ci pu’ sta’».
«Picchì?»
«Picchì si venano loro, t’ammazzano ‘sta vota».
«Chi sono loro?»
«’U sa’ chi sono».
«Voglio stare con te».
«È impossibile».
«Picchì?»
«Ma si’ minchiune?»
«No».
«E allora?»
«Voglio stare con te».
«Tu si’ tuttu ciuatu».
«Forse sì».
«…»
«…»
Facevamo l’amore. Al lavoro ero diventato ancora più silenzioso di prima. Facevo tutto quello che mi dicevano di fare come sempre, come una macchina e rapidamente. Non aspettavo altro che uscire e andare nella casa con il giardino con gli alberi di fichi che passata la loro prima stagione aspettavano la seconda occasione dell’anno. Anche camminare era diverso, aveva un senso, era sempre provare a ricordare, ma ricordare il presente. Una volta mentre stavo entrando in casa sua, ho sentito ‘na voce che mi ha gridato: «’Nculacchitemmuartu, sbirro ‘i merda!». Mi sono voltato, ma non c’era nessuno. I vicini sapevano, che voleva dire che la gente sapeva. Come avevo fatto a non pensarci? Era chiaro che doveva accadere. E lei non sapeva che sarebbe accaduto? Certo che lo sapeva. E perché allora non me l’aveva detto? In questa città tutti sapevano tutto presto o tardi. Non c’erano alberi con foglie abbastanza grandi dietro cui nascondersi. E anche al comando forse già sapevano, e magari mi facevano seguire, si appostavano fuori dalla casa, chiri merda, ‘nculacchilemmuartu. Il sospetto di essere indagati funziona meglio delle vere inchieste. Molti criminali, soprattutto chiri fissa senz’esperienza, si denunciano da soli, si fanno arrestare cominciando a fare un errore dopo l’altro, anche se non c’è nessuno che li segue e che vuole arrestarli, fanno tutto quello che non si deve fare per farsi prendere. Non capiscono che il primo che li segue è dentro di loro e le colpe che si danno, che li spingono a confessare, hanno spesso poco a che vedere con il crimine commesso – la colpa è parte della loro vita. Gli sbirri minchie moscie spesso devono solo aspettare.
«E se ce ne andiamo?»
«Adduvi?»
«Aru nord».
«Ma ‘un ci fa friddu?»
«Si ghiaccia».
«E picchì ci vuoi andare, allora?»
«Per stare con te».
«Perché qui non ci puoi stare?»
«No, perché qui è impossibile».
«È successo qualcosa?»
«Ancora no. Lo sai. Ma succederà».
«Allora dobbiamo proprio andare».
«Dobbiamo».
Io non lo so che cosa sono diventato. Non sono più uno sbirro – mi sono licenziato. Sono un assassino – ho ammazzato un uomo e non mi sono denunciato. Sono cambiato. Casa mia è rimasta vuota. Ma se ci penso adesso, non è più silenziosa. Papà non c’è più, sta con mamma, ma la casa adesso me la ricordo come una storia che fa rumore. E a papà sento solo adesso di volergli bene. Mi dispiace papà, ero troppo giovane per capire. Non è stata colpa tua. Non è stata colpa di nessuno. Non sapevo che cosa può fare la vita. Di mamma ora se ci penso la sento sempre con me, nemmeno ho bisogno di camminare. Questo vento è come se mi apre le strade che percorriamo con lei.
«Guardami adesso».
«Ti sto guardando».
Tengo la pistola sempre carica e la porto con me. Ma non ho ancora sparato un colpo. Adesso il silenzio non è più lo stesso silenzio. Per lei è normale: è sempre cresciuta con gli assassini e so che anche lei ne ha ammazzato più di uno, anzi molti – ma di questo non si parla, lei non me l’ha detto. E io devo stare pronto, se un giorno ci trovano – e ci troveranno, viviamo sicuri che ci troveranno anche se mai succederà – non dovrò esitare, non dovrò pensare al passato, non dovrò pensare a niente. Anche se lo so che è lei che sta più in guardia di me, che è lei che sa come muoversi, che lei l’ha fatto da tutta una vita, che sa come vivere come un’altra. Quando arriverà il momento, è lei che mi salverà. E forse mi ha già salvato.
La vita comincia.
Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?
- ‘Nculacchitemmuartu: “che vada nel culo dei morti della tua famiglia”; anche con le pronominali –acchilemmuartu (a lui, lei, loro), –acchivemmuartu (a voi). ↩︎
- ‘Nculammammata: “che vada nel culo di tua madre”. ↩︎
- Jestimare: bestemmiare, ingiuriare. ↩︎
- Trancano: problema, imbroglio. ↩︎
- Guagliuniaddru: ragazzino. L’ortografia non corrisponde alla pronuncia che varia intorno a guagliuniaddgiu, ma che risulterebbe difficile per il lettore. ↩︎
- Fricare: rubare, ma ha molti usi, come fregare, nel senso di non interessarsi di qualcosa o qualcuno, ‘un minni frica nnente, non me ne frega niente, o nella locuzione lassatimi frica’, lasciatemi stare. In questo caso significa fottere, nel senso di sopraffare, sconfiggere. ↩︎
- Vilienza: apatia, noia, accidia, immobilismo. ↩︎
- Ciota: scema, sciocca. ↩︎
- Ciroma: rumore, confusione: ‘un fa ciroma; iadona cchi ciroma. ↩︎
- Cancariare: sentire molto freddo. ↩︎
- Unnu sacciu: non lo so. ↩︎
- Cuddrurieddru (forma maggiormente attestata): ciambella fritta salata o dolce (anche culluriellu) tipica del periodo natalizio; con la variante della vecchiareddra, con ripieno di alici. ↩︎
- Fricacumpagni: fregare gli amici, la gente. ↩︎
- Paliata, dal verbo Paliare: bastonare, picchiare con un palo, ma anche picchiare duramente. ↩︎
- Paccaro: da non confondere con il formato di pasta, il paccaro è uno schiaffo dato a qualcuno con estrema violenza usando il palmo della mano. Deriv. Paccariata, una serie di paccari dati in sequenza in una stessa occasione. Contr. Manummersa (mano al contrario), schiaffo dato con il dorso della mano. ↩︎
- Cumammia: come me (cum a mia). ↩︎
- Perrupare: danneggiare qualcuno, mettere nei guai. Da perrupu: dirupo, precipizio. ↩︎
- Cumu vu’avutri: come voi altri. ↩︎
- Capu vulata: letteralmente testa volata, avere la testa tra le nuvole. ↩︎
- Sciuaddru: disastro, caos, rovina. ↩︎
- ‘Mbusu: inzuppato, fradicio, impregnato. ↩︎
- Vavatinni: vattene. ↩︎
- «Non ti credo. Tu sei qui per sapere dov’è finito il corpo di quello là, no?» ↩︎