L’odore delle femmine

Di Lucia Tradii
copertina di Claudio Parentela


A dodici anni i genitori di Bernadette le regalarono una tenda da campeggio; così lei e la sua migliore amica Martina passarono l’estate a improvvisare campeggi selvaggi dentro il giardino di Bernadette, nel buio delle fresche serate estive, circondate dai grilli e da qualche lucciola. Quell’anno si erano anche ossessionate alle leggende di re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda. Presero d’assalto la biblioteca della cittadina e quel poco che ci trovarono lo lessero con bramosia. Quelli erano i tempi in cui non era tutto a portata di un click e quello che scoprivi aveva un sapore di conquista, come se appartenesse a te e a te soltanto. Bernadette non scorderà mai quando, aiutata dalla sola luce di una torcia e con l’alito di Martina che le arrivava sulle guance, lesse la storia di Yder.

Yder era un giovane nobile che si recò alla corte di re Artù per diventare cavaliere. Tuttavia l’eccessivo interesse che gli riservò la regina Ginevra suscitò la gelosia di Artù e di numerosi cavalieri della Tavola Rotonda, in particolare di Galvano, nipote del re. Così Artù si rifiutò di armare cavaliere Yder, almeno finché non avesse compiuto un’impresa degna di nota. Il giovane fu molto deluso, ma il destino lo mise presto alla prova. Un giorno, mentre si trovava nella camera delle dame, in cima a una torre, in compagnia di Ginevra, Galvano e le giovani donne che formavano il seguito della regina, un orso immenso fece la sua apparizione. Era l’orso del serraglio regale che era riuscito a spezzare le catene e a fuggire dal suo recinto. Le dame erano terrorizzate, Galvano si fece avanti per difenderle, cercò un’arma ma nella camera non la trovò. A quel punto intervenne Yder. A mani nude attaccò l’orso schiumante di rabbia e si gettò in uno spaventoso corpo a corpo. Ginevra e le dame si schiacciarono contro le pareti urlando, Galvano restò come pietrificato. La lotta fu lunga ed estenuante. Alla fine Yder riuscì a sfuggire agli artigli dell’orso, lo afferrò per la testa e per la pelliccia del collo, e lo portò accanto alla finestra. Lì, dando prova di una forza straordinaria, lo sollevò e lo gettò nel vuoto.

«Che strana storia» commentò Bernadette una volta finito di leggere.

«Perché?» chiese Martina.

«Perché l’orso era riuscito a scappare dal recinto. Era la sua occasione per tornare libero. Io al posto suo sarei scappata nel bosco e non mi sarei fatta trovare mai più. Invece questo orso non solo non scappa come prima cosa, ma addirittura si arrampica sulla torre dove ci sono dei cavalieri. Ma perché? Non ha senso.»

«Secondo me un po’ di senso ce l’ha. Secondo me ha seguito l’odore».

«Ma l’odore di chi? Dei cavalieri? Ma così non ha senso completamente. Voleva proprio farsi ammazzare?»

«Ma non dei cavalieri. Com’è che non ci arrivi?»

Martina aveva già perso l’attenzione per la storia intera e si era persa nel controllare una lunga ciocca dei suoi biondi capelli. Bernadette dovette tirarle una gomitata per risvegliarla e le chiese con la voce bassa e un po’ tremante di chi ha paura ma non sa perché:

«L’odore di chi?»

«L’odore delle femmine» sussurrò Martina.

Nel bosco c’è un silenzio quasi spettrale quando Bernadette ci entra dentro. Il sole ha appena iniziato a fare capolino da dietro le montagne scure e i suoi raggi colpiscono di lato i rami degli alberi, come deboli dita di luce. Le foglie dell’autunno passato scricchiolano sotto i suoi scarponi. Lei ne prende in mano una: è una lunga foglia di castagno. Ne osserva le venature e le macchie scure. Da bambina andava a raccogliere le castagne con sua nonna e ricorda soprattutto i colori simili della natura – le sfumature di marrone, di giallo, di arancione, di rosso e di verde – che le si affollavano davanti agli occhi, rendendola quasi ubriaca. Quando avevano finito di riempire il panierino, tornavano indietro, lasciando la terra odorosa per risbucare sulla strada asfaltata che di odori invece non ne aveva affatto. In quei pomeriggi assolati di inizio autunno incontravano tante persone che erano uscite in passeggiata. Era la gente del posto che conosceva bene sua nonna, e tutti la salutavano con quello che appariva come un grande rispetto. Anche Bernadette godeva di tale rispetto e aveva imparato a meritarselo contraccambiando il saluto. Ma quando incontrava Martina, che avanzava a passo sicuro e rumoroso, in mezzo ai suoi genitori di cui pretendeva la mano, il sorriso proprio non le veniva, e se anche gli adulti si salutavano allegramente con la bocca e con gli occhi, le due bambine non si venivano incontro nemmeno con lo sguardo. Sua nonna aspettava che la famigliola si fosse allontanata a sufficienza per commentare:

«Quella smorfiosetta non ti ha neanche salutata».

Bernadette si limitava ad alzare le spalle e sentiva la mente che si svuotava come una risacca. Presto si dimenticava dell’accaduto, eppure pretendeva che, per tutto il tragitto che rimaneva prima di tornare a casa, sua nonna la tenesse per mano.

Lascia scivolare la foglia a terra e si rialza in piedi. Gli uccellini hanno iniziato a cantare nascosti tra le fronde e, anche se sono così piccoli, rendono l’impressione che non siano loro ma gli alberi stessi, a cantare. Il sole si è alzato un po’ e l’aria è leggermente più calda. È appena iniziata la primavera e Bernadette pensa, con dolore e una sensazione di soffocamento, a quanto caldo potrà fare in estate. Si incammina con buona lena, affrontando la salita senza pensare a niente se non al movimento meccanico delle sue falcate. I castagneti lasciano spazio a pinete e faggete. Il sudore inizia a comparire dietro il collo e sotto le ascelle. Si ferma per brevissimi istanti, non per la stanchezza, ma per tastare il terreno. Sul suo viso non passa nessuna espressione, nessuna miccia di pensiero. Quindi riprende la sua marcia.

Martina e Bernadette frequentavano la stessa classe, ma la loro frequentazione terminava lì, nell’occupare uno spazio comune senza incontrarsi mai. Bernadette preferiva la compagnia dei maschi: giocare a calcio, imitare le mosse di wrestling e riempire il cortile della scuola con le urla emesse nel tentativo di sparare un’onda energetica. Martina invece giocava con le altre a campana, ad acchiappino, a uno due tre stella e a creare delle pozioni usando i petali dei fiori, la terra e l’acqua. Poi verso la fine della quinta elementare era successo qualcosa. I compagni avevano iniziato ad assimilare la nozione che tra femmine e maschi ci sono delle differenze, e che dove metti delle differenze ci devono essere anche i superiori e gli inferiori. Bernadette era stata tagliata fuori e i capelli, che prima teneva corti per poter giocare agilmente, se li era lasciati crescere fino alle spalle, perché gli altri avevano preso a chiamarla Bernadetto.

Un giorno le vola sul banco un bigliettino piegato più volte, con su scritto, in un inchiostro viola compreso di brillantini, “Da Marti”. Lo aveva aperto con le mani sudate, aspettandosi una presa in giro, invece ci aveva trovato la domanda, sempre nello stesso inchiostro: “Vuoi essere mia amica?” e sotto c’erano un sì e un no. All’inizio aveva pensato di scriverci al centro dei due quadrati un forse, ma poi aveva preso una decisione migliore e aveva fatto riavere il biglietto a Martina. Lei lo aveva subito aperto ed era rimasta un po’ sospesa a guardarlo. Aveva alzato lo sguardo e cercato quello di Bernadette. Quella fu prima volta che si sorrisero.

I compagni e le maestre non se lo sono mai saputo spiegare come hanno fatto quelle due a diventare inseparabili, ma di fatto era proprio così. L’una era diventata ospite fissa in casa dell’altra, e lì Bernadette si rese conto che Martina non era come se l’era sempre immaginata, cioè un bel vaso senza niente dentro. La camera di Martina era piena di libri, poster e quadri. Aveva un mappamondo gigantesco, un microscopio, quattro hula op, una collezione di sassi dalle forme strane, una sedia a dondolo e una libreria che occupava un’intera parete. In quel periodo Martina stava leggendo L’isola del tesoro e per tutto l’anno non giocarono ad altro che ai pirati. L’anno dopo fu la volta dei cowboy e gli indiani, quello dopo ancora di re Artù, quello dopo ancora dei cercatori d’oro perché avevano letto Jack London, quello dopo ancora avevano fatto delle letture più impegnative (L’Agnese va a morire, Una questione privata e I sentieri dei nidi di ragno) e si aggiravano per i boschi immaginandosi partigiane della Resistenza.

Poi i giochi sono svaniti così gradualmente che non se ne sono nemmeno accorte. Al loro posto erano arrivate le prime festicciole e le prime cotte. Martina aveva perso la verginità per prima e voleva che la sua amica la seguisse a ruota. Bernadette non se ne curava più di tanto, ma lasciava che Martina scrivesse lunghi sms ai ragazzi – lei otteneva sempre il numero di tutti – con il suo cellulare durante le lezioni di francese. Bernadette li conservava nelle bozze giusto il tempo per cui smettessero di essere divertenti, poi li cancellava. Ma una volta Martina – stanca che non si combinasse mai nulla – ne aveva inviato uno senza avvisarla. Bernadette si ritrovò, qualche tempo dopo, nei sedili posteriori della macchina di un ragazzo, senza sapere come ci fosse davvero finita. Il ragazzo è stato anche tanto carino a preoccuparsi di non farle male e si interrompeva spesso perché vedeva una smorfia sul volto di lei. In realtà Bernadette si doveva mordere le labbra per non scoppiare a ridere, perché non era più lì presente, ma si trovava già in un’altra dimensione, quella dove raccontava tutto a Martina. Crescendo ci sono stati altri ragazzi e altre amicizie, ma loro sono sempre rimaste unite. Dalle feste erano passate alle serate in discoteca ed era andato tutto bene fino a quella sera, la Sera Più Brutta del Mondo, che aveva spezzato in due le loro vite.

Si china un’altra volta. Alla cintura ha un lungo coltello da caccia, di quelli che servono per sgozzare i cinghiali. Tocca la fodera di cuoio come per accertarsi che sia ancora lì, che sia reale. Sposta un po’ le foglie e poggia bene i polpastrelli sulla nuda terra. C’è un’orma, grandissima, sarà dieci volte la sua mano. Un vento freddo le muove appena i capelli. Continua a camminare, stavolta tenendo lo sguardo fisso davanti a sé e non più a terra. Non ha più paura di inciampare e cadere. Cammina pensando solo che deve camminare e si inerpica sulla salita dura. Su, sempre più su, dove ad aspettarla ci sono gli abeti rossi.

L’ultima volta che ha visto Martina è stata l’estate scorsa. Le temperature superavano i trenta gradi e in certi momenti si faceva fatica persino a respirare. Eppure Martina rimaneva a letto, con il lenzuolo spalmato sul corpo come una sindone. Lasciava la camera nella penombra, a volte senza nemmeno aprire le finestre per arieggiare. Soltanto in rare occasioni sollevava di poco le tapparelle per lasciare intravedere una lingua azzurra di cielo, ma la luce le faceva male agli occhi e la sopportava sempre meno. Si stava lasciando morire e nessuno poteva farci niente, nemmeno la sua migliore amica che continuava a fare visita a quella camera da letto, nonostante il caldo, la puzza e quell’inquietante atmosfera tombale. La pregava di uscire Bernadette, di prendere un po’ d’aria e di non pensarci più, che in fondo non era stata colpa loro. Martina la guardava con gli occhi grandi che strabuzzavano dal grigio viso sempre più magro e le diceva che non ce la faceva. Proprio non ce la faceva.

«Sei sempre stata tu la più forte, Berni» le aveva detto un giorno.

Lei non ce l’aveva fatta a rispondere che non era vero, che non era riuscita nemmeno a sorreggerla quando ne aveva avuto più bisogno: quella sera, la Sera Più Brutta del Mondo, all’uscita dalla discoteca, quando il tacco della scarpa s’era rotto mentre tornavano alla macchina. Martina era caduta a terra, con il tacco mutilato in una mano era scoppiata a ridere e Bernadette l’aveva seguita anche quella volta. Forse se non si fosse messa a ridere, se soltanto fosse stata più vigile, li avrebbe sentiti arrivare. Ma la notte estiva era così fresca, la musica era stata così bella ed era così contenta di essere viva nello stesso momento della sua amica. Quando quei ragazzi le hanno raggiunte non se ne sono proprio accorte e anche quando le hanno schiacciato contro l’asfalto e hanno fatto dei loro corpi quello che hanno fatto, a Bernadette ci è voluto un attimo in più per capire. Mentre stava succedendo, la mente di Bernadette ha fatto un click e la ragazza ha avuto la sensazione straniante di osservare la scena dalla fessura della sua vecchia tenda, mentre la voce acuta da dodicenne di Martina le raccontava di come Yder ha gettato fuori dalla finestra un orso. Ha pensato, tra tutte le cose che poteva pensare, che se fosse stata un orso avrebbe dilaniato le gole di quei ragazzi che in quel momento le stavano alitando sulla nuca. Non era un orso, ma, se le storie sono in parte vere, allora anche gli orsi covano nel petto il desiderio di femmine, e, piuttosto che scappare liberi nei boschi, preferiscono scalare torri e combattere contro i cavalieri, pur di avere una speranza che odora di gonna. E allora, sempre se le storie conservano un pizzico di verità, c’era ancora qualcosa che Bernadette poteva fare.

L’orso si alza sulle zampe posteriori per poterla osservare meglio. Lei resta come pietrificata, nella stessa posizione di quando si è resa conto che quella grande roccia che aveva intravisto non era in realtà una roccia. L’orso ha un pelo folto e lucente, per la maggior parte bruno, ma in base ai movimenti che fa e a come la luce lo colpisce, in certi punti si rivela fulvo. Ha due grandi occhi ambrati, curiosi, come quelli di un cane. Le narici si allargano e il rumore che fa mentre aspira sembra quasi un lamento. Bernadette porta la mano al coltello. L’orso la guarda e l’annusa. È distante una ventina di metri: un niente. Tiene le zampe anteriori inarcuate davanti al petto, in una posizione comica, come se si vergognasse a chiedere qualcosa. Bernadette ora pensa che vorrebbe solo scappare, mettere più spazio possibile tra lei e l’animale, correre fino a non sentire più le gambe, e poi non sentire più le braccia, e poi il torace, il bacino, e la testa, fino a scomparire in un soffio d’aria. Poi pensa a Martina. “Sei sempre stata tu la più forte, Berni”. E inizia a parlare.

«Orso, come potrebbe finire tra noi? Con io a pezzi dentro il tuo stomaco, non è semplice? Invece sono qui per chiederti una cosa. So che ti sembrerò pazza, anche solo per il fatto che ti sto parlando con parole umane. Ma niente ha senso ormai e sento che questa è l’ultima cosa che posso fare e se non la faccio allora sarà la fine. Se tu mi capisci, Orso, anche solo un pochino, ti prego di ascoltarmi. Ho letto tante storie sul tuo conto e ti sembrerò una bambina infantile, ma credo che nelle storie ci sia sempre un pezzo di verità. Anche un pezzettino misero. Altrimenti che senso ha raccontarle? Una persona non può andarsene senza aver lasciato qualcosa, altrimenti il prezzo da pagare sarebbe troppo alto. E quel qualcosa sono i ricordi delle persone che le hanno voluto bene, che sanno com’era quando era fatta di carne e ossa e aveva piedi per correre e denti per ridere. Quei ricordi diventano storie e le storie esistono perché c’è sempre qualcuno che le racconta e qualcuno che le ascolta. Ma ti sto confondendo, mi confondo da sola. Il punto è che so cosa dicono di te le storie. Dicono che ti piacciono le donne, che le rapisci, che con esse puoi generare figli dall’aspetto umano e dalla forza orsina. Se è vero tutto questo, Orso, solo una cosa pretendo: figlie e non figli, che questo mondo non ha bisogno di altri uomini dalla forza bruta. Dimmi una volta per tutte: è possibile?»

L’orso la guarda a lungo dopo che ha finito di parlare. Muove solo il capo a destra e a sinistra. Poi si abbassa lentamente. Si volta e si allontana, graffiando la terra e le radici esposte. Lei sente le spalle afflosciarsi, gli occhi inaridirsi, come se si stesse prosciugando ogni cosa che ha dentro. L’orso si ferma, volta solo il capo nella sua direzione e la guarda con occhi intensi e brillanti. Lei fa un passo in avanti, ma si arresta per una paura atavica. L’orso continua a guardarla, allora lei avanza di un altro passo. L’orso riprende a camminare, di una camminata lenta e seria, e non si volta più. Lei ora ha capito e lascia che i piedi trovino la strada dove la strada non c’è, seguendo i passi dell’orso che la guidano verso le scure montagne.


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