Di Orlando Vuono
copertina di Claudio Parentela
A settantun anni suonati, Clementino era il più anziano della famiglia: superava di cinque, sette e quarantadue anni Letizia, Gianfranco e Giada.
Clementino fu Clementina per settant’anni: poi venne fuori che con un piastrone così concavo e una codina così lunga non poteva essere femmina: divenne quindi Clementino.
Giada aveva letto su Wikihow che il piastrone concavo serve ai maschi per non cadere, durante l’accoppiamento, dal guscio dell’amante; il piastrone piatto, più spazioso, serve alle femmine per lo sviluppo delle uova. Le era parso assurdo che l’anatomia permettesse una sola figura nel kamasutra testugginesco: lui sopra lei sotto, ovviamente: assurdo e ingiusto.
La coda del maschio è più lunga perché deve contenere, il sito usava un verbo che fece sorridere Giada, accogliere, i genitali; inoltre, ma questo preferì non dirlo ai genitori, l’ano della femmina, tondeggiante e vagamente stelliforme, si trova tra coda e guscio, mentre quello del maschio, paragonabile a una lunga fessura, è vicino alla punta della coda.
Il piastrone, la coda e l’ano di Clementino sembravano le riproduzioni reali delle illustrazioni di Wikihow: non c’erano dubbi: era un tartarugo.
La transizione di genere destò perplessità e dissapori in tutti fuorché Clementino.
Gianfranco s’immaginò Gianfranca, ma non vedendosi sbarbato dalla cresima di Giada, forse dalla comunione, forse addirittura dal battesimo, si figurò donna barbuta: la visione, nonostante il detto popolare, gli piacque poco e decise di continuare a chiamare il tartarugo Clementina: «Faccio così da più di trent’anni: come se ora ti dovessi chiamare Giado».
Giada contestò l’umorismo becero del padre, scoppiato a ridere per quel nome, Giado, lamentando che «se mi sentissi maschio e diventassi maschio sarebbe un problema?», e che «il binarismo di genere è anacronistico», e che «ci vorrebbero nomi neutri o unisex per non urtare nessuno», e che, e che, e che.
Letizia cercò di mediare: «Chiamiamola Clemì!».
Siccome Gianfranco aveva avviato una delle sue filippiche sui giovani, rei di contestare «le stronzate» e ignorare «i problemi veri del mondo», e Giada stava già elencando «i problemi veri che avete causato voi», Letizia placò la rissa verbale sostenendo l’insostenibile e facendo così coalizzare figlia e marito contro di sé: «Per me le tartarughe non hanno sesso. Come gli angeli».
Nei decenni precedenti nessuno si era chiesto se Clementino, notoriamente vergine, fosse maschio o femmina; o meglio: se l’erano chiesto tutti ma non abbastanza scientificamente da consultare internet, perché internet non esisteva, o un veterinario, perché i veterinari del quartiere avevano una reputazione poco migliore di quella dei vigili urbani.
In quell’età in cui le altre bambine giocano a far flirtare, fidanzare, sposare e divorziare Barbie e Ken, Giada aveva condotto diversi esperimenti d’amore in cui spronava Clementino ad accoppiarsi con l’altra tartaruga del giardino, Alfredo, il quale aveva un terzo dei suoi anni ma il triplo delle dimensioni.
L’incontro amoroso con Alfredo, che poteva benissimo essere il pronipote di Clementino, e per giunta sembrava un peso massimo al cospetto di un peso piuma, e in più aveva quel suo caratterino sempre tra l’euforico e l’imbizzarrito, si trasformava subito, ogni volta, in incontro di lotta libera: in balia di unghiate, morsi, testate, spinte moderatamente fulminee, Clementino provava sulla propria pelle e sul proprio carapace e sulla propria gola mordicchiata dalla mascella sdentata di Alfredo la drammaticità del gap generazionale: non c’erano più le tartarughe ossequiose, educate e gentili di una volta.
Dopo la scoperta su Wikihow, assalita dal dubbio su un possibile fraintendimento di genere anche per Alfredo, Giada ne esaminò scrupolosamente il piastrone, la coda, l’ano: il piastrone era o almeno sembrava concavo, la coda era o sembrava lunga, l’ano non era o non sembrava una stella. Scartò l’ipotesi che tanto avrebbe divertito e contrariato suo padre: ribattezzarlo Alfreda.
Sapere che Clementino fu vessato innumerevoli volte per inverosimili aneliti d’amore, la riempì di sensi di colpa che durarono settimane: dentro di sé, però, puntualizzò sempre che non ci sarebbe stato nulla di male se Alfredo e Clementino si fossero accoppiati; il problema non era la loro comune identità di genere, ma l’imposizione: come se si potesse amare a comando. No: amare è l’unica cosa a cui nessuno può essere obbligato.
Per salvaguardare l’incolumità di Clementina, vessata dagli esperimenti d’amore condotti da Giada, un giorno Gianfranco stabilì che Alfredo e Clementina non potessero più vivere sullo stesso livello del giardino: assegnò la parte bassa a Clementina, quella di mezzo ad Alfredo, quella alta, in previsione della pensione, a sé.
Da allora Alfredo e Clementina non si incontrarono né scontrarono più: Alfredo scrutava Clementino dall’alto e desiderava scendere le scale metalliche per sfogare la propria esuberanza sul vecchio, minuscolo tartarugo; Clementino cercava di non alzare lo sguardo oltre la scala: se per caso lo faceva, e per caso intravedeva il giovane, mastodontico Alfredo, scompariva all’istante nel carapace e ci restava dentro almeno due ore.
Finalmente neopensionato, Gianfranco poté dedicare tutti i pomeriggi alle penniche e tutte le mattine al restauro di mobili, al birdwatching, all’orto, allo studio del tedesco e del giapponese. A metà mattinata dava sempre un’occhiata ad Alfredo che cercava Clementina o a Clementina che si nascondeva da Alfredo, e rideva: tra sé e sé, ma di gusto.
Letizia notò che Clemì, tra i settantadue e i settantatré anni, manifestava un comportamento che alcuni definirebbero particolare, altri bizzarro, altri freak, altri ossessivo-compulsivo.
L’origine del cambiamento andava fatta risalire all’estate prima, quando vennero a trovarla Lorenzo e Martina, gli unici bambini che le ronzavano attorno dandole la lieta illusione di essere nonna: tutto merito di Nicola, il figlio della sorella: Giada, invece, d’intenzioni serie, nonostante il superamento dei trent’anni, nessuna.
Siccome gli zii avevano il giardino, Lorenzo e Martina si erano portati il supersantos e dei racchettoni da spiaggia taglia s che Martina chiamava «racchettini».
Lorenzo provò a giocare a calcio ma dovette arrendersi al fatto che il giardino della zia fosse «tutto storto e incasinato», come diceva lui che a otto anni certo non poteva apprezzare la frantumazione di un giardino pensile su tre livelli nessuno dei quali pianeggiante e ciascuno dei quali riempito, centimetro per centimetro, di piante, fiori, attrezzi, stendini, sedie, tavoli, sculture, cocci, biciclette arrugginite, moke, pezzi di cose ormai indefinibili.
Giocarono a racchettini usando lo stendino come rete finché non apparve Alfredo. Erano, infatti, al secondo livello del giardino: il suo giardino. Per rabbia o contentezza, Alfredo cominciò a sbattere il carapace sulle scarpe di Lorenzo, che, in preda al terrore, saltò due metri più in là, ma fu raggiunto e colpito ancora e poi ancora dal carapace di Alfredo. Martina salvò il fratello con astuzia e coraggio: prese Alfredo tra le mani e lo ribaltò a terra dalla parte del guscio: Lorenzo si sganasciò dalle risate vedendo le zampette e la testa e la coda dimenarsi in aria disperate. Poi ebbe un’idea e la propose alla sorella, che accettò con gioia: per un’ora il piastrone concavo di Alfredo fu bersagliato dalle palline furiosamente colpite dai racchettini.
Gianfranco, innervosito dalla pennichella andata in fumo, uscì e gridò: «Ma che cazzo di giochi sono! Vergognatevi! Dovreste vergognarvi! Smettetela o vi prendo io a racchettate!».
Ai bambini passò la voglia di giocare. Quando il padre li richiamò, Martina prese i racchettini mentre Lorenzo dimenticò il supersantos al primo livello del giardino degli zii: il giardino di Clementino.
«Certo che Clemì è strana…» disse Letizia a cena. Gianfranco rispose: «A me Clementina mi sembra la meno strana della famiglia». E Giada: «Ha parlato il poliglotta che confonde maschili e femminili nella sua lingua madre.»
«Vi dico che è strana: ieri mentre papà dormiva ha passato tutto il pom—»
«Lo sai in tedesco come si dice il sole?»
«No.»
«Si dice die sonne.»
«Quindi?»
«Die! Die è femminile, i tedeschi dicono la sole. E la luna: dem mond. Dem è maschile. La luna è maschile e il sole è femminile.»
«Wow. E quindi?»
«La sola e il luno, dicono i tedeschi.»
«Papà, ti giuro, non capisco cosa ci vuoi dire: in tedesco il sole è femminile e la luna è maschile: e quindi?»
«Clemì, parliamo di Clemì: vi dico che è strana.»
«Strano, mamma. È strano.»
«Seltsam!»
«Non ho capito, Già. Cosa vuoi? Il sale? Ti fa male troppo sale…»
«Seltsam: in tedesco, strano, si dice seltsam.»
Un tedesco, messo di fronte al comportamento di Clementino, avrebbe potuto definirlo seltsam; Gianfranco e Giada, invece, quando furono costretti da Letizia a rinunciare a sonno e lavoro per uscire a vedere «cosa combina Clemì da un’ora», si lasciarono scappare delle imprecazioni, «Porcaputtana!» «Cristosanto!», che Letizia redarguì sconsolata: «Ma che parole sono? Perfavore… Tutti e due…».
La palla, il cui arancione ruspante era stato scolorito dal sole e dalle intemperie in un pallido, marcescente verdarancio, si muoveva avanti e indietro e avanti e indietro dalla scala metallica al vaso di primule. Motore indefesso di quell’andirivieni, insospettabilmente, inspiegabilmente, Clementino.
Col guscio e il muso Clementino spingeva la palla e quando la palla accelerava allontanandosi Clementino la inseguiva velocissimo nonostante evidenti limiti di età e specie.
A volte si fermava a contemplarla, magari un minuto, due, poi ripartiva: scala vaso scala vaso scala vaso.
Letizia, Gianfranco e Giada fissarono Clemì, Clementina, Clementino fino al tramonto, ammaliati.
Che ci fossero momenti di attivismo estremo in seguito ai giorni d’immobilità post-letargo, si sapeva: sia Alfredo sia Clementino li avevano abituati a capricciosi attacchi alle scarpe, alle ciotole, agli stendini, ai vasi, alle sedie, soprattutto dopo ingorde scorpacciate di frutta marcia o pomodorini. Ma l’ossessione per la palla, braccata ogni giorno dal primo al tardo pomeriggio, era per tutti un’altra cosa, per nessuno la stessa.
Per Gianfranco, Clementina nel pallone vedeva un imprecisato nemico: lo si poteva arguire dalla velocità ansiosa con cui lo spingeva lontano. Una notte, alle quattro e un quarto, svegliò Letizia per confidarle un’intuizione onirica: Clementina era convinta che il pallone fosse un essere vivente pericoloso e la prova che fosse vivo stava nel fatto che si muovesse: senza rendersene conto, il nemico di Clementina era la stessa Clementina, e ciò aveva un significato «in qualche modo metaforico» sussurrò allarmato e compiaciuto Gianfranco a Letizia, che gli diede ragione su ogni punto pur di tornare subito a dormire: «Sì sì… certo… sì…».
D’altronde lei, la sua idea, ce l’aveva già, e solida. Il pallone aveva una forma tondeggiante e dei colori verdaranciastri che visti con occhi particolarmente presbiti come dovevano essere quelli dell’attempato Clemì potevano benissimo essere confusi con i tratti di una tartaruga: Clemì ammirava, spingeva, inseguiva la tartaruga amata. Che poi anche questa ipotesi potesse avere significati metaforici inquietanti, considerando che Clemì amava una propria proiezione, quindi sé stessa, a Letizia non venne in mente e se le fosse venuto in mente non avrebbe certo svegliato qualcuno nel cuor della notte per crucciarsene.
Giada pensava che il pallone non fosse nient’altro che un pallone anche per Clementino. Presumere che, diversamente dagli umani, Clementino non fosse in grado di riconoscerlo, era l’ennesimo peccato di superbia antropocentrica. I motivi degli inseguimenti restavano enigmatici. Giocava? Così tanto e a quella veneranda età? Amava? Sì, oggi si ipotizzano flirt con intelligenze artificiali, ma quanto è realistico che un tartarugo si prenda una cotta per un supersantos?
Amore di un oggetto, amore di un oggetto scambiato per tartaruga: «Cazzate!», sentenziò Gianfranco. «Non vedete come lotta per cacciarla? Clementina è disperata. Vuole allontanare il nemico, lo odia. Si vede, guardatela!»
«Cosa fa quando vede Alfredo?»
«Perché?»
«Si nasconde nel guscio, no?»
«Sì, di solito sì.»
«Sempre, pà: sempre. Clementino non è un gran lottatore.»
«Per colpa tua che l’hai traumatizzato da piccolo.»
«Però ammetti che non—»
«Ti ricordi come volevi farla fidanzare con Alfredo a tutti i costi ma lui non ne voleva sapere e piuttosto che… la riempiva di botte…»
«Quindi ammetti che non è esattamente un cuor di leone.»
«È un cuor di tartaruga!» s’intromise Letizia: «Un cuor innamorato!»
«Sì, perché adesso gli angeli si innamorano…»
«Gianfranco: ma tu che ne sai, degli angeli?»
«Abbastanza da sapere che non si innamorano.»
«E Cupido allora?»
«Ma che scemenze dici? A parte che Cupido fa innamorare, ma poi da quando in qua è un angelo?»
«Ha le ali…»
«Anche le frecce se è per questo. Conosci molti angeli con le frecce?»
«San Sebastiano.»
«Certo, pure San Sebastiano. Un angelo!»
«Perché no? Prima l’hanno ucciso poi è diventato un angelo.»
«Mamma, mi dispiace dirtelo: c’è scritto che era un militare» disse Giada agitando lo smartphone.
«Che c’entra? Un militare non può diventare angelo?»
«Ma ti rendi conto delle stronzate che dici?» «I militari sono assassini!» gridarono all’unisono Gianfranco e Giada.
«Avrete ragione voi, che vi devo dire… Comunque, se non è innamorato Clemì, io non so proprio chi lo sia.»
A settantacinque anni, quando ormai nessuno polemizzava sulla sua supersantosmania, Clementino tornò prepotentemente al centro delle angosce familiari.
Siccome Clementina e Alfredo non sempre trovavano le forze per dissotterrarsi da sé, negli ultimi anni Gianfranco a novembre fotografava le loro buche e alla fine di marzo, se non erano ancora usciti, prendeva la pala e scavava delicatamente dove si erano tumulati: bastava togliere la terra sopra il guscio, poi si arrangiavano.
Quell’anno non riuscì a individuare i punti esatti in cui scavare perché Giada gli aveva regalato una crociera e gli era toccato andarci con Letizia. Giada si era presa l’incarico di fotografare i punti del letargo ma, come si aspettava, i giovani, eccezionali fotografi di sushi e vestiti pagati coi soldi paterni, erano del tutto inetti se c’era da star dietro ad animali svelti come le tartarughe. Al suo ritorno non trovò né Alfredo né Clementina né le foto promesse. Giada e Letizia sdrammatizzarono: le tartarughe se la sarebbero cavata benissimo da sole. Gianfranco vaticinò il dramma: e dramma fu.
Alfredo fu trovato in una mattinata. Anziché ringraziamenti, Gianfranco ottenne da Letizia e Giada soltanto risate e rimproveri per le sue solite lamentele apocalittiche.
Una settimana di ricerche, invece, non bastò a trovare Clementina. Per quanto inquieto, Gianfranco provò un pizzico di soddisfazione vedendo che la moglie e la figlia avevano finito i sorrisi. Ma la felicità della rivalsa durò poco: Letizia ordinò scavi in ogni angolo del giardino di Clemì, di Alfredo, dell’orto di Gianfranco; lui provò a replicare che non aveva alcun senso mettere a soqquadro tutti i livelli del giardino, Alfredo, fino a prova contraria, non volava, non saliva le scale, ma Letizia fu irremovibile e Giada, come se non avesse già fatto abbastanza danni, le diede ragione.
Gianfranco scavò, sradicò, bestemmiò, spostò vasi, biciclette, moke, sculture, tavole, cocci, stendini, mattina e pomeriggio, per giorni e giorni, invano.
«Clementina non c’è più, mi spiace».
«Non è possibile, pà, non può sparire così.»
«Allora cercala tu, visto che è colpa tua.»
«Hai guardato bene tutte le zolle?»
«Se qualche volta uscissi a dare una mano sapresti che non ci sono più zolle. È una trincea della Prima guerra mondiale.»
«Non può sparire così.»
«Caporetto. Kaputt.»
La scomparsa di Clementino acuì la consapevolezza della precarietà della vita: un giorno ci sei, il mese dopo ci sei, l’anno dopo ci sei, settantacinque anni dopo ci sei, ormai ti aspetti di esserci anche il giorno dopo, tutti si aspettano che ci sarai anche domani, domani come ieri, il mese scorso, gli anni passati: e invece Clementino non c’era: Giada si prefigurò i funerali dei suoi; Letizia pensò alla sorella in attesa dell’esito della biopsia alla lingua; Gianfranco s’immaginò vedovo, si chiuse a chiave in bagno, aprì il rubinetto, pianse.
Li consolò soltanto, in quei mesi, discutere se fosse colpa dei topi, dei corvi o dei gabbiani, dei teppistelli che di notte gridavano ubriachi cancellando i sogni a tutto il quartiere, dei vicini ai piani superiori che invidiavano da sempre il loro giardino pensile, di una gang di sequestratori di tartarughe che prima o poi avrebbe chiamato o spedito una lettera garantendo la liberazione di Clementino in cambio di un lauto riscatto che loro sicuramente, checché sproloquiasse Gianfranco sul «non fare il loro gioco», avrebbero pagato.
Quando a fine maggio Giada aprì la scarpiera sotto la scala metallica per cercare le adidas viola con cui andare a far jogging con l’amica che l’aveva convinta a ribellarsi alla cellulite promettendole, alla fine, uno spritz defaticante, e gridò «Ah!», e indietreggiò di due metri facendosi cascare le scarpe, e gridò «Mà!», e gridò «Pà!», e gridò «Cristosanto! Mamma! Papà!», e Letizia e Gianfranco giunsero trafelati e gridarono «Clemì!» «Clementina!», e ognuno lanciò sguardi di gioia sbigottita agli altri alla scarpiera al tartarugo cullato dall’adidas destra, tutti furono entusiasti e ci mancò poco che Gianfranco non abbracciasse Letizia e che Giada non abbracciasse entrambi, ma venne poi il momento delle ragioni, delle domande, dei come, e nessuno seppe immaginare spiegazioni plausibili sul letargo di Clementino in una scarpa viola al quarto ripiano del primo mobile progettato e realizzato in non pochi mesi da Gianfranco non appena andò in pensione: presto il mistero offuscò tutta l’allegria.
Se erano stati dei teppisti, perché se l’erano presa con la loro famiglia? Se era stato un vicino, che razza di vicini avevano? Se erano stati degli ospiti, un amico, un parente, a quali mostri avevano offerto bevande, pietanze, risate? Se era stato uno di loro, come aveva potuto non accorgersi che dentro la scarpa da mettere via c’era un essere vivente, piccolo, sì, però non così leggero?
Al di là di chi, quando, come e perché: chiunque fosse stato, di cos’altro sarebbe stato capace?
Non bastarono due anni a ottenere risposte. Due anni nei quali Letizia alle assemblee di condominio si oppose a qualsiasi proposta di chi vivesse sopra di loro, cioè tutti, e Gianfranco la svegliò almeno una volta al mese lamentandosi di aver rifatto lo stesso incubo, il proprio funerale con la sua salma distesa nella ciabatta di un gigante, e Giada li rallegrò e amareggiò andando a vivere con il fidanzato, e Alfredo sbirciò dalla siepe Clementino che inseguiva l’odiamato e forse testugginizzato supersantos.
Alla fine del suo settantasettesimo letargo, Clementino sparì di nuovo: a nulla valse setacciare ogni centimetro della scarpiera, prima, e del giardino pensile, poi.
Non c’era più: ciò poteva significare molte cose, ma Gianfranco e Giada scelsero di dare ragione a Letizia: Clemì s’era fatto angelo.
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