Testo di Antonio Paciello
Copertina di Claudio Parentela
È uscita la banda da dietro il bar vecchio nell’aria fresca delle nove del mattino. Guardavo dalla vetrina il riflesso dei caffè bevuti sparsi sul bancone, qualche tazza coricata su un pezzetto di carta sgualcito e poi è arrivata la banda, da lontano, dal casello in fondo. È iniziato a ronzare quel suono funereo che si avvicinava e si gonfiava lento poi è esploso nell’atrio come una scarica d’acqua ed eravamo tutti lì, imbambolati come se non l’avessimo mai vista. La tua faccia era aggrappata al clarinetto, gonfia d’aria e rossa. Seguivo con lo sguardo le mani affaccendate a fare la parte da secondo, Afrodite, il panico della marcia sinfonica e quel controtempo che rischiava di farvi cadere tutti a terra prima di fermarvi a fare colazione. Ti sei avvicinato con il tuo solito sorriso tradito, la testa china a nascondere la gioia di vedermi, per non so quale pudore. Fratello mio, avevi la pancia gonfia e le orecchie sudate, le ho sentite pulsare quando hai affondato il tuo faccione nel mio petto, poi due colpi di grancassa ti hanno strappato alla colazione (o al primo grande sorso di veleno che ci accompagnerà verso questa processione all’inferno) e siamo ripartiti. La massa biancoazzurra e dorata della banda era separata da un pezzo blu scuro acetato, quelli del comitato. Con le mani a difendere vecchie cartelle sbiadite da un tempo immemore raccoglievano i soldi dai passanti, il giorno in cui si mettono i pezzi sani, le dieci, le venti euro, che servono alla nostra chiesa, alle bollette della luce, soprattutto. Avanti c’ero io, con le mani giunte a far recitare il rosario.
Siamo entrati nel cuore del paese a portare la festa. Non riuscivo a staccare il mio sguardo da te e dal ricordo di quando eri piccolo, con il cappello più grande della testa, il vestito bianco con la cravatta rossa. Non c’è mai stato nessuno a vederti sputare sangue nel clarino. Papà pensava a questa bella madonna e la bestemmiava sporco di calce fresca chissà in quale buco nero dell’Europa settentrionale a Monaco o a Stoccarda, nelle piane verdi della Germania di fuoco e metallo (il nostro più grande segreto, la nostra più grigia umiliazione) prima di morire in quelli stessi giorni cinerei in cui io, più grande ma gracile e vicino alla morte o al suo desiderio, iniziavo a sentire il beneficio della preghiera, la trance della preghiera, ad affezionarmi alla resurrezione e trasformare il sangue in carne (carne amara), le litanie di mamma in soffi di vento verso il paradiso, un paradiso strano, un paradiso nero, ma pur sempre un paradiso in confronto alle fiamme e alle urla sorde della nostra solitudine. Ma i tuoi occhi da bambino li ricordo, dilatati dalla gioia della festa e dall’adrenalina di quella marcia, Piergiorgio dovrebbe chiamarsi, il suono della contentezza sparata ai quattro venti tra la gente che ti sorrideva e pensava quant’è piccolo u figlij d’a mulnar.
Abbiamo attraversato il viale insieme, anche se non te ne sei accorto, ti sostenevo con lo sguardo mentre ti strozzavi, forse ho avuto paura che sbattessi lì a terra. Ti seguivo nei movimenti come se fosse l’ultima volta, anche se era la prima dopo dieci anni. Ti avevo lasciato più giovane e meno triste, ma chissà cosa pensavi tu, di quel talare che mi trascinavo da una vita per mezza Italia, a rincorrere i santi o sempre la solita vecchia pace, che Dio mi perdoni se penso solo per me, se penso che non sia altro che un po’ di pace. La tua banda – che gioia questa musica, che luminoso questo paese – si è fermata nella piazza del centro, una piazza in discesa e toccava a me ora dover salutare la gente estasiata dalla storia che mi illuminava, dal pensiero che io potessi conoscere veramente Dio, io che stavo a Roma, che orgoglio, Padre, che garanzia il vostro officio, portatecelo più spesso.
«Ti piace questa banda?» Ti ho chiesto, mentre poggiavi la giacca bianca di forfora sulla sedia di legno dell’unico ristorante che ci troviamo in paese. Ti sorridevano tutti; eppure, non vedevo altro che smorfie preoccupate. Luca, il proprietario, con cui siamo cresciuti fuori casa di mamma, dietro il nostro mulino, ti ha salutato con il timore con cui si saluta un sopravvissuto, poi ha sogghignato, mi sono chiesto se te ne fossi accorto, se avessi visto che quel bastardo aveva sogghignato come a dire, ti salvi sempre per un pelo, oppure, sei sempre più vicino al baratro, quale maledetto baratro mi chiedevo, come se davvero non lo sapessi, mentre affondavi la tua testa stanca e piena nelle mani a leggere lo stesso menù di tutte le domeniche di festa di questo maledetto scherzo del signore che è il nostro paese.
«Non è male, una banda da processione»
«Da quanto tempo ci suoni?»
«Saranno due anni ma mo’ non ci suono più, mi sono scocciato»
«ti vai sempre contro»
Ho sospirato, mentre Luca, con la faccia china, ha portato in tavola il mezzo litro di vino rosso che avevi ordinato e il pane ed è rientrato in cucina di fretta, come se fosse in fuga dal mio sguardo che pure fugava il suo.
«Che significa?»
«Che ti togli i divertimenti dalle mani»
Hai guardato dentro le tue mani, grosse e ruvide e sporche, come a volermi prendere per il culo, ti sei versato un bicchiere di vino e l’hai bevuto in un sorso.
«Le mani?»
Le hai alzate di nuovo verso gli occhi, ruotandole, e sei scoppiato in una risata che sembrava un conato di vomito. Un pensiero coraggioso ha visitato per un istante la mia coscienza, quel clarino fino che maneggi in realtà è una lama, mi sono detto con timore, poi il pensiero se n’è andato via ed è rimasta la mia faccia ieratica da prete.
«Non vuoi capire» Ti ho risposto, per scappare «Rò, nun fa u filosof cu mi, vatten a vafangul» hai risposto chinando il capo dietro alla giacca azzurra della banda per cercare il pacco di sigarette, siamo usciti e hai alzato uno sbuffo di fumo, l’ho seguito con lo sguardo diretto verso il cielo perlaceo, tutte intorno ruvide montagne di boschi folti pieni di bestie. Il silenzio fitto mi ha punto lo stomaco, il tuo sguardo iniziava a deformarsi in un ghigno inquieto e folle, il bicchiere di vino nella mano. Sapevo che bevevi perché c’ero io in quel giorno di festa, non riuscivi a tenerti dentro quel coagulo di emozioni ingestibili e mi sarei annientato o t’avrei picchiato a sangue – Dio che ascolti sii clemente con i miei pensieri, sono pur sempre il figlio della miseria – pur di non vivere quel dramma, quindi ho iniziato a bere con te.
«Stasera alla processione dei fuochi vi faranno la festa, fino a che ora vi hanno detto?»
Mi chiedevo della seconda processione, quella notturna, di quella Madonna così lontana da Roma che la chiesa non ci ha voluto neanche mettere il prete a seguirla. La sua immagine rosa e dorata cucita su un panno blu che portano in spalla ogni maggio, il terzo sabato, di notte, a far saltare sul fuoco, ogni maggio rischia di caderci bruciata o di bruciare tutti noi, che la facciamo ballare perché non abbiamo parole per dirle grazie. Quella madonna dice qualcosa del segreto della mia fede, fuori dalle case celesti, infangata, quella Madonna il Signore lo incontra nei boschi forse, lo incontra negli occhi dei falchi.
«Quest’anno sono carichi» hai detto dei portatori, che di solito bevono vino per riscaldarsi e ballano indemoniati sfinendo ogni banda che inconsapevole si trova ad accompagnarli per tutta la notte abbagliata dal fuoco scoppiettante che si accende in ogni quartiere. Più di qualche volta vi hanno rincorso, alle cinque del mattino, perché non c’era più fiato nei vostri polmoni ma ancora la madonna che balla e che ha bisogno di musica, più di qualche anno vi siete scambiati i ruoli e picchiati sangue e baciati le guance sotto il fuoco o il vino che benedice tutti i nostri peccati.
«Come sta mamma?»
«Come vuole stare secondo te?»
«e Marianna?»
«Chi è Marianna?»
Hai risposto secco. Sono anni che vaghi come un sonnambulo scappando o mettendo in fuga chiunque s’avvicini alla tua ferita, alla tua faglia, alla tua fossa abissale, come tua moglie fuggita via in manco due anni di matrimonio e non voglio neanche sapere perché, il mio officio mi concede questa vigliaccheria, ingrossando i nostri fantasmi che sanno tutto – che Dio possa mantenerli calmi.
«non fare il fesso»
«Che ne sai tu?»
«sono sempre un prete»
« È solo un’amica, non c’è niente»
«Essi, immagino. Non vuoi parlare?»
«No»
«Fatt gi ngul»
«Ti voglio bene Don. Vieni che ti devo presentare un amico»
Iniziavi ad essere brillo quando volevi presentarmi alle persone. Iniziavo ad essere brillo anche io, altrimenti sarei tornato a casa dopo aver sentito spalancarsi l’oblio.
«Maestro. Questo è quel prete di mio fratello»
Hai detto al nuovo capobanda, un uomo secco e nervoso, con il pizzetto nero forse tinto e l’aria di chi vorrebbe e non può saperla più lunga. «Enzo, mi raccomando oggi!» ti ha detto il maestro «tu sei quello di casa, mettici una buona parola, non ci far massacrare» ti parlava e mi sorrideva, «non vi preoccupate» hai detto al maestro «non si è mai fatto male nessuno». E non è vero, avrei aggiunto, ma il maestro mi stava sul cazzo.
Non mi sono mai sentito davvero un prete, sempre e solo uno scomparso ma Dio lo sa – e forse è l’unico a volermi bene – di quella sete che mi allaga il petto e mi salva da tutte quelle urla di pietra della solitudine della nostra infanzia, di quel tempo incomprensibile in cui forse siamo stati sordi, fratello mio, sordi solo per difenderci. E se anche questi musicanti ti hanno fatto qualche carezza io ti ho abbandonato e sono scappato per le vie del signore. Ora torno e mi acclamano, porto la pace nei vostri cuori ma solo Lui lo sa – e me lo concede, mi lascia abitare nei suoi scarti – che sapore rancido ha la grazia che vi trasmetto. Sono scappato fratello mio, e di te non me ne fregava un cazzo anche se qualcuno, forse la Madonna, mi aveva messo davanti l’immagine della tua fine, questo mare muto che ti porti dentro il volto distrutto da pensieri incomprensibili ma sicuramente più vicini agli occhi del signore dei miei. Ho preso la scorciatoia di Dio, a lui l’ultima parola fratello mio, a lui e a nessun’altro.
«Dove andiamo?»
Il ristorante era ormai vuoto, i camerieri e il cuoco mangiavano un piatto di pasta al pomodoro, spalmati stanchi sul tavolo di legno prossimo alla cucina, il cuoco, il padre di Luca, ha alzato leggermente il cappello in segno di saluto, con una riverenza posticcia e gli occhi lucidi. Ho ricambiato lo sguardo ed ho iniziato a sentire il mio volto raggrinzito dal vino, avevo bevuto quanto te.
«Saliamo in piazza! ma stai bevendo?»
Mi avevi fissato sorpreso, ma un ghigno violento ti aveva attraversato il volto a tradire un’intesa nascosta, lo stesso volto che scorgono i fedeli più vili quando li confesso.
«Si, passiamo da casa, non è bene che in piazza mi vedano così»
«che gran coglione di prete che sei, ti sei ubriacato»
«fammi fumare»
Di nuovo un ghigno impietrito e ho visto i tuoi occhi attaccarsi ai miei come una volta, come quando sapevi chi fossi (come quando eravamo due cani), hai raccolto dal tavolino il pacco di Winston e me ne hai allungata una.
«andiamo da mamma, ti vuole vedere»
Siamo saliti sulla tua alfa impuzzolita e ci siamo incamminati verso la campagna. Mentre l’auto cigolante scendeva lenta ho osservato lo strano gioco delle montagne che seppure ci stessimo allontanando da loro per raggiungere la piccola pianura che si apriva ai piedi del paese, sembravano avvicinarsi, creando un arco di luce meno cupo di quello in cui ci hanno cresciuti. Ho scorto la vecchia mulattiera che portava in cima al fosso dove da piccoli andavamo a rintanarci da fuggiaschi. Hai fermato l’auto ai bordi della strada tra le sterpaglie di cipollotti selvatici, sei sceso curvo e ti sei messo a pisciare. Il fumo dell’urina proveniente dalla terra già umida accompagnava quell’altra boccata di fumo più ampia che si scorgeva in fondo, verso casa, dalla testa infuocata della fiaccola del centro di raccolta oli. Sei rientrato e hai riacceso il motore mentre io, sdraiato sul sedile, entravo in una piccola estasi posticcia da vino e tabacco (scappavo ancora una volta, come ero abituato a fare) e con la voce un po’ languida un po’ infantile ti ho detto che quelle montagne erano state la nostra unica salvezza, sono riuscito davvero a dire questa grande cazzata, a parlare di salvezza, ho avuto il coraggio di santificare le nostre vecchie montagne immersi in quel puzzo di gasolio che si alzava tutto intorno dalla terra o dall’inferno mentre ci avvicinavamo al mulino di casa. Avrei dovuto dirti che non me ne fregava proprio un cazzo di quelle montagne, mentre guidavi stanco e ubriaco verso casa di nostra madre ormai vecchia e malata che ora era tornata ad essere anche casa tua, ed era stata casa mia prima che diventassi il santissimo prete che sono, prima di abbandonare i nostri giochi silenziosi da cani selvatici, i nostri nascondigli nei boschi in cui andavamo a sperderci per non sentire il peso del tempo che squarciava la nostra fantasia di bambini miseri, prima che la mia paura si trasformasse in viltà e timore di Dio, e questi boschi morissero o venissero violentati che è la stessa cosa, ma possiamo chiamare casa un posto che non sa più di niente, solo di catrame e di ricordi – più forti di noi?
Eri spalmato su questo sedile lercio e mi sono accorto che se non avessi venduto l’anima alla violenza che ci attende in questo pomeriggio in cui abbiamo deciso (perché lo sai che l’abbiamo deciso fratello mio che parli poco e mi guardi nel buco degli occhi, non l’ho deciso io, non l’hai deciso tu, l’ha deciso la Madonna) di fare i conti con il Male avrei continuato a vivere nella mia fantasia di prete agonizzante di pietà trascinando il mio talare lerciò sul selciato di questo paese a lanciare sguardi languidi e beati ai paesani che mi cercano come fossi il sacro Graal continuando a nascondere i tuoi occhi lucidi, non posso più nasconderli fratello mio, devo cacciarli via dalle mie preghiere, questo penso, e non so bene neanche cosa significhi, so solo che ha a che fare con la rabbia o con la terra che trema.
Lo sai bene chi si è fatto i soldi con quelle montagne» mi hai detto secco «Sono tornati, lo sai?» hai continuato
«l’ho capito dalla fretta con cui mi hai messo in macchina»
«mamma non capisce più un cazzo, ripete sempre le stesse cose, io non so che fare»
«cosa vogliono questa volta?»
«tutto»
Hai fissato lo sguardo verso l’orizzonte e ho cercato di vedere cosa scorgessi, il mulino era di fronte a noi, dietro la terra secchissima e il vecchio capanno a pezzi, guardavi e pensavo che nei tuoi occhi anche l’abitudine era morta. Siamo scesi ed abbiamo attraversato il sentierino infangato che dalla strada andava alla porta di casa. Ho visto il riflesso delle gambe di mamma dalla vetrata sporca che dava sul salotto, con le mani intrecciate stava seduta in attesa, le avevi detto che ero arrivato e mi avresti portato da lei.
Mi ha guardato con lo sguardo freddo e impaurito, i suoi occhi erano fissi sul mio volto, il lungo tempo che ci aveva sperati sembrava non essere mai trascorso, ero di nuovo li, al suo cospetto.
«Devi confessarmi» mi ha detto con il tono rancoroso ma riverente «faccio sogni brutti, faccio un sacco di peccati in sogno, dove sei stato tutto questo tempo perché non torni, perché non dormi a casa mia?» ha perso il controllo e ha iniziato a parlare con me figlio, non con me prete «sono tornati, quei maledetti, vogliono tutto, se tuo padre lo sapesse cosa vogliono! ed io li ammazzo, in sogno li ammazzo, Dio mi perdoni … ma questi soldi ci servono, tuo fratello lavora ancora per loro quasi gratis e non abbiamo ancora finito di pagare i debiti delle terre vecchie, quanto lavoro, tuo padre … poi sogno che sono io nel capanno e tuo padre viene e mi dice, cosa stai facendo, gli stiamo regalando tutto? e a volte sogno che sono la loro moglie, la loro madre, di tutti quei disgraziati, non di uno solo, di tutti, e tuo padre li vuole ammazzare, poi sogno tuo fratello con la faccia stanca, povera bestia si spacca la schiena, e mi sveglio e lo trovo con la stessa faccia, Rocco, questa volta manco la casa ci lasciano, siamo messi male e tu non vieni neanche a dormire da noi, cosa vuole Dio, che cosa vuole diccelo?»
Mentre mamma parlava ti ho visto girarti di scatto, un’ombra nera ha bloccato per un’istante la luce che proveniva dal poco sole che ancora abbagliava l’orizzonte, una jeep opaca, una Wrangler lunga e nera, è passata veloce e vi ha gelato il sangue, ho visto gli occhi di mamma ruotare rapidamente indietro. Mi sono guardato attorno spaesato, ho preso le sue mani, le ho poggiato le labbra sulla fronte e ho recitato l’assoluzione; chiudendo gli occhi ho visto papà, la sua faccia rugosa, la barba di un giorno, il cappello stretto tra le mani giunte sul petto, un sorriso alto e lontano, la sua faccia di quando avevamo dieci anni andata via.
Ho tolto il talare e ti ho detto quello che stavi aspettando ti dicessi da ore «questa sera vengo anche io alla processione del fuoco», hai osservato mamma con gli occhi ancora chiusi, sei andato in cucina e mi hai sussurrato di raggiungerti, avevi riempito due bicchieri di vino, ho bevuto il mio d’un sorso graffiandomi la gola e non era vino, era un battesimo nero.
In piazza la gente iniziava a raccogliersi, tutt’intorno era un tumultuoso gioco di luci, le luminarie della festa abbagliavano le grandi pietre nere che coprivano il selciato schizzando sui pomelli dei portoni delle piccole case affacciate sulla strada e sugli intonachi pastello che circondavano la piazza. Dietro il banchetto delle caramelle un ragazzo vestito di bianco riempiva sacchetti a strisce alle tre o quattro persone in fila. Siamo risaliti lenti. Senza talare e con il tuo cappello di panno addosso non tutti erano in grado di riconoscermi ma negli occhi di chi si attaccava al mio sguardo mi sembrava di percepire il contatto con qualcosa di atteso, nessuno era sorpreso, questi sguardi di terrore mi aspettavano, ho pensato senza capire.
La tua banda si è riunita e dopo due colpi di grancassa avete iniziato ad arrotondare la piazza con il suono caldo di Ligonziana, il clarinetto ha attaccato un lieve lamento, una serie di acciaccature che salivano e scendevano di qualche tono, una specie di rincorsa che crollava continuamente giù, come un volo, intanto da dietro il corno o forse un sassofono tenore rispondeva a singhiozzi poi si faceva ostinato e i clarini si precipitano in una discesa vertiginosa, toccavano terra e ripartivano dalla sommità, al secondo giro entravano i sassofoni contralti a farvi un controcanto morbido finché tutta la banda esplodeva in un coro vivace. D’un colpo un altro crollo di clarini, una specie di spirale acuta, mentre il suono di velluto dei corni e dei sassofoni creava una melodia cupa, le voci si intrecciavano e si mischiavano in un lamento contratto. È arrivato il controtempo della grancassa ad annunciare un primo risveglio prima di lanciarvi tutti in un grande trillo e nel coro finale, il coro della festa che fa esplodere l’aria, la testa e i ricordi ancora trilli e cori e trilli e cori poi il finale è piombato a terra in tre colpi e ci ha lasciati un po’ affannati, mi sono guardato intorno e ho pensato che l’eterno andare e tornare senza una meta di questa marcia era il suono del tempo che ci copriva la testa fino a nascondercela.
È arrivata la Madonna, l’avete accolta con un’altra marcia, il Mosè di Rossini (la sua coda è la marcia con cui si accompagnano i santi in festa in tutte le processioni che la faccia d’Italia conosca), mi chiedo che effetto faccesse a te questo tumulto nello stomaco, eri corrucciato sul clarino con le guance gonfie e rosse. La madonna si è fermata in piazza e voi avete cambiato registro, d’ora in poi solo marce popolari, d’ora in poi solo la nostra memoria e la nostra disperazione.
La Madonna ha iniziato a ballare, china fin quasi a toccare le pietre del selciato, coperta sulla punta da una piccola croce di legno, vorticava su sé stessa mentre voi intonavate La Ricciolina. È partita una processione chiassosa che sembrava più una mischia, per raggiungere il quartiere in alto, quello del primo fuoco dove è cresciuto nostro padre. Da lontano lo scoppiettio e l’odore di ginestre arse si mischiava al sapore del vino che girava tra le mani di tutti, portatori e bandisti. Continuavo a seguirti da lontano, qualcosa di simile a un Dio ubriaco stava lentamente prendendo il possesso dell’atmosfera. Accanto a me ho riconosciuto vecchi amici, i più vinti dall’età e dal lavoro che li aveva curvati in volto, è davvero la festa di chi spera di cambiare la tuta una volta alla settimana ma è costretto a cambiarla ogni giorno, ho pensato. Ho osservato gli sguardi prima impauriti verso il mio volto chino trasformarsi lentamente in sguardi d’intesa. Mi stanno dando il permesso, mi sono detto, le chiavi del male comune, hanno tutti capito.
Siamo arrivati nel piazzale della chiesa di fronte nel quale si alzava un fuoco alto che rasava i cavi elettrici lanciati dalla chiesa alle case accanto, il gruppo dei portatori e della banda si è sparso nel piano, inondandolo dei colori vivaci delle maglie e degli asciugamani che stringevano tra le mani per asciugarsi il sudore. Gli strumenti dorati brillavano colpiti dalle luci scintillanti del falò mentre intonavate La Passeggiata, la marcia antica che accompagna tutte le madonne danzanti come la nostra che ora volteggiava davanti alle fiamme proiettando la sua ombra nera (un’ombra fatta di tutti i colori della gioia) sul muro della chiesa madre come se fosse una madonna viva. I ruoli si sono mischiati, qualche portatore ha preso gli strumenti, qualche bandista ha portato la statua, ti ho osservato posare il clarino nelle mani del grancassista e prendere la mazza della grancassa mentre lui ti ha aiutato ad infilarla in vita, mi sono avvicinato imbambolato, qualcuno mi ha passato i piatti di ferro sussurrando piano «vai fratelli Marcuso, fateci ballare».
Mi sono messo al tuo fianco e abbiamo iniziato a picchiare forte, tu la cassa, io i piatti. Come se fossimo soli in quella piazza bruciata mi guardavi negli occhi e diventavi una carogna, più picchiavi sulla grancassa più l’arco delle palpebre si incurvava ed io distruggevo quelle lame di ferro che emettevano un suono nauseabondo. Ti guardavo e vedevo un animale, ti guardavo e vedevo Gesù Cristo morto, ti guardavo e mi vedevo inginocchiato nel fondo della cucina di mamma a piangere quando papà moriva e iniziavano a succhiarci anche l’anima, vedevo mamma, le mani conserte da venti anni, la sua vita sradicata, vedevo i campi dietro casa il pozzo dei nostri giochi, le nubi invisibili che ci intossicavano l’anima, mi vedevo scappare e correre, riguardavo i tuoi occhi, ti vedevo piangere, piangere e sputare, guardare la madonna e dimenare la testa, ti guardavo e leggevo le tue labbra che sussurravano qualcosa di incomprensibile, forse aiuto, forse una bestemmia, forse ci siamo, sentivo i piatti bucarmi i timpani, la banda era ormai silenziosa (suonavamo solo io e te) qualcuno si entusiasmava del nostro chiasso, qualcun altro ci guardava assorto. Poi il vociare chiassoso ha iniziato a trasformarsi in un borbottio, sono riuscito a sentire il rombo rauco di un motore spegnersi di colpo. Ho visto le portiere della Wrangler nera aprirsi lentamente accanto alle fiamme, li ho visti scendere vestiti a festa, li ho visti ma loro non ci hanno visto, sembrava guardassero tutti dall’alto di un balcone d’oro, qualcuno si è voltato a guardarli imbarazzato, ho osservato proiettarsi gli occhi dell’invidia, ho sentito un profumo nauseabondo prima di vederti partire con la mazza della gran cassa alzata verso il fuoco, ti ho seguito correndo, con i piatti impugnati come uno scudo o come un discobolo greco, hai sferrato un colpo sul fianco del primo, poi gli hai ficcato la mazza della grancassa tra le costole, ho visto la faccia rotta, la faccia di un incubo, ho preso il secondo al dorso con il bordo affilato dei piatti, una linea rosso sangue ha rigato la camicia bianca prima di mostrarsi carne viva, le fiamme ci proteggevano fratello mio, mentre santificavamo la nostra pena in mezzo al delirio di violenza che avevamo deciso di abitare, il fuoco ci proteggeva, il fuoco era finalmente dalla nostra parte, il Dio dei boschi, la madonna delle Rovine, avevano finalmente deciso per noi, solo a loro l’ultima parola. Ti dimenavi sporco di sangue, la banda suonava di nuovo ed io, fratello mio, ancora non capisco se fossi davvero accanto a te.
Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?