Periplo #1 – Rua das Flores

di Marta Cai
Copertina di Silvia Penso

… ma nei suoi primi anni di esistenza pedonale sarebbe stato più appropriato il nome nua das flores (“nuda dei fiori”) per il rischio corso ogni notte di ritrovarsi la mattina senza azalee. Andiamo con ordine, seguiamo una narrazione lineare, movimento che talvolta mi annoia e però si presta alla descrizione di una strada. Strada che in realtà, e ciò disinnesca la bomba della noia, è stata progettata come una piazza verticale. Con ordine.

Rua das flores non è il suo nome ufficiale. La piazza verticale racchiusa da palazzi alcuni più verticali che orizzontali e da altri più orizzontali che verticali è depositata su mappe e cartine come Rua XV de Novembro; è inoltre Rua XV per gli intimi e minimalisticamente XV per chi vuole ostentare dinoccolata familiarità. Prima della proclamazione della Repubblica (15 novembre 1889) era Rua da Imperatriz (da Teresa Cristina di Borbone, in visita ufficiale alla città nel 1880); nome che subentrava all’allora trentennale, originario e come si vedrà destinale Rua das flores. Se questa fosse la mattina di un giorno in cui ho in programma di ospitare una festa per la sera, è qui che per filologia comprerei i fiori. Non ho nessuna festa in programma, ma ugualmente scendo dal biarticolato rosso della linea Santa Candida-Capão Raso alla fermata Estação Central dove Rua XV incrocia Rua Presidente Faria e smette di essere pedonale, perché la sbarazzina XV è pedonale per circa 650 metri dei suoi 3 chilometri abbondanti e se oggi non stupisce e sembra poca cosa, nel 1972 l’idea sembrò bizzarra. Con ordine.

Curitiba è una città che ama vantarsi dei suoi primati di capitale pulita, sicura, intelligente, creativa. I sostenitori approvano e anzi accelerano sul pedale dei superlativi; i detrattori ricordano che qualche bagno di realtà in più e qualche grammo di elitarismo in meno fornirebbero alla descrizione maggiore verità. Sia come sia, che la nostra XV abbia il titolo di prima isola pedonale del Sudamerica non sembra in discussione (i più esaltati dicono: “del mondo!”) e questo spiega l’altro suo nomignolo: Calçadão, “Marciapiedone”.

Sbrigato questo preambolo, posso correre verso Praça Osorio come se avessi un impegno importante e un impegno importante ce l’ho: percorrere il Calçadão in senso inverso rispetto alla fermata dell’autobus. Devo spiegarmi: sebbene mi trovi in Rua XV, la coscienza mi dice che non sono in Rua das flores. E io certe incongruenze non le sopporto, potenza dell’incontro originario, delle mie primissime settimane in questa città, quando eravamo sistemati alla bell’e meglio in un appartamento quasi in Praça Osorio e andavo nella libreria, per me all’inizio di Rua XV, per comprare i miei primissimi libri in portoghese, senza di fatto conoscere il portoghese, chiedere consigli e fare domande sulla letteratura brasiliana in generale e sugli scrittori curitibani in particolare, forte, anzi debolissima, di quattro nozioni raccattate nello stesso modo in cui eravamo sistemati nell’appartamento quasi in Praça Osorio, ossia alla bell’e meglio, senza di fatto conoscere il portoghese e con la comunicazione velata dalle mascherine pandemiche. Ogni volta ne uscivo stremata, prossima al pianto, spaventata e insieme esaltata dalla vertigine della mia ignoranza, perfino aggressiva nei confronti della terra vergine che sentivo spalancarsi in me e sbriciolava parti che ormai consideravo pietrificate e morte, e con questo variegato quadro sintomatico mi spingevo qualche metro più lontano dall’appartamento in cui, tengo a ricordare, eravamo veramente sistemati alla bell’e meglio. Da una parte il caos, dall’altra l’ignoto. Perciò, come ho imparato a leggere e a scrivere da sinistra a destra, così ho conosciuto questa città percorrendo Rua XV da Praça Osorio a Praça Santos Andrade. “La gloria di una persona è avere una città”, scriveva Clarice Lispector in uno dei suoi romanzi e con questo movimento io ho “avuto” una città; la conoscenza è movimento, quale che sia la sua direzione, e se vado al contrario forse faccio avanguardia, ma per fare avanguardia ci vuole molta realtà e in ogni caso oggi io voglio solo passeggiare e questa città probabilmente non ce l’ho e mai l’avrò.

Ho una fretta terribile, sono in ritardo, sono in ritardo per l’appuntamento con l’inizio! Il commesso del negozio urban-skate-funk-nonsocos’altro-style, dove già un figlio mi ha portata a spendere soldi, mi chiama, mi dice: Amica, finisci la sigaretta e vieni a dare un’occhiata. Adesso vado di fretta, rispondo all’amico, forse dopo. La bugia è l’anima del commercio e si presenta nei due sensi di marcia della domanda e dell’offerta; all’interno di questo trasparentissimo scambio di balle, gli attestati di amicizia sono coerenti: siamo nella stessa recita, abbiamo un legame.

Dal bianco del petit-pavé di marmo emergono, come da tradizione lusitana, gruppi di tessere nere che leggiamo come forme e significati, in questo caso rose di pinhões, fiori di semi dell’Araucaria, conifera simbolo del Paranà da cui deriva il nome Curitiba.

Rua das Flores – Foto di Marta Cai

Risalendo la mia corrente immaginaria, ripercorro le vicende che hanno innescato la metamorfosi di un tratto di Rua XV in Marciapiedone. Era il 1972, anzi era il 1965 e l’Università Federale di Curitiba licenziava i suoi primi laureati in Architettura sotto la guida di giovani docenti di San Paolo e Rio de Janeiro. Protagonista dei temi discussi dentro e fuori le aule da questo gruppo di praticamente coetanei era la trasformazione che le città brasiliane stavano subendo sotto la pressione delle migrazioni interne e dell’industria automobilistica, ormai a portata di garage della classe media. Il trasbordo di questo gruppo di architetti (alcuni dei quali già ingegneri) dalla teoria universitaria alla pratica dell’Istituto de Pesquisa e Planejamento Urbano de Curitiba (IPPUC) fu un movimento naturale. Nel frattempo, già da un anno il Brasile sopportava il regime militare e ai vertici dei municipi erano collocati sindaci nominati direttamente dai Governatori dei singoli Stati. Nel 1971, per la capitale del “suo” Paraná, Haroldo Leon Peres pensò a uno dei membri più vivaci e carismatici di questo gruppo di architetti votati all’urbanismo. Si dice, ma io non saprei confermare, che la scelta del Governatore fosse caduta su Jaime Lerner (e di conseguenza sugli ex compagni di corso che lo avrebbero affiancato nell’impresa) per le presunte caratteristiche di docilità e neutralità politica solitamente attribuite a qualsiasi persona la cui formazione sia valutata come puramente tecnica. In altre parole, una squadra di tecnici avrebbe tradotto in cemento e asfalto il grandioso immaginario che il regime assegnava alle capitali del “nuovo” Brasile e reso la viabilità cittadina adeguata al flusso di auto di un Paese che volesse presentarsi come moderno.

Errore, o grazia: a guidare le spericolate visioni o più propriamente gli immaginifici “scenari” dei membri dell’IPPUC (come “scenari” presentavano infatti i loro progetti) era l’antipatia verso l’automobile e il televisore (nel 1965 TV Globo lanciava le sue prime trasmissioni), correlativi oggettivi di questo nuovo Brasile. Secondo Lerner e i suoi, concepire il cittadino come una persona la cui vita si riduca a compiere, in auto e quotidianamente, il tragitto da casa al lavoro era inumano: “La città deve essere un avvenimento, una serie di avvenimenti che annullino l’attrazione della televisione e di altri elementi che impediscono una maggiore partecipazione dell’uomo [sic] alla città. La gente è l’attrazione della città. L’uomo è l’attore e lo spettatore di questo spettacolo quotidiano che è la città”1.

Rua das Flores – Foto di Marta Cai

Per farla breve, il 19 maggio del 1972, un venerdì, i metri che sto percorrendo di fretta – e la fretta per Lerner era amica della perfezione – vengono chiusi al traffico, pavimentati e punteggiati di aiuole e fioriere, approfittando del fine settimana per evitare l’ira di commercianti e automobilisti e relative azioni di disturbo. Nel corso di una dittatura militare, Lerner e i suoi mettono a punto un golpe pedonale.

Il fine settimana seguente, i membri di un club di collezionisti d’auto (ovvero di persone per cui l’auto non ha soltanto il valore d’uso di chi si sposta per esigenze quotidiane) si organizzano per sfilare nella via come se niente fosse accaduto, perché per loro (come per tanti altri) nulla doveva accadere (la città non è fatta per gli avvenimenti, Santocielo!); trovano però bambini accovacciati che disegnano su fogli e con matite forniti dal Comune: il golpe è infantile.

Tre anni dopo, nel corso di una riunione, il gruppo è sull’orlo dell’abisso democratico, della resa dei conti con i suoi stessi principi: “Basta, non sostituiremo più le piante. Da tre anni i cittadini non vogliono i fiori in Rua das flores? E non avranno più fiori in Rua das flores”; “Potremmo mettere le guardie a sorvegliare”, deve aver proposto timidamente una voce, “E a punire?”, deve aver chiesto un altro senza economia di sarcasmo. A questi botta e risposta immaginari ma verosimili, stando ai resoconti delle persone coinvolte, devono certamente essere seguiti secondi di pesantissimo silenzio, interrotti da una brillante deviazione dell’analisi, dal fulmine della domanda pertinente: “Perché i cittadini rubano i fiori?”, “Per portarseli a casa”, “Quindi non per odio verso i fiori?”, “No”, “Allora è solo questione di tempo e di fiducia”, “Giusto”. Quanto alle guardie e alla sorveglianza: “Não se pode punir quem gosta”2.

Sono arrivata all’inizio, a quella che considero la sorgente del Marciapiedone, il quasi obelisco con l’orologio che nei racconti di Dalton Trevisan “segna sempre le sei”; in questo momento indica lo spazio di solito occupato dal pranzo, come non hanno mancato di ricordarmi numerosi uomini sandwich con l’elenco urlato delle virtù dei convenientissimi buffet por quilo che pubblicizzano. È sabato mattina, questo lato di Praça Osorio è occupato da strutture mobili con cui bambini e adulti giocano a scacchi, a ping-pong o utilizzano per disegnare, chiacchierare.

Per un certo periodo ho percorso un tratto di questa via pedonale in giorni feriali e prima dell’apertura dei negozi, sorprendendola nuda delle sue funzioni di passeggiata e intrattenimento urbano, trovandola abitata dalla popolazione che lì passa le sue giornate a elemosinare o a rubacchiare e sempre lì o nei dintorni, che pure sono interdetti alle auto, trascorre le sue notti, e all’ora in cui passavo io si sveglia con lo zelo placido di chi ha una precisa routine da seguire rispetto alle cose da sistemare, riordinare, raccogliere, infilare in sacchi neri e pertugi vari. Ricordo che qualcuno si truccava, altri facevano i bisogni, pieni di bisogni come erano e sono.

E os mortos quantos mortos/ uma Rua 15 inteirinha de mortos / a multidão das seis da tarde na Praça Tiradentes só de mortos3.

Dalton Trevisan, Curitiba Revisitada, in Em busca de Curitiba perdida, ed. Record, Rio de Janeiro-Sãu Paolo, 1999

Rua das Flores – Foto di Marta Cai

Dopo un mezzo giro su me stessa, posso finalmente percorrere Rua XV nella direzione del racconto che ho promesso di fare. Alla mia destra, l’Edifício Moreira Garcez con la sua brutale e verticale facciata in cemento ricorda a chi l’avesse dimenticato che il carattere curitibano è forgiato nell’austerità. “Questo palazzo è la dimostrazione che Curitiba è Gotham City”, mi disse una volta un amico che ora, direi con coerenza, vive a Torino. Con altrettanta coerenza io mi attardo in questo spazio, per l’esattezza uno slargo, una sospensione, un intermezzo cristallizzato e promiscuo che non è più Praça Osorio e non è ancora Rua XV e si chiama Avenida (ma è cortissima) Luis Xavier; poco più di una curva, percorribile dalle auto, con il Marciapiedone che la lambisce protetto della sua confortevole ampiezza. Questo spazio è noto come Boca Maldita e per me è puro Novecento. Novecentescamente avanzo e lancio una rapida, rapidissima, pudica, pudicissima, occhiata alla mia sinistra dove si agglomerano i rappresentanti, invariabilmente uomini, invariabilmente non giovani, invariabilmente bianchi, della Confraternita che deve il suo nome a quest’area o da cui quest’area, suscettibile di alterazioni secondo l’estro non avendo confini ufficiali, ha preso il nome. Dal 1957 i Cavalheiros da Boca Maldita si riuniscono qui per discutere di politica, attualità, di varie e soprattutto di eventuali. Naturalmente, per facilitare il ricambio generazionale, di tanto in tanto sono nominati nuovi cavalieri o forse non è nemmeno necessaria un’investitura per stare lì e dire la propria, purché si sia uomini, bianchi e non giovani. Prima di conoscerne la storia e l’ufficialità, li avevo soprannominati i “sindaci in pectore”, perché è impossibile non notarne la flemma nei movimenti e insieme la concitazione delle chiacchiere. Hanno a loro disposizione diverse panchine, due bar, tavolini, ombra, sole e dalle due alle tre poltrone con relativi lustrascarpe. Qui è dove, secondo lo scrittore Cristovão Tezza, i curitibani hanno ufficializzato la loro attività preferita: l’autofagia, il mangiarsi, il criticare ferocemente il mondo e quindi se stessi in quanto parte del mondo.

Io arrivo dalla provincia di Cuneo e posso dire che in questa città talvolta la gioia di vivere ho incontrato (una gioia a dire il vero smaniosa, nervosa più che allegra), ma capisco quanto dice Tezza e so qual è la fama di Curitiba: pulita, sì; sicura, abbastanza; caratterizzata da indici di sviluppo bla bla, ok; e conosco le caratteristiche attribuite ai curitibani: freddi, chiusi, conservatori. E chi sono i curitibani? È ancora Tezza a tentare un riassunto: “Per definirlo con un’immagine, il curitibano sarebbe una specie di tedesco protestante urbano con un’anima rurale, cattolica e slava”. Questo essere proteiforme fa sì che Curitiba sia, sempre secondo Tezza, irrimediabilmente una città di stranieri (dopo i tedeschi, i polacchi e gli ucraini ad abitarla arrivarono italiani, giapponesi e brasiliani di altri Stati), ancora incerti se sentirsi a casa oppure no4 e che per quel che ho visto, traslocano come ossessi da un appartamento a un altro, da un quartiere all’altro.

Rua das Flores – Foto di Marta Cai

Sempre nella Boca Maldita decine di migliaia di curitibani si riunirono nel 1984 per chiedere l’elezione diretta del Presidente e ancora oggi è in questi metri che si svolgono le manifestazioni e i comizi più imponenti, gli ultimi quelli di Lula e Bolsonaro durante la campagna del 2022.

Poco dopo lo spazio della Boca Maldita, come (altro) souvenir di una Curitiba che non c’è più troviamo il Bondinho, il vagone di un antico tram elettrico, ora minuscola biblioteca, perlopiù infantile.

Sul lato senza finestre del palazzo all’angolo con Avenida Marechal Floriano Peixoto spicca un altro motivo per cui mi piace percorrere Rua XV cominciando da Praça Osorio, e cioè la visione frontale del murale di Poty Lazzarotto realizzato nel 1993 per i trecento anni di fondazione della città. Con un incrocio cronologico che ogni volta mi diverte e commuove, ritrae in un colpo solo una doppia verticalità, spaziale e temporale: la costruzione della Cattedrale nel 1893 e il dirigibile Zeppelin Hindenburg che sorvolò la città nel 1936, un anno prima di esplodere durante le operazioni di attracco a Lakehurst. Il muratore di Poty, forse di origini italiane come lui, stringe tra le mani un bicchiere di vino durante una pausa pranzo aerea e placidamente contemplativa, indifferente o semplicemente ignaro rispetto alla bizzarra apparizione del futuro.

Rua das Flores – Foto di Marta Cai

Nel mese di febbraio sfilano in Rua XV i bloquinhos di un Carnevale che paragonato al resto del Brasile risulta tiepido, straniero e innestato, paragonato a certe mestizie della mia infanzia e adolescenza è invece il Citerone su cui mi ritrovo con le amiche. Nel corso di tutto l’anno è facile imbattersi in comizi di dimensioni ridotte rispetto a quelli della Boca e più o meno improvvisati, più o meno istituzionali: non mancano pastori apocalittici, né stralunate arringhe da parte degli inquilini del Marciapiedone. All’angolo con Rua Monsenhor Celso, via che porta alla Cattedrale di Praça Tiradentes, di solito si trovano il PT e associazioni affiliate. Oggi a parlare sono i rappresentanti di un’organizzazione con un nome struggente (Filhos Roubados, Mães Dizimadas) che denuncia gli abusi e le violenze delle forze dell’ordine. Ascolto con attenzione e prendo il volantino.

Attraversata Rua Celso, trovo alla mia sinistra il palazzo neogotico dell’italiano Ernesto Guaita e la tradizionalissima Confeitaria das Famílias, fondata nel 1945 dallo spagnolo Jesus Alvarez Terzado. Tra le lamentele per la chiusura di Rua XV una delle più frequenti era la sopraggiunta impossibilità a parcheggiare davanti alla pasticceria, famosa per la torta Martha Rocha, creata per omaggiare l’omonima concorrente baiana (di madre paranaense) favoritissima al titolo di Miss Universo del 1954, assegnato ingiustamente ma non del tutto inspiegabilmente alla statunitense Miriam Stevenson. Il dolce consola.

Proseguo la passeggiata incerta se comprare una pianta a uno dei tanti chioschi di fiori. Guardo le vetrine cercando di non farmi vedere dalle commesse; dovrei declinare i loro inviti all’amicizia e mi dispiace. Rua XV è la strada dello shopping popolare, delle catene economiche, dei negozi multimarca dove non si trovano griffe a meno che non siano contraffatte. Non si troveranno neppure boutique-laboratorio di design alternativo-ecochic et similia. La pubblicità degli esercizi è urlata: un signore invita noi signore a conoscere la moda evangelica, che è elegante, economica, di buon gusto (non conosce l’espressione modest fashion impiegata nel marketing più smaliziato). Un negozio di jeans da donna ha nel nome la parola bumbum. La pianta decido di comprarla un’altra volta, mentre il mio bumbum piemontese, rurale, calvinista, cattolico, straniero, si presta ad altre vestibilità meno prorompenti: per oggi non parteciperò allo shopping.

Senza sacchetti, mi ripresento all’incrocio con Rua Presidente Faria, dove prenderò l’autobus alla fermata tra il neoclassico ma anche eclettico palazzo dell’Università e quello art déco delle Poste e tornerò a casa. Prima di attraversare, lancio un occhiolino al murale che ritrae Paulo Leminski, scomparso nel 1989 dopo una vita breve, intensa, poliglotta, baffuta, concreta, tropicalista, quasi interamente curitibana e che con grande ragione si è chiesto, tra parentesi: “(quante curitibe contiene una sola Curitiba?)”5 Almeno XV, gli rispondo.


Periplo è una rubrica curata da Silvia Penso.
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  1. Lerner, J., A cidade: cénario do encontro, Jaime Lerner Planejamento Urbano, Curitiba 1977; cit. in Pougy, G., Curitiba: Urbanismo Essencial, ed. Insight, Curitiba 2021 [TdA]. ↩︎
  2. Per non indebolirne la gioiosa incisività e contando sulla sua trasparenza, scelgo di non tradurre la frase pronunciata da Lubomir Ficinski in un’intervista al giornale “Estado de São Paulo” del 15 gennaio 1978 e riportata da Pougy, G. 2021. ↩︎
  3. “E i morti quanti morti / una Via 15 intera di morti / la moltitudine delle sei del pomeriggio in Piazza Tiradentes solo di morti”, [TdA]. ↩︎
  4. Cristovão Tezza, Um olhar de Curitiba, http://www.cristovaotezza.com.br/textos/palestras/p_olharcuritiba.htm [TdA]. ↩︎
  5. (quantas curitibas cabem numa só Curitiba?) è il primo verso della poesia “imprecisa premissa” del 1987 [TdA]. ↩︎

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