Testo di Valentina Cottini Copertina di Julio Armenante (+ bonus di Piervito)
Aveva fatto i salti mortali per ottenere quel posto. Quello sì poteva svoltargli la vita. Aveva chiesto ai suoi di pagargli il corso specialistico, che si chiamava master ma non era un master universitario, che poi dava accesso agli stage, e il padre aveva detto: “Tutti questi stage”. E la madre aveva detto “Che ne sappiamo noi di come funziona oggi”. Così aveva fatto il corso, l’aveva finito, s’era preso il diplomino e gli avevano fatto il colloquio per gli stage. Lui lo voleva fare alla THU, perché era moderna e poi gli stava comoda, ché aveva sentito di colleghi presi nell’entroterra, e sai tu a farsi due tre ore di macchina al giorno, e invece la THU era comoda, e poi era andato a scuola con uno che aveva fatto il corso l’anno prima e ce lo avevano preso a lavorare, dopo lo stage, e lo pagavano bene anche. Allora s’era informato se lo poteva fare alla THU, aveva scritto a quello, che gli aveva dato il contatto di una, che era responsabile delle risorse umane, che gli aveva spiegato che bisognava chiedere a un altro, lui l’aveva contattato e questo gli aveva detto che se voleva poteva fare lo stage, ma che comunque non lo avrebbero pagato, e che lo stage si faceva di tre mesi, full time. Lui aveva pensato tre mesi, madonna di dio tre mesi, di nuovo, senza lavorare, cioè lavorare senza stipendio, che non poteva pagarsi ancora un affitto, e c’era pure dicembre e il tagliando della macchina, che doveva chiedere aiuto ai suoi, ma che poteva fare. Aveva detto che andava bene e s’era messo l’anima in pace, che tanto comunque per forza, e almeno era la THU, che non era facile ottenerci uno stage, gli avevano detto, che bravo che sei, Mauro, che ti hanno preso per lo stage alla THU. Alla fine che sono, tre mesi, ti fai l’esperienza e poi magari ti prendono pure, gli dicevano, e lui si diceva che lo prendevano per forza, alla THU, come avevano preso a Giulio, che pure aveva la sua stessa esperienza formativa, gli studi, quasi uguali, ed era uno come lui. Per forza lo prendevano, dopo tre mesi, si diceva e poi metteva il punto al pensiero, che sennò gli arrivava quello nero, il vento, che gli buttava dalle orecchie certi pensieri che gli scricchiavano tutti gli ossi storti. La cosa dei soldi non era nulla, gli diceva il padre, tu non ti preoccupare e fatti riconoscere, e gli allungava certi cento euro per andarsi a comprare una giacca seria, una camicia per bene, vacci per bene, quando cominci, così ti vedono che sei uno serio. E Mauro, che uno serio era sempre stato, ma un po’ caotico, si vestiva al meglio che poteva.
Il primo giorno di stage era andato in ufficio pure con la cravatta, e il responsabile d’area lo aveva messo a smistare degli scatoloni in magazzino, cosa che lui aveva accettato anche di buon grado, pensando che forse doveva essergli sembrato un tipo in salute, forte, dinamico. E i giorni a venire, pure, scatoloni, e poi inventari, e scatoloni e inventari. Che poi tornava a casa e la madre gli diceva, “Ma questo è quello che hai studiato, te?”. “No mà, ma è quello di cui c’hanno bisogno”, Mauro le rispondeva. E se ne andava a lavorare trottando, convinto, faceva quello che gli chiedevano sempre con umiltà, sinceramente coinvolto, diceva vedrai che m’apprezzano, vedrai, s’acchittava e rimaneva pure in magazzino ore extra, ma quando riemergeva nessuno, di sopra, gli diceva che grazie, bravo, non gli diceva nulla. Aveva sperato in una confidenza col tutor di tirocinio, che invece incontrava due volte al giorno; aveva provato allora a farsi degli amici, ma chiunque gli si poneva con diffidenza e distacco. Persino Giulio, che pure si conoscevano da quindici anni, lo salutava a malapena col mento e in pausa pranzo non lo cercava mai.
Mauro aveva provato a pranzare di sopra, nella sala comune, per tutte intere le prime due settimane. Si sedeva da solo alla fine del tavolo più vicino all’uscita, cercando di scambiare qualche parola con chi gli capitava vicino, ma nessuno andava oltre a qualche cenno di circostanza. Vuvù, gli fischiava il vento attorno ogni volta che si sentiva scansato. Finché un lunedì il vento gli si era rinfrattato dalle orecchie, e gli s’era sparsa attorno la sensazione di essere quanto mai inadeguato, in quella sala di pari lui così dispari. Allora in pausa pranzo aveva invertito il giro e si era appollaiato sui primi scalini verso il magazzino, oltre la porta antincendio, e aveva masticato male i chicchi di mais nell’insalata e per poco non gli era andato tutto di traverso. Era stato così che un gonfiore gli aveva riempito lo stomaco, come se il vento gli fosse arrivato fin là, quando aveva tossito fuori il mais e respirato di nuovo. Aveva l’impressione di aver deglutito una rana. E un po’ si sentiva come se dovesse cagare, ma non lo avrebbe fatto in ufficio. La discrezione che gli era caratteristica glielo impediva. L’avrebbe trattenuta fino a sera, finché nel suo bagno blu avrebbe liberato con serenità la rana. Fantasticò nel merito del suo bagno di casa per tutte le quattro ore successive, ma quando fu di ritorno era così stanco, e lercio e sfatto, che davvero non ne provò l’esigenza.
Ogni giorno che si spingeva alla THU il suo ventre si induriva e rigonfiava, e ogni giorno che tornava a casa, tondo come un cocomero, non riusciva a cagare neppure nel suo bagnetto blu. Dovette allentare la cintura di un buco, e poi due, tre, e immaginava di arrivare, sfilare di fronte ai separatori di plexiglass, e che i suoi colleghi si girassero a guardare esterrefatti il suo ventre semisferico e gli chiedessero se stesse bene, se non avesse bisogno di tornare a casa, o di vedere un medico. Nessuno invece pareva farci caso, e sì che lo vedevano, ma come un corpo estraneo che integrava il paesaggio in maniera indipendente e temporanea. Aveva però maturato l’idea che non fosse l’unico corpo estraneo dell’azienda, e che altri, come lui, si nascondessero nei corridoi laterali, sulle altre scale, all’ora di pranzo. Cercava allora di mostrarsi cordiale con tutti e di girarsi i reparti, alla ricerca di volti che gli somigliassero, ma ogni volta che gli pareva di incontrarne qualcuno, presto si rendeva conto dell’errore.
A ogni disillusione o risposta scocciata, corrispondeva un’unghia di gonfiore. Mauro cercava di coprire il ventre turgido al meglio che poteva, con maglioni lenti e camicie larghe e portando borse a tracolla sul lato. Superata la metà dello stage, si sentiva scoraggiato, ma sperava ancora di dare un’impressione dignitosa. Si diceva che forse l’integrazione sarebbe arrivata col tempo, così come incarichi più soddisfacenti, più affini al campo del master, e non perdeva le speranze, non del tutto, e certi giorni si impegnava molto nel risultare sorridente e proattivo, ma certi altri procrastinava la ripresa dopo pranzo e rimaneva a massaggiarsi il ventre con le gambe distese sulle scale, a sperare che nessuno dei suoi colleghi passasse di lì.
L’ultima settimana di stage fu la più complessa. Quasi non si domandava più se avesse chance di rimanere – se lo domandava sì, ogni tanto, con gli occhi bassi, nella sua testa, senza far trapelare nulla, si chiedeva se lo volesse veramente fare, un lavoro così, che manco era il suo, ma se glielo avessero chiesto, cosa avrebbe detto? E se avrebbe detto di sì, perlomeno per gli altri, per far vedere che lo avevano preso, comunque, e magari avrebbe pure accettato – e aspettava la fine, trascinando per le file del magazzino grossi scatoloni che data la forma dello stomaco, non riusciva più a mantenere verticali. S’incurvava tutto sulla schiena per distribuire il peso e quando tornava, sentiva un dolore lombare irradiarsi su tutta la circonferenza del suo corpo. Cagare era diventato un sogno imprescindibile, un sogno davvero, che Mauro si faceva la notte, a occhi chiusi, e poi a occhi aperti, un pensiero fisso, ossessivo. La stitichezza totale impattava ormai sulla sua vita da oltre un mese. Mangiò prugne secche per settimane nella speranza che il suo intestino riluttante desse qualche segnale, e peperoncino, litri di caffè, cucchiai colmi d’olio, rimedi caserecci googlati con agitazione. Immaginò di morire gonfio, di esplodere a coriandoli nel mezzo del magazzino, e che nessuno mai se ne accorgesse, in ufficio, figurarsi. Mauro desiderava in effetti di vedere un medico, ma rimandava alla fine dello stage: non aveva la possibilità di prendersi giorni di permesso o non sapeva come farlo, e tanto meno a pochi giorni dalla fine, col tutor quasi irreperibile, che sì e no lo riconosceva. Fu lui che dovette dirgli – e lo fece non per dare un segnale, ma per sapere se dovesse fare qualcosa: “Capo, domani è l’ultimo giorno per me”. “Ma come”, gli rispose quello. “Testoni. Sei sicuro?” E Mauro annuì. E pure il tutor annuì. “E dopo Natale vediamo, se ci riservi”. Gli dette una pacca sulla spalla, gli guardò la pancia di sbieco e se ne andò.
E venne l’ultimo giorno. Di sogni, Mauro, ne aveva avuti molti. Era stato sempre bravo a scuola, ma medio, un bravo medio, a casa per tutti un bravo vero, e sempre ogni giorno gli avevano detto che lui poteva fare tutto, che poteva scriversi la sua strada e che doveva studiare, che poteva scegliere e che ce l’avrebbe fatta. E Mauro, con tutte le cose che voleva e poteva fare, si era fatto un po’ portare dal vento. Aveva detto che in fondo, un sogno valeva l’altro, che tanto valeva provare, e aveva fatto tanti di quegli stage. Il suo curriculum era una lunga lista di stage, uno per sogno, uno per possibilità.
Quel giorno, annodandosi la cravatta di fronte allo specchio, pensò che in fondo non aveva nulla da rimproverarsi. Lui aveva fatto quello che poteva, alla THU, quello che gli avevano chiesto, e pure di più, e si era fatto venire la stitichezza, per quegli scatoloni di merda, e ci aveva pagato un master, per quello stage di merda, che più di così, insomma, poteva solo sperare che lo richiamassero, dopo Natale. E forse anche per questo si era rimesso la cravatta, nonostante le camicie non gli arrivassero più sul davanti, se le metteva aperte sotto i maglioni slabbrati, che tanto non si vedeva, ed era andato in ufficio composto, dignitoso sempre.
Gli faceva male la pancia, però, e si bevve un tè al bar prima di entrare. Quando varcò la soglia dell’ufficio, ebbe la sensazione di dover scoreggiare. Serrò i muscoli delle natiche e si sospinse a passo svelto fino al magazzino. Quando si fu lasciato gli uffici alle spalle, liberò una sonora scoreggia. SBROF. Lunga, inequivocabile, che sprigionò un puzzo orribile. Mauro provò una sincera gratitudine per il suo corpo. Non aveva memoria di periodi precedenti di stitichezza così invalidante e finalmente la liberazione gli pareva vicina. Allineava le scatole e sognava il suo bagnetto tutto blu, con le mattonelle lucide, e il rumore dell’aspiratore, i piedi incastrati nel termosifone frontale al water, un ventre leggero, sgonfio. Contò i minuti uno a uno e a pranzo non riuscì a mangiare. Sentiva un’emozione che gli faceva frizzare le braccia, le spalle, le gambe. Nel mezzo, era come anestetizzato.
A mezz’ora dall’orario di chiusura, ebbe l’impressione che dentro gli si aprisse un varco, e che del liquido riempisse il buco e scivolasse rapido lungo le pareti di un imbuto. Dovette correre in bagno. In fretta inchiavò la porta dietro di lui, si abbassò i pantaloni e le mutande e si sedette sul water. Rilassò i muscoli perianali e un piccolo stronzo rotondo scivolò fuori dal suo corpo. Mauro tirò un sospiro di sollievo.
Poi, cagò. Cagò immensamente, una cascata di merda si rovesciò nello scarico del water, stronzo dopo stronzo. Ventitre minuti di defecazione consecutivi, un mese e mezzo di merda trattenuta. Lentamente il ventre perdeva la sua rotondità e tornava a esplorare il ritmo del respiro. Mauro si pulì e lasciò cadere la carta igienica nella tazza. Poi si alzò e guardò dentro: la rana era esplosa e un’informe massa di funghi aveva inglobato ciò che ne restava. Mauro pensò che doveva aver ingurgitato della muffa senza accorgersene, e che questa gli avesse camminato dentro, dalla bocca all’intestino, esule, a cercare pareti su cui sedimentarsi, parassitica. Era rimasto a fissare la merda sbigottito per qualche secondo, poi aveva premuto lo sciacquone e aveva controllato che scivolasse tutta quanta nello scarico. Si era ricomposto allo specchio e, accostando la porta, era sgusciato fuori dal bagno per raggiungere finalmente l’uscita.
Era stato allora che la puzza aveva travolto l’ufficio. Dal bagno, aveva pervaso in lunghezza il corridoio principale, infilandosi negli angoli, sotto le cornici appese ai muri; poi si era alzata lungo i divisori in plexiglass, e a quel punto tutti l’avevano sentita. Era entrata nella sala riunioni serpeggiando sotto la porta, e nei magazzini, nella sala mensa, negli ascensori, occupando ogni millimetro delle stanze. All’inizio s’era fatto finta di nulla, come si fa quando un collega tira una loffia e non si vuol essere maleducati, poi l’odore si era intensificato e fingere era diventato impossibile. Correndo per l’ufficio con i colletti sollevati sui nasi – e i più precisi con le mascherine – si ipotizzava che fossero le fogne, da fuori. Ma alcuni erano usciti in strada e fuori non si sentiva nulla. A mano a mano, s’era sparso il panico. E più gli impiegati aprivano le finestre per far circolare l’aria, più la puzza gli si arrampicava sui vestiti, si abbarbicava nei colletti, sulle scrivanie, nei faldoni, nelle tastiere dei computer. Pareva che si arrotolasse attorno alle penne e scorresse tra le dita, per annidarsi sotto alle unghie smaltate e nei polsini delle camicie. Tutto puzzava, alla THU, e qualcuno più di qualcun altro. Ogni più recondito anfratto della sede era invaso da quell’odore putrido e inequivocabile, primordiale nella sua evidenza.
Mauro se ne tornò a casa a piedi, inconsapevole e grato. Si accarezzò il ventre piatto e inspirò lentamente l’aria fredda della sera.
Vuvù, fischiò lontano il vento. Cracrà, gracidò una rana.
Piervito – A last shit
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