Quando camminavo tra i fossi

Di Alessia Marchiori
copertina di Claudio Parentela

1

Il nostro arrivo era stato preceduto da un infestante latrare di cani da caccia che tiravano la catena. Qualche timido airone cenerino amava sostare nei pressi di quei canaloni. Il chiacchiericcio delle galline, ammassate in un angolo dell’ampio cortile, mi era familiare. La casa padronale dei nonni era un’incombente cattedrale stanca che sorgeva su mari di nebbie e campi di giovani meli.

L’interno era cupo e finto, se non fosse stato per la luce calda profusa dalla lampadina della cucina. Le perline di legno ricoprivano interamente le pareti, dissimulando insidiose macchie di umidità. Inutili suppellettili stazionavano da decenni su ripiani e mobili in ombra. In un anfratto del salotto, venivo sempre colpita dall’espressione di alcuni animali imbalsamati dallo zio bracconiere. È davanti alla volpe che ride che ti sentii per la prima volta:

«Il pendolo segnava l’una. Che stilettate sul fianco, che colpi sulla schiena. ‘Chiama la Rosetta, presto!’, dissi all’Amorino. L’era il giorno dopo la notte di San Giovanni. E poi, non ho più tenuto». Un alito freddo di naftalina mi attraversava il collo.

«Mi ero accucciata qua davanti, in corte, ché il caldo mi faceva mancare. ‘Sa feto come le bestie?’ diceva Amorino. La Rosetta, svelto, la Rosetta, dai. L’è ora. Il sangue calava sulla coperta, quella alla buona, stesa per terra, sugli asciugamani di buon mercato. Il tosetto arrivava, i fratelli dormivano su, come niente. Lì sotto, non ero più io. Come la melagrana che se spacca, mi sono buttata indietro la testa, a batterla, per non sentire dall’altra parte. Mi andava fuori e dopo non sembrava. Gli assioli cantavano: chì, chì, chì. Adesso moro, pensavo. Ed eccola, la Rosetta».

«Nonna. Nonna, perché mi racconti questo?»

«E la Rosetta, con la bacinella dell’acqua calda vicino, si mette a ravanare là sotto. E poi tira. ‘Eccolo, Rina, eccolo el tosetto’. E lo copre, la ghe batte sulla schiena, lo pulisce. Mi stendo una mano là sotto. Non sento niente, non c’è più niente? La Rosetta mi tende Claudio, il quinto. Claudio è bianco e rosso, anche se si vede poco. Spetta n’attimo Rosetta, che mi prendo. Lo guardo. Piange come un vitellino, prima del colpo finale. Gli vedo la testa, un po’ schiacciata. Non somiglia a nessuno».

2

Il giorno dopo mi svegliai al suono del tosaerba che insisteva su un punto particolarmente folto del prato. Incespicava, rombava come se stesse usando la sua massima forza prima di tirare gli ultimi respiri, e poi si affievoliva nel suo solito ronzio.

Mi affacciai alla finestra. Il sole filtrava leggero tra i tetti dei pollai, le file di verze e i pomodori rampicanti. I cipressi, lungo i fossi, parevano anziani muti a capo chino, intenti a captare i versi di ogni raganella.

«Zio, sei già andato in paese»?

Lo zio Claudio sollevò il viso. La testa pelata dietro rifletteva la luce, imperlata di sudore. Fece un rapido cenno col mento come a voler scacciare una zanzara, e continuò il suo lavoro. I pantaloni dietro quasi gli calavano, lasciando intravedere mutande a quadrettoni.

Interpretati il suo gesto come un no. Dopo colazione, mi buttai a capofitto sui libri, proprio in cucina senza animali impagliati o troppe suppellettili di passate cerimonie. Solo la foto del Papa che mi benediva, appesa all’ingresso del cucinino. L’esame di grammatica latina sarebbe stato la settimana successiva e io avevo deciso di approfittare appieno del silenzio e della tranquillità di quella casa, prima del fatidico giorno.

«Vao adesso» sentii alle mie spalle. Due biglie tonde e azzurrine mi fissavano, la pancia grande come un catino pieno d’uva ansimava, forse per il precedente lavoro.

«Prenderesti del formaggio e un po’ di prosciutto, oltre al pane? Sono finiti».

Claudio sbuffò e si girò, asciugandosi la testa col fazzoletto. Un doloretto ai reni s’insinuava intanto tra un ablativo assoluto e una consecutio temporum. Iniziava leggero e poi ritmava quasi il mio respiro. Meno male avevo portato con me del Brufen.

Una notifica dal telefono distolse la mia attenzione. Avevo dimenticato di disattivare la suoneria anche stavolta; andai a controllare in salotto, sopra il centrino a pizzi della credenza, dove l’avevo lasciato. L’occhio mi cadde sulla foto accanto: la nonna mi fissava con occhietti da lince, un sorriso appena abbozzato su labbra corrugate. Era bassa, con un tailleur che le copriva fino alle ginocchia. Si aggrappava all’avambraccio del nonno, svettante sui suoi capelli raccolti, e sembrava un piccolo roditore che nasconde il muso per non farti capire che l’ha fatta franca.

Il dolore ai fianchi ricominciò. Con un dito accarezzai quel viso sfuggente in bianco e nero, raccattando un velo di polvere. La panda dello zio, nel frattempo, rientrava in cortile.

3

«Prosciutto, questo era rimasto» disse Claudio lanciando un pacchetto di carta alimentare sul tavolo, accanto ai miei libri.

«Zio?» lo fermai alzando un po’ il tono, d’istinto. Quella sera sarebbe arrivata anche mia cugina Martina ad animare quel mortorio, e addio pace per lo studio o per la riflessione.

«Zio, ma la nonna che tipa era quando tu eri piccolo? Tu, intendo, e tutti gli altri quattro?». Claudio, infatti, era l’ultimo di una nidiata venuta su in quella corte, attorno alla quale ogni sera le nutrie tenevano comizio, lungo i fossi.

Lo zio trasalì, e dovette forse scegliere tra le sue immagini mentali quella che lo soddisfava di più, quella più impressa. O quella che si poteva dire.

«Mah, oddio. Non parlava tanto, sempre dietro alle pignatte, alle galline. Ogni tanto veniva in corte e ci sgridava, sventolando uno straccio. Ma noi, poi, facevamo lo stesso. Non ricordo bene. Mi, non so niente alla fine» e partì di nuovo fuori, a sistemare le trappole per le volpi, in fondo al campo e poi ancora dentro al pollaio, a sistemare le galline. Le sistemava ogni mezz’ora. Possibile che queste galline fossero così esigenti?

Il giorno trascorse in fretta e la sera, prima di cena, andai a prendere un po’ di freschetto lungo le viette di ghiaia che accostavano i fossi. Mi fermai di fronte a un capitello del 1904. La Vergine aveva gli occhi incrostati e inclinava la testa in una posizione mesta; a Gesù mancava un braccio. Entrambi protetti da una grata. Qualcuno, mi chiedevo chi, veniva ancora ad apporre rose fresche e gelsomini quasi ogni giorno. Inspirai profondamente quel profumo.

«Mi dicevano che forse gli mancava qualcosa, che il parto non era stato svelto. A me non sembrava. Crescendo però, l’era bastian contrario in tutto. Se davo da mangiare ai cani, lui dopo andava ad attaccargli briga, se curavo i fiori, lui pallonate contro, apposta. Carne, non gli piaceva, e ancora mi stava sveglio di notte a fare una nenia che solo lui capiva. Dormi Caio, gli dicevo. Macché. Di quei nervosi».

Una voce arrivava sussurrata nel vento. Mi voltai. Nessuno. «Nonna, sei tu? Che cosa vuoi dirmi?».

Silenzio. E poi ancora sentii salire quasi dall’acqua stagnante un mugugnare. «Non ghera quel che gh’è adesso. Ci si arrangiava. Cosa vuoi». Una raganella si tuffò, quasi interrompendo il flusso di parole. I grilli avevano già iniziato a frinire in lontananza. «Tu, cara, basta che tu abbia sempre una bella maniera e va tutto ben. Adesso, sono altri tempi. Anche tuo papà non aveva voglia di lavorare, ma almeno ha studiato i suoi anni di segretario». La frase finì con un lungo sospiro, come dettato da una vecchia fatica che sempre si ripete.

Non ebbi il tempo di rispondere che vidi in fondo alla via due farsi distanti mentre si avvicinavano. Era arrivata Martina. La pace era finita.

4

Cara nonna, sei venuta a trovarmi quella sera di fine estate, quando le nebbie non sono ancora nebbie ma veli impalpabili e puoi abitarci dentro, se vai a camminare. Mi senti ancora? Io mi ricordo, quando ero piccolina e venivamo trovarti, una volta al mese. Tiravi fuori le patatine o le sfogliatelle dalla credenza e le mettevi al centro del tavolo. Quelle di sottomarca, però, che avevi trovato in offerta. Quelle buone, più gustose, le nascondevi dietro altre ante, come avevo appurato curiosando qua e là, per quando veniva Giancarlo, il fratello di papà. Il primogenito. E mi ricordo la lingua salmistrata per pranzo: quella lunga vena perlacea al centro della carne e la cura di non includerla in nessun pezzetto che tagliavo. Quando andavo in bagno rovistavo nel mobiletto, perché volevo capire. E non trovavo niente che non fosse una crema da barba, un pennellone per applicarla, dentifricio, uno shampoo. Dalla finestrella si sentiva il borbottare dei cani legati alla catena. Che cosa ti piaceva nonna? Di cosa parlavi? Cosa facevi quel tempo che non dormivi di notte, da sempre insonne?

Quella sera, quando arrivò Martina, lo zio era seduto in corte. Il tabacco incandescente fu l’ultimo momento di silenzio. «Zioooooo, eccomi! Quanto tempo! Sei contento che sono qua? Hai visto? Hai ben due nipoti che ti tengono compagnia, che vuoi di più?».

Claudio accennò un sorrisetto, si alzò, spense la sigaretta e accolse quell’abbraccio in modo maldestro, quasi cadendo da un lato. A cena mia cugina ci raccontò per filo e per segno le peripezie dei suoi viaggi: ad ogni punto di tensione i ciuffi viola sulla fronte le sobbalzavano e faceva scorrere rapidamente il piercing sulla lingua tra le labbra semichiuse, come a voler disegnare delle virgolette a quel momento narrato. Claudio non si scomponeva e buttava giù il riso chino sul piatto. Quando mi alzai per prendere il sale, vidi da dietro, sopra una schiena larga e ricurva, le pieghe del grasso del collo, come quelle di un neonato gonfio, e la pelle mi si rizzò sulle braccia.

«Ma te, Ale, l’hai finita o no questa università? Ancora studi?»

«Macché finita, ne ho ancora…»

«Oh mamma, non so come fai, tutto quel tempo sui libri, io proprio non potrei. Guarda lo zio qua, si spacca la schiena come muratore, ma alla fine non se la passa male no?».

Lo zio masticava lentamente e accennò un debole Eh tra i denti, cercando di volgere lo sguardo alla Tv accesa. Poi Martina si alzò per prendere il pane e colse l’occasione per saltargli addosso da dietro, cavalcando quella schiena vergognosa. «Ma zio, la mancia come ci davi da bambine? Che fai non ce la dai? Ma dai, così non si fa, una mancetta piccola, nulla di che, facci contente, dai su» e osò tirargli i lobi rossastri, come fosse su un bovino stanco. Il risotto mi si fermò in gola. Abbassai lo sguardo prima sulle mie gambe e poi direttamente alle fantasie marmoree delle piastrelle, immaginandomi mondi minuscoli e brulicanti dove rifugiarmi.

Lo zio quasi si alzò, di scatto, facendo sobbalzare malamente Martina da dietro, che lasciò la presa.

«Ma basta!» e si sbracciò verso l’indietro, quasi a voler scacciare un nugolo di zanzare, gli occhi glaciali pieni di venuzze. Martina rise, sollevando le sue sopracciglia disegnate. «Che palle, zio, nemmeno venti euro?»

«Dai, Martina, non siamo più bambine no?» le suggerii, mentre vidi la nuca dello zio pulsare.

«Cara, mi non so mia to nona, che la te dava schei ogni olta» sentenziò Claudio, alzandosi del tutto e gettando il tovagliolo per terra. Martina non demorse e forse non vide tutto il carico antico che lo zio si portava dietro, in anni di solitudine, credette forse che la bocca quasi tremante si sarebbe presto trasformata in ghigno beffardo, ma così non fu.

«La nonna, la nonna. Ma lo sai che l’ho sognata l’altra notte? Mi diceva che eri fuori: sta ‘tenta, che l’è fora!» imitò Martina, in un dialetto che da tempo non era più il suo. Lo zio rimase impietrito; per un momento appoggiò le mani ai pomelli della sedia, stringendoli forte. Solo l’anulare, falciato a metà anni prima da una sega, rimaneva dritto nel suo moncone. Il respiro sembrava quello che apre il petto dopo un lavoro pesante. Mi guardò e il suo sguardo era pieno di domande, o forse di richieste.

Nella mia testa ci sedevamo sotto al gazebo e parlavamo di quanto si può avere paura a volte, del fatto che le mura di quella casa raccontassero, e non solo di misfatti. Ma rimasi in silenzio, di fronte a un’eruzione che reputavo inevitabile. «Finissela!» gridò Claudio, avvicinando il viso paonazzo a quello di Martina, e trascinando tutto il suo peso ansante se ne andò nel pollaio, sbattendo la porticina.

«Che hai fatto? Ma perché?» risposi a Martina.

«Vabbé dai, che ho fatto? Un po’ schizzato a forza di stare qua, per me lo è» e non ebbe finito di dire la frase che lo zio rispuntò dal pollaio, con un fazzoletto in testa e una giacchetta, e si mise a correre stralunato in mezzo ai campi, finché l’oscurità non lo inghiottì.

Entrammo nel pollaio e là, sparse in mezzo alle galline, scritte in uno stampato stentato, e un po’ traballante, quasi da scuola primaria, c’erano mucchi di lettere, proprio lì, a qualche metro da dove era nato. Erano indirizzate a te, cara nonna, e contenevano migliaia di parole, frutto di lunghissimi silenzi, parole che forse non avevi mai voluto ascoltare.


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