di Graziana Patanè
Copertina di Ivan Jakovlevič Bilibin – L’uccello di fuoco e il lupo grigio
Non avrebbe saputo dire quando era comparsa la nebbia. Aveva passato l’intera giornata chiuso dentro la sala test, uscendone soltanto durante la pausa pranzo per chiamare Viola, pochi minuti e pochi passi nel cortile del Polo Tecnologico, tra l’ufficio e il bar e le porte e le finestre delle altre aziende che si affacciavano su quel piccolo quadrato, avanti e indietro, per avvisarla di una riunione improvvisa fissata per le diciotto, sempre ammesso che cominciasse puntuale, e sapeva anche lei come andavano quelle riunioni, se faccio tardi cena pure, non aspettarmi. C’era il sole e una piccola farfalla era volata davanti a lui, veloce, come se danzasse una musica segreta, per mostrargli le ali azzurre.
Aveva alzato il bavero del cappotto per ripararsi dal freddo di febbraio e chiesto a Viola, nel frattempo, come stesse andando la giornata. «È lunedì», aveva risposto lei ed erano bastate quelle due parole per far immaginare a Roberto la sua mattinata e il suo umore. E subito dopo era rientrato in azienda, di nuovo nella sala test, ancora lui con la mano robotica consegnata dal corriere poche ore prima, rimandata indietro da un cliente. Aveva smesso di funzionare d’improvviso, così come nascono i dubbi o accadono molte morti, lasciando le dita di plastica e viti e cavi bloccate in un pugno e a lui toccava indagarne le cause, perché erano inconvenienti che non potevano accadere, dovevano essere affidabili, l’azienda e il prodotto, e i costi, la spedizione, il tuo lavoro, Roberto, che per oggi non ti potrai occupare d’altro e la riparazione, perdite che dobbiamo ridurre al minimo, vedi un po’ tu cosa devi fare, mi raccomando. Un «Ne riparliamo a fine giornata», aveva concluso il discorso del capo.
Roberto si era accorto subito degli elastici rotti, quei tendini spezzati che non consentivano alla mano di tornare ad aprirsi. Richiese più tempo trasferire la memoria degli ultimi cinquanta utilizzi sul computer, analizzarli, scoprire un sovraccarico in più occasioni, il cliente l’aveva adoperata per sollevare pesi che andavano oltre i cinquanta chili, limite massimo evidenziato anche nel manuale di istruzioni. Compilò il report da presentare alla riunione e chiese al capo di anticiparla, ma gli fu risposto che non era possibile, aveva altri impegni, che tornasse dopo, come era stabilito. Preferirei di no, preferirei parlarne ora, avrebbe voluto dire Roberto, ma non ne ebbe il coraggio e tornò nella sala test, anche se non c’era più nessun motivo per andare di nuovo in quella stanza, rassegnandosi al fatto che il capo non avesse tempo e a lui toccasse restare oltre l’orario di lavoro, perché nelle piccole aziende bisogna venirsi incontro e non si può mica pretendere che gli straordinari vengano retribuiti. Si sedette e non fece nulla se non restare fermo a guardare la finestra, ricoperta da una pellicola opaca.
Qualche mese dopo che l’azienda si era trasferita in quegli uffici a pianterreno erano comparsi un uomo e due aiutanti. Avevano preso le misure di tutte le finestre. «Torneranno per apporre il logo dell’azienda su alcuni vetri», aveva spiegato il capo a Roberto e ai suoi sette colleghi e Roberto era tornato al suo computer e al suo lavoro, certo che poco o nulla sarebbe cambiato. Ma quando l’uomo tornò, non applicò unicamente il simbolo dell’azienda, ma anche film adesivi, pellicole opache e lattiginose che appose su tutte le aperture che davano sull’esterno. «Privacy», disse il capo, come se quella parola, quel diritto acquisito, giustificasse la sottrazione che aveva imposto ai suoi dipendenti.
Attraverso la pellicola, Roberto intuì l’arrivo della sera. Gli tornarono in mente il sole di qualche ora prima, il freddo, la farfalla azzurra e una storia che chissà quando e da chi aveva sentito raccontare. Un padre vedovo con due figlie, due bambine curiose che facevano continue domande. Il genitore, però, incapace di rispondere a tutto, pensò di portarle da un vecchio saggio per affidarle a lui. E il saggio prese a dare tutte le risposte che le bambine cercavano.
«Ma ci sarà pure una domanda a cui non sarà in grado di rispondere!» si dissero un giorno le bambine. Stettero un po’ a pensarci, poi andarono su una collina. Quando tornarono, la minore teneva nascosta nel grembiulino una farfalla che ora Roberto ricordava essere blu e non azzurra, e chiesero al saggio se fosse viva o morta. «Se mi dirà che è viva, stringerò forte la mano e la ucciderò. Se mi dirà che è morta, la lascerò libera», ripeteva la piccola nella sua mente, certa, come l’altra sorella che qualunque risposta il saggio avesse dato sarebbe stata errata. Ma per quanto si sforzasse, Roberto, seduto a guardare il buio che arrivava, non riuscì a ricordare la risposta dell’uomo.
Quando uscì, dopo la riunione, lo sorprese la nebbia che dava alla notte un colore grigiastro, come un bicchiere di latte in cui fosse stato disciolto un pugno di cenere.
«Vuoi un passaggio?» gli chiese il capo. Non capiva quello strano bisogno di andare a piedi, soprattutto in una serata come quella, ma Roberto scosse la testa e il capo scomparve pochi passi più avanti.
Vide sul cellulare che erano le venti e quarantasette, poi cercò con le dita l’icona di Whatsapp e il primo nome, quello di Viola di fianco alla piccola foto che mostrava solo metà del suo viso. Osservò la linea che divideva il naso a metà, l’unico occhio che lui sapeva essere verde e i capelli castani, lisci, che finivano poco sopra la spalla coperta da un tessuto a fiori e le scrisse che stava tornando.
Trovò il cancello d’uscita chiuso, come sempre dopo le venti. Si avvicinò alla guardiola e bussò alla finestrella salutando Mauro. L’uomo seduto dietro una scrivania abbassò il cellulare, alzò gli occhi e Roberto vide uno sconosciuto muovere una mano a cercare un pulsante. «Chi è lei?» La domanda provenne da un citofono di fianco alla finestrella. Roberto disse il suo nome e quello dell’azienda e che per via di una riunione aveva fatto tardi, il suo capo doveva essere già passato in macchina, che gli aprisse il cancello, per favore.
«Non è passato nessuno».
Roberto si sentì osservato, come se d’improvviso fosse diventato un pesce o uno scarabeo, ma non c’erano pareti o teche, soltanto quel cancello che già si apriva e un vada a cui seguì il grazie di Roberto e ancora una domanda, Mauro è in ferie? Di nuovo quello sguardo che lo fece sentire diverso e un: «Non ne so niente».
Uscì, anche se quella nebbia, più fitta adesso, alterava i limiti delle cose, quasi a eliminare i confini fondendo le abitazioni con il marciapiede, le automobili parcheggiate lungo i bordi, gli alberi spogli nei giardini e lui stesso che s’affrettava in quella continuità umida.
Il telefono vibrò nella tasca del cappotto.
Hai fatto presto! lesse. Stava per rispondere a quell’ironia, quando comparve un nuovo messaggio. Mi sa che arrivi prima di me.
Da dove sarebbe dovuta arrivare Viola? La credeva già a casa. Si sforzò per recuperare il ricordo di una frase e di un impegno, ma non trovò nulla e restò in dubbio se quell’assenza fosse stata causata dalla sua distrazione o da quella di lei.
A tra poco, rispose, mentre riandava alla mattina, ma lei si era appena alzata quando lui stava già uscendo e a parte un buongiorno e un bacio non s’erano scambiati altro.
Svoltò nel viale delle Piagge che costeggiava l’Arno e muovendosi tra i platani e i lauri e i lecci, Viola si sfilava il maglione seduta sul bordo del letto e lo rimproverava con voce morbida di scherzi e di vino perché durante la cena era stato l’unico a non rispondere alla domanda di Livia. Rispondere non serviva a niente e Roberto seppe per abitudine, perché il marciapiede diventava più stretto, che alla sua destra, nascosta dalla nebbia, c’era la chiesa di San Michele con il suo campanile inclinato.
Mentre superava la biblioteca di fronte alla chiesa, Viola ribatteva che non era vero, lasciando il corpo nudo per un attimo, come se quella nudità attendesse un gesto da parte di lui che non era arrivato, perché era tardi in quel lunedì già presente sul comodino, creato dai numeri luminosi sulla sveglia, e il corpo di Viola era tornato a nascondersi dentro un pigiama.
La testa sul cuscino, la nebbia che ovattava anche lo sciabordio lento del fiume verso il mare, Roberto ascoltò Viola chiedergli se avrebbe mai potuto immaginare che Livia fosse stata una ballerina. Lei no, non riusciva a credere che un tempo quel corpo adesso pesante, anche se non grasso, un tempo che risaliva ad almeno trent’anni prima, all’adolescenza di Livia, Livia di cui non sapevano nulla, presentata da Renato quella stessa sera, fosse fasciato da tutù e gonnelline di tulle e che le fosse proposto di entrare in un’accademia. Ma la madre si era opposta. Un conto era un passatempo, un conto che la figlia così piccola, ancora inesperta del mondo e della vita, andasse a centinaia di chilometri di distanza, in una città sconosciuta a fare una vita che poi, che vita era? E Livia aveva cercato di convincere la madre, aveva pianto, fatto promesse e giuramenti, ma non aveva ottenuto nulla e aveva deciso di togliersi le scarpette per sempre.
Lo aveva raccontato a loro, tra un bicchiere di vino e un boccone del filetto di manzo che aveva ordinato e, mentre con la punta della forchetta cercava di infilzare una patata che sembrava fuggire nel piatto, aveva chiesto a tutti, a Renato, Viola e Roberto, se avessero un sogno irrealizzato, una strada che avrebbero potuto percorrere, qualcosa che sarebbero potuti essere, ma non erano stati, ma lo chiese senza tristezza, come avrebbe potuto chiedere che tempo facesse l’indomani, come se ormai, così sembrò a Roberto, fosse troppo tardi anche per i rimpianti.
Roberto superò il tronco mozzo e cavo di un platano tagliato qualche mese prima, al mattino un camion con un cestello elevatore, uomini indaffarati con cartelli e corde e già la sera quel ceppo, anni di vita circondati da trucioli, mentre Renato raccontava di un sogno comune e banale. Fu Renato stesso a usare quegli aggettivi, elencando schemi di attacco, dribbling e formazioni, un sogno a cui non aveva mai creduto veramente, un modo come un altro per stare in compagnia, anche se era bello da piccolo addormentarsi sollevando la Coppa del Mondo, realizzando ogni sera il gol decisivo che portava la squadra alla vittoria e ne aveva collezionate tante, per anni, almeno finché non si era invaghito di una sua compagna, al terzo liceo e ai Mondiali aveva sostituito altri desideri.
«Almeno non finisce con il solito cliché dell’infortunio al ginocchio» aveva detto Viola e Roberto sentì qualcosa di umido scivolargli lungo una guancia. Alzò lo sguardo sugli alberi spogli e vide le infinite gocce create dall’umidità che pendevano sopra la sua testa.
«Sono stato io il primo a dire che il mio sogno era comune e banale!» e mentre Viola ammetteva che era vero, fu soltanto Roberto ad ascoltare Livia dire che anche il suo sogno non era così originale, perché Viola e Renato si erano voltati verso il tavolo di fianco da cui arrivavano alcune risate e guardavano il ragazzo in piedi che alzava un calice. Roberto aveva osservato le mani di Livia che erano andate a nascondersi sotto il tavolo. Erano riapparse lentamente, con un gesto elegante e controllato, per sollevare un tovagliolo all’altezza della bocca, dividendo Livia in due e di lei, per qualche istante, erano rimasti soltanto gli occhi fissi su di lui, seduto di fronte.
«Non so a cosa brindano, ma brindiamo anche noi!» aveva detto Renato e poi aveva chiesto a Viola di parlare del suo sogno.
Sul viale comparvero dei fari. Il rumore di una macchina solitaria passò oltre, lasciando Roberto di nuovo con Viola che sarebbe voluta diventare un medico legale, suggestioni nate da un telefilm che guardava da ragazza quando non sapeva ancora nulla della morte perché l’aveva incontrata in qualche uccellino o gatto che aveva all’epoca, mai in un essere umano e si era anche fatta prestare un libro di anatomia da un’ostetrica, cugina del padre, e imparava nomi di ossa, muscoli, organi per prepararsi all’università. Ma il nonno si era ammalato e quando l’aveva visto per l’ultima volta, steso sul letto, su un lenzuolo bianco, l’idea di indagare all’interno di corpi freddi e inermi l’aveva disgustata, non avrebbe mai potuto farlo.
«E tu, Roberto?» e glielo aveva chiesto Livia, gli occhi di nuovo fissi su di lui che aveva scosso la testa perché non c’era niente da raccontare e avrebbe dovuto accettare il passaggio che gli aveva proposto il capo per evitare di stare in mezzo a quella nebbia continua e umida con Viola che si divertiva chiedendogli se anche il suo sogno fosse banale come quello di Renato, magari sarebbe voluto diventare un astronauta, altro grande classico negli anni in cui loro erano bambini, o forse pilota di Formula Uno e aveva anche lui, come Renato, i poster in camera di Senna e Schumacher? No, e davvero, non aveva niente da dire, perché ascoltando Viola e l’amico e le loro insistenti risate, Roberto aveva avuto l’impressione che non avessero capito nulla della domanda di Livia, perché non si trattava di ciò che sarebbero potuti essere, ma non erano stati, ma di ciò che sentivano di essere e da qualche parte, dentro di loro, erano ancora, nonostante tutto. Nonostante il professore di matematica che gli diceva che era portato per la sua materia ed era un peccato non sfruttare le sue capacità; nonostante suo padre che l’aveva lasciato libero di scegliere, ma gli aveva suggerito di scegliere bene, perché studiare insetti non aveva molti sbocchi e invece di ingegneri ne servivano sempre; nonostante sua madre che gli aveva consigliato di pensare alla sicurezza, al futuro, al lavoro; nonostante tutti quelli che tenevano tra le mani la farfalla, perché c’era sempre qualcuno che la teneva tra le mani a decidere della sua vita, come nella risposta del saggio che gli era tornata in mente mentre camminava perché adesso gli sembrava che la nebbia ricollegasse tutto in una continuità diversa e il vecchio, sorridendo, si rivolgeva alla bambina più piccola per dirle «Dipende da te, essa è nelle tue mani».
«Magari è sempre voluto essere ingegnere e si vergogna ad ammetterlo» aveva detto Renato, ma Livia, con un movimento del braccio, una danza di cui si accorse soltanto Roberto, aveva provato a dire basta, ma erano rimasti muti entrambi, aspettando che Renato e Viola tacessero da soli. Poi Viola lo aveva rimproverato di non sapersi divertire e Renato aveva suggerito di andare a casa, il lavoro attendeva tutti, l’indomani.
Guardò verso destra cercando di scorgere il marciapiede opposto e la stradina che doveva imboccare, ma la nebbia glieli nascose, quasi che quella serata fosse uno scherzo, un gioco a cui gli veniva chiesto di partecipare come un bambino per cui tutto fosse ancora possibile, anche giocare con quella continuità umida e lattiginosa che lo avvolgeva e mentre diceva a Viola, seduta sul letto, che era tardi per parlarne adesso, attraversò il viale per via della panchina comparsa al suo fianco e trovò, al posto della stradina, un viottolo breve, bordato da siepi basse. E prese a percorrerlo perché non gli sembrò assurdo che la stradina si fosse trasformata in un viottolo, anche lui si era sentito diverso, poco prima, di fronte allo sguardo del custode che non era Mauro, che era in ferie o che forse, semplicemente, aveva smesso di esistere quella sera, e si ritrovò davanti al portone di un condominio, il suo condominio perché le chiavi che tirò fuori dalla tasca combaciavano con la serratura. Fu dentro, fuori dalla nebbia, e prese a salire di corsa le scale perché, d’improvviso, comparve l’ombra di qualcosa che avrebbe dovuto afferrare. Un pensiero, appena.
L’appartamento era buio e silenzioso. Roberto accese la luce in salotto e restò in piedi di fronte alla libreria per scorrerne i titoli, chiedendosi dove fosse finito il libro che stava cercando. Lo trovò nascosto dietro le pagine ingiallite dei Ricordi di un entomologo. Gliel’aveva regalato uno zio del padre, trent’anni prima, anche se non era più sicuro che fossero così tanti, durante un’estate che avevano trascorso nella sua casa in Val d’Orcia, quando lui, Roberto, era circondato da ogni parte dalla parola perché. – Zio, perché quella vespa cattiva ha punto il ragno? E ora, dove se lo porta? E perché non lo mangia qua? Zio, ma perché le cicale fanno questo rumore così forte? Pensi che sono sorde? E le formiche dove vanno? Perché vivono sotto terra? – Lo zio era già vecchio e quella fu l’ultima estate trascorsa in quel luogo, poi la casa fu venduta, ma a Roberto rimase quel libro.
Lo tenne per un attimo tra le mani a osservare l’uomo che compariva in copertina, racchiuso all’interno di una cornice quadrata, lo sfondo giallo, il cappello nero, il profilo pieno di rughe, gli occhi rivolti verso un punto che andava al di là di Roberto, al di là di tutto, poi prese il volume che cercava, con cura rimise a posto il libro di Fabre e andò a sedersi sul divano, le spalle alla porta.
Trovò l’immagine che cercava.
«Polyommatus icarus», lesse ad alta voce e prese a ripetere quel nome, ascoltandosi, come un bambino che pronuncia la formula magica e assurda che gli permette di entrare o rimanere nel gioco.
Non la sentì arrivare, anche se ormai aveva smesso di ripetere quel nome. Si accorse di lei soltanto quando la sua mano si posò leggera sulla spalla, sopra il cappotto.
«E questo? Da dove salta fuori?» e chiese ancora, prima che Roberto potesse rispondere: «Esci prima dal dipartimento per continuare a lavorare a casa?» ma lo disse come Viola non lo avrebbe mai detto, senza rimprovero, come se da lui non potesse, o non volesse, aspettarsi niente di diverso.
«Cercavo questa» e indicò l’immagine della farfalla. «L’ho vista oggi».
Tacque, dandole il tempo di sedersi accanto a lui e poi si voltò. Lo fece lentamente, per paura, la paura di illudersi in quella speranza assurda, nata, come i dubbi o come sembra che accadano molte trasformazioni, d’improvviso, dalla presenza di un tocco e dall’assenza di un tono. Risalì dai piedi, nascosti dentro delle scarpe da ginnastica, ai polpacci nudi, al vestito che mostrava appena le gambe forti, alle braccia scoperte, fino al viso di Livia seduta là, su quel divano dov’era anche lui, al suo fianco, dentro il salotto, in casa loro.
«Mi era sembrata fuori tempo, oggi», disse, ma vide, dall’espressione di Livia, che lei non aveva capito le sue parole. «Vola tra aprile e settembre».
Livia lo guardò in silenzio, e Roberto si lasciò guardare temendo che lei ricomponesse quelle frasi per restituirlo a un ordine diverso ed ebbe paura quando la vide alzarsi abbandonando il suo fianco.
«L’unico fuori tempo sei tu che arrivi dall’inverno o da chissà dove con un cappotto a giugno», disse e Roberto la vide girare attorno al divano, dietro di lui, verso la porta e per un attimo pensò che non l’avesse detto, pensò di aver soltanto immaginato le sue parole, ma le aveva pronunciate, quelle parole che rendevano tutto vero, reale, avrebbe ascoltato volentieri il motivo per cui era vestito in quel modo, ma dopo la doccia e le aveva dette uscendo, mentre varcava la porta, diretta verso il bagno, come se tutto fosse normale e non ci fosse niente di cui aver paura, niente che riportasse Livia in quell’oggi discorde che lui sapeva di aver attraversato prima di raggiungerla.
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