di Nicole Trevisan
Copertina di Voland
Saltburn l’abbiamo visto (amato, criticato) tutti. Sono memorabili certe scene più o meno conturbanti nel sottostante dualismo oppositivo tra i due protagonisti: Oliver il povero, l’emarginato arrivista, e Felix, lo scintillante e bellissimo ragazzo di buona famiglia.
Ne “La scrittrice nel buio” (Voland, 2024), troviamo due personaggi, Marco e Federico, molto simili per caratterizzazione, ma se Saltburn ha puntato sull’estetica del male e dell’ambizione, questo libro preferisce indagine e un percorso di progressivo disvelamento delle ragioni intime dei protagonisti, con esiti più raffinati.
La vicenda narrata nel romanzo è imperniata attorno a una ricerca accademica, quella di cui viene incaricato Federico (possiamo immaginarlo come Jacob Elordi? Assolutamente sì) relativamente al carteggio tra Vittorio Ferretti e Pier Luigi Carraro, scrittori attivi nel vivace ambiente letterario romano degli anni ‘70. Dal loro scambio di lettere i due studiosi ricostruiscono il legame di Ferretti con un’inquietante scrittrice, Maria Zanca. Marco e Federico, rivali e a tratti alleati, cercano di scoprire se la relazione con questa donna sia legata all’improvvisa scomparsa di Ferretti, rimasta al tempo irrisolta. In un crescendo di tensione si rivelano progressivamente dettagli che alludono a una componente sovrannaturale e oscura dell’accaduto, un’ombra che si allungherà fino al presente, raggiungendo le vite dei due protagonisti.
Con una coerenza quasi geometrica di proporzioni e rapporti di potere Malvestio costruisce coppie di personaggi che diventano terne, con al centro, vertice apicale, la figura di Maria Zanca – un’entità femminile potentissima che si determina attraverso la sua sola presenza, sulla scena o nei pensieri degli altri, dominando luoghi reali e onirici facendo a malapena uso delle le parole, scelte con cura per risuonare nella mente dei personaggi e del lettore. Ai Carraro-Ferretti degli anni ‘70 si sostituiscono Marco e Federico di oggi: il primo è nato in provincia e desidera scalzare la sua condizione di partenza per acquisire un prestigio che immagina lontano dalla modesta casa di famiglia; l’altro è brillante, amabile, con ampie disponibilità economiche e nessuna apparente preoccupazione. Inevitabile il tentativo dell’uno di predare l’altro, per rivalsa o per abitudine alla prevaricazione, talmente noncurante da apparire innocente a chi non la subisce, persino ovvia. Dapprima compagni di corso, poi colleghi di dottorato e infine rivali, il loro rapporto fa emergere, nettissima, l’iniquità del sistema universitario e la sua bassezza, rappresentata con un distacco che la fa apparire persino ironica e talmente prevedibile nei suoi vizi da essere familiare. Si ritrova la fame di chi arriva dalla periferia e i limiti a cui costringe, accrescendo la ferocia, sempre composta e incravattata, di Marco. È sua la voce narrante di questo romanzo, gestita garantendo l’opportuna cattiva messa a fuoco del suo punto di vista: nei passaggi in cui appaiono i suoi genitori il giudizio è spietato, quando affronta l’ambiente accademico le sue impressioni si calano in un rassegnato patetismo e quando segue Federico si fa ancora più assorto e valutativo.
A dominare è la cronaca asciutta di una ricerca accademica (ricorda “Possessione” di A. Byatt – tanto che l’autore-narratore stesso lo fa presente nel testo), ma nel complesso la scrittura che anima il romanzo è minimale e attenta, prendendo respiri descrittivi solo in certi punti, scelti con cura, e rimanendo sempre fedele al realismo della voce narrante. L’atmosfera passa da quella verniciata e polverosa degli studi universitari a quella umida e vegetale dei boschi; interessante notare che più aumenta la tensione e certi dettagli rispondono sempre meno alla logica, più luoghi e personaggi vengono rappresentati in stati di crescente disordine o abbandono: ogni schema viene distrutto, la razionalità viene annientata, il caos della mente è quello dell’universo e niente viene risparmiato – che “il diavolo è nei dettagli” l’autore lo sa benissimo e gliene siamo grati.
Del resto, questo è un romanzo gotico, con componenti dark academia (tornano alla memoria i pomeriggi di studio di Henry e Richard in “Dio di Illusioni” di Tartt) ed echi di Henry James. Ci si potrebbe chiedere la necessità di un romanzo gotico nel 2024. Ma “necessità” è un sostantivo tanto usato quanto vilipeso nelle recensioni e a noi piace scherzare. Piuttosto, scegliamo qualcosa di più opportuno. “La scrittrice nel buio” ci è piaciuto perché, fedele ai suoi progenitori, è un libro che abbraccia e trascina nel mistero, che lascia scoperte ferite e spinge a guardare dentro al riflesso di una crudeltà comune, così nota da poterla ritrovare allo specchio. A descriverlo non basta un sostantivo di uso comune. È una storia di uomini intorno a una donna (come l’esordio stesso di Malvestio, “Annette”, uscito per Wojtek nel 2021) e al suo potere. Chi leggerà, potrà scegliere se sia o meno necessario – a noi poco importa. L’abbiamo divorato, ci siamo fatti divorare e abbiamo voglia di rifarlo.