Testo di Lorenzo Zerbola
Copertina di National Agricultural Library
Sono stanca e fa un freddo cane. Ed è chiaro che sarebbe molto meglio tornare indietro, tornare a casa. Ma la Giusi sclera ogni volta che provo a dirglielo. È vietato lamentarsi. E anche se non vuole ammetterlo, l’ho capito benissimo che ci siamo perse.
Sono almeno due ore, infatti, che con le calze rotte, disintegrate, e i tacchi tenuti sulle spalle con due dita, camminiamo su sta stradina inverosimile, una specie di sentiero incastrato tra la tangenziale a otto corsie e le rotaie dell’alta velocità. Dieci chilometri fa, un cartello ci ha indicato la via verso un autogrill, un’oasi nel bel mezzo di questo schifo di deserto padano, la nostra unica speranza di trovare un passaggio, delle sigarette e magari anche un cesso. Magari.
Quindi camminiamo, camminiamo e ancora camminiamo. Diocane. La Bibi però a un certo punto pesta per sbaglio gli occhiali da sole che le erano appena caduti. E resta lì, ferma a guardarli, senza dire niente. Capisco subito quel che sta per accadere ma non faccio in tempo ad avvicinarmi che scoppia a piangere disperatamente. Poi crolla, accasciandosi su se stessa, dicendo che lei da lì non si muove più, che ha male qui e ha male là, ed è uno schifo di serata, la peggiore della sua vita. E ci odia tantissimo per questo.
Urlo dietro alla Giusi, che da ore cammina sola, distanziata da noi, verso sto cazzo d’autogrill che secondo me manco esiste, dicendole di fermarsi. Finalmente si gira. E solo dopo qualche secondo si decide a tornare indietro. Per un momento mi è sembrato che anche al buio e da lontano sapesse individuare la traiettoria giusta per guardarmi dritto negli occhi.
Scavalchiamo la recinzione della tangenziale in un punto in cui è semidistrutta, quasi a terra, e finalmente appoggiamo i culi sul guardrail di una piazzola di sosta, intanto che la Bibi va a pisciare nel parchetto. Io e la Giusi restiamo in silenzio. Guardiamo una vecchia pubblicità su un cartellone gigantesco in cui una famiglia sorridente si gode un picnic ai lati della strada – la moglie è vuota fino al midollo e il bambino sorride solo perché ha un coltello puntato alla schiena dal padre che finge d’abbracciarlo.
Faccio alla Giusi un gesto ma lei, dando uno sguardo alla sigaretta, mi fa che quella era l’ultima. Poi si mette a posto i capelli, dimenticandosi che ormai ce li ha cortissimi perché la settimana scorsa, accendendosi una sigaretta coi fornelli della cucina, hanno preso fuoco – ma io lo so che non è vero, se li è bruciati lei apposta perché non le piacevano più di quel colore. Poi, senza dirmi niente, mi porge gli ultimi due tiri.
«Ti fa ancora male?» le chiedo.
Si gira dall’altra parte a guardare il cielo completamente nero e, lontano, il bagliore di Megamilano. Si pulisce il sangue dal viso con la manica della giacchetta e prende il cellulare per l’ennesima vota per vedere se qui prende. Alla luce blu dello schermo noto che le si è gonfiato un po’ anche l’occhio destro e le si sono seccate delle lacrime nere agli angoli che, con un po’ di saliva, riuscirei a lavarle via. Ma siamo incazzate, quindi no, giammai.
Passano due macchine con il volume dello stereo a palla. Alzo il pollice istintivamente, ma quelle passano indifferenti, non si fermano, e poi comunque erano già piene. La Giusi fa in tempo solo a guardarle sfrecciare via. Poi annusa un po’ l’aria e dice che è un buon segno, che la strada è quella giusta allora.
Manco avesse detto che l’importante non è la meta ma il viaggio, a questo punto non ce la faccio più, e sto per dirle qualcosa quando riappare all’improvviso la Bibi, tutta infangata e graffiata, che è caduta mentre pisciava e s’è rovinata la maglietta.
«La mia preferita» dice piagnucolando.
Quindi si sveste e se la guarda con un’aria triste che vien voglia di comprarle un altro gelato ancora più grande.
«Secondo voi ci sta se mi cambio e mi metto il costume già ora?»
«Dipende Bibi, dipende se…» dico, e subito la Giusi abbocca.
«Te l’ho già detto che la festa c’è, non ricominciare».
E così ridiventa tutto il solito mucchio di frasi dette una sopra l’altra, che non si capisce più niente. La Bibi prova a riappacificarci, dicendoci che non indovineremo mai il suo travestimento per la festa, ma inutilmente. Ci stiamo quasi per mettere le mani addosso quando a momenti ci viene un infarto per il suono di un clacson assordante e gli abbaglianti di un tir puntati contro.
Dal buio appare un camionista – Mirko, dice la targa illuminata a led – nelle vesti di un angelo grasso e con il volto distrutto dalla stanchezza, un cavaliere azzurro con i capelli unti e un cappellino liso al posto dell’elmo, un re Artù dalle mani pelose e con un vecchio tatuaggio sbiadito sul braccio, che ci chiede se abbiamo bisogno di aiuto, che ci dà un passaggio. Ci guardiamo un secondo, non ci possiamo credere, e la Bibi a momenti gli salta in braccio per farsi portare lontano come nel finale d’una banalissima fiaba deprimente.
All’autogrill compriamo delle lattine di caffè, un tubo di pringles lungo un metro e mezzo, e poi sì, le sigarette, naturalmente – anche se la cassiera ci guarda storto, ma non si osa a chiedere la carta d’identità, che sennò piantiamo un gran casino. Ah, e anche una maglietta nuova per la Bibi con stampata sopra la scritta I love Megamilano. Poi ci facciamo due giri di cicchetti di vodka alla pesca e la Giusi un altro da sola che io e la Bibi siamo già nere, ci basta pochissimo.
Ci scaraventiamo quindi tra i mille scaffali di roba assurda, facendo crollare peluche, pacchi sproporzionati di patatine e souvenir vari. E giuro che se la Giusi mi fa ridere ancora una volta me la faccio addosso, mica per finta.
Poi, non appena ci sediamo a un tavolino, m’addormento di colpo, che sono stravolta. Faccio un sogno in cui devo andare in bagno. Chiedo al tipo dell’autogrill dov’è, che son due ore che lo sto cercando. Quello mi fa d’uscire, andare a sinistra, prima porta rossa sulla destra, scendere le scale e utilizzare la torcia del cellulare che la luce è rotta. Poi devo attraversare un corridoio lunghissimo pieno di ritratti vuoti e fare attenzione soprattutto attenzione al cane, anche se legato. Non devo assolutamente guardarlo negli occhi.
«Mi raccomando» dice, «mai. Negli. Occhi.» mostrandomi il suo polso fasciato.
Arrivo in bagno, che è pulitissimo, tanto che mi siedo tranquilla, ma sento che la mia piscia è strana. La tocco ed è densa, come se fosse crema.
A questo punto mi sveglio per le altre due che stanno facendo un casino tremendo. M’accorgo che mi stanno fotografando con il cellulare, ché mi sono addormentata in una posa incredibile, e ora mi minacciano di pubblicarle ovunque per sputtanarmi. Ma io non mi sento bene per niente, c’ho qualcosa, un trambusto in pancia che non va, degli aghi che vanno dappertutto. Mi metto la mano dentro i pantaloncini e quando la tiro fuori l’annuso. È sangue, ma ha un odore strano.
La Bibi, che è quella più grande – appena qualche mese in realtà – m’accompagna in bagno, che sa già come funziona. E poi dopo quel sogno m’è rimasta comunque una caga tremenda d’andarci da sola. La Giusi, intanto, ci aspetta fuori nel parcheggio, davanti a quella mappa gigantesca e super-stilizzata, per capire dove siamo.
Quando torniamo ci fa che è tutto a posto, ha le idee chiare adesso.
«E, non ci crederemo, ma ho trovato anche un passaggio» dice.
Il tipo che ci ha caricate è un cazzo di pervertito, coi pochi capelli che ha tutti appiccicati sulla fronte, e gli occhiali rotti, pendenti da un lato. Non appena saliamo in auto mette a posto lo specchietto per guardare cosa c’è tra le gambe della Bibi seduta dietro, vicino a me. La Giusi manco ci fa caso, ci parla insieme tranquillamente e gli chiede se può fumare dentro. Quello fa una battuta stupida in modo stupido su che cos’è che vorrebbe fumare dentro, e la Giusi, non capisco perché, si mette a ridere. Forse è ancora completamente ubriaca. Io sto a braccia conserte con il muso lungo e penso al mio corpo morto, nudo e gettato in mezzo a un prato. La Bibi, poveretta, sarà sicuramente la prima. Io e la Giusi ce la giochiamo invece, ma con sta cosa che mi son appena arrivate per la prima volta mi lascerà stare forse – o lo eccita ancora di più, invece.
La Giusi nota il mio malumore – lo sente sempre, anche quando siamo lontane – e mi scrive un messaggio chiedendomi «che cosa chai», tutto attaccato. Le rispondo che il tipo non mi piace per niente e sono preoccupata perché sembra un pervertito maniaco assassino. Mi scrive di smetterla di fare l’imparanoiata, è solo uno sfigato. E guardandomi nello specchietto esterno mi sorride. Mi passa la sigaretta che non è una sigaretta, e dopo mi sento meglio, più tranquilla e stupidamente sorridente.
«Dove siete dirette quindi?» ci chiede il tipo.
La Giusi glielo spiega – provo ad ascoltare ma non ci capisco niente di sti posti di Megamilano – e quello annuisce.
Pensavo si fossero già scambiati questo genere d’informazioni quando si sono incontrati all’autogrill. Istintivamente controllo se le portiere sono bloccate. Immagino il momento in cui cambierà direzione all’improvviso e la Giusi gli urlerà addosso, dicendogli: «dove cazzo vai». E una signora, domattina, passeggiando con il cane, si metterà a urlare trovando il mio corpo fatto a pezzi da qualche parte.
Metto una mano sulla gonna della Bibi per coprirgliela un po’ e lei mi sorride, mi prende la mano e me la tiene, pensando volessi un’altra carezza.
«Va meglio?» mi chiede.
Alzo lo sguardo e incrocio quello del pervertito nello specchietto. Con un tono viscido, ci fa se stiamo insieme, che se ci baciamo a lui comunque non dà fastidio, anzi.
Lo guardo e faccio per dirgli qualcosa, ma la Bibi, che è tutta sballata, si mette a toccarmi per scherzo, non capisce la situazione. Il coglione si agita e prende una mano alla Giusi, mettendosela lì sopra. Lei non dice niente, guarda dall’altra parte, fuori dal finestrino, e continua a fumare.
«Accosta» gli fa poco dopo.
Quello ha gli occhi fuori dalle orbite, la bava che gli cola dalla bocca e sembra un pesce da quanto suda.
«Esci, dai, andiamo fuori» fa la Giusi.
Il maniaco non riesce a togliersi la cintura del sedile dall’agitazione e chiede: «vengono anche loro?», guardando me e la Bibi.
«Sìssì, tutt’e tre campione, tutte per te».
Io e la Bibi siamo paralizzate. Penso che non è vero. Penso che è un sogno strano in cui la Giusi è malvagia e vuole farmi del male.
Il maniaco esce dall’auto e io non respiro più. Ma non fa nemmeno in tempo a fare un passo che la Giusi in un secondo gli chiude la portiera alle spalle e la blocca. Quello rimane perplesso, ma subito dopo comincia a tirare pugni contro il finestrino, incazzato nero. La Giusi intanto è già al posto del guidatore, le chiavi sono inserite, le gira e il motore parte. Fa manovra con il tipo che tenta in tutti i modi di bloccarci mettendosi davanti all’auto e gridando: «no no, ferme, stavo scherzando!», ma la Giusi implacabile a momenti lo investe. E così ripartiamo sgommando, lasciandolo lì da solo a farsi le seghe in mezzo al niente e a urlarci: «brutte puttane di merda, giuro che vi ammazzo».
Poi ci vogliono almeno trenta secondi prima che io e la Bibi scoppiamo a ridere con tutto il fiato che abbiamo in corpo, tanto che non riusciamo più a respirare e non vediamo più niente per le lacrime grosse così. E sono all’improvviso contenta di essere uscita stasera. Altrimenti ora sarei a casa sul divano a mangiar gelato e guardare la mia serie tv preferita per la tredicesima volta, intervallata da lunghe scrollate su Instagram che non servono ad altro che a farmi sentire più sola, più grassa e più triste, tristissima – tristerrima! –, e invece ora zero sconforto e il cuore che mi brucia dalla gioia.
Poi, toccandomi, scopro che m’è cresciuto un brufolo in un punto imprevedibile della schiena.
Guardiamo con la faccia appiccicata al finestrino gli assurdi palazzi di Megamilano, le finestre accese e un balcone da cui un trentenne decrepito ci guarda perché siamo ferme al semaforo e abbiamo la radio al massimo. Lo saluto mandandogli un bacio e quello rientra in silenzio nella sua tomba al primo piano.
Per le strade, madri distrutte vagano con le borse della spesa, altre in tenuta da jogging avanzano stremate e dimagritissime. E i bambini, a bordo di tricicli cigolanti, inseguono dei turisti dispersi che invano cercano di raggiungere una lunga bandierina gialla che esce dallo zaino del loro capobranco.
«Quindi? Quando parti?».
«Dopodomani, Giusi».
Anni fa io e la Giusi ci divertivamo a comporre delle lettere minatorie che imbucavamo nelle cassette postali delle villette di tutto il quartiere. Con vinavil e ritagli delle riviste di moda rubate dalla sala d’attesa dello studio di mia madre, ci mettevamo a fare dei collage davvero bellissimi, tipo modelle con il torso maschile, dieci gambe e il sorriso più grande del normale, e chiedevamo dei soldi per interrompere l’abbonamento.
Ora invece abbiamo questo profilo in comune dove carichiamo foto di noi nude, senza mai inquadrare i volti però. Ci divertiamo un mondo a vedere quel che ci scrive la gente: alcuni fanno i mega-romantici, altri invece ci mandano le foto del cazzo e ci chiedono se siamo bagnate, dicendoci che ce lo sbatterebbero volentieri nel culo.
Ogni tanto, in cambio delle foto, ci facciamo comprare delle robe online che facciamo spedire in studio da mia madre. È successo anche di dare appuntamento nel bar sotto casa mia a qualche coglione, per scherzo. Ma non faceva per niente ridere, era soltanto patetico e ci prendeva lo sconforto, così abbiamo smesso.
Poi è successo che i suoi della Giusi, un giorno, l’hanno beccata perché ha esagerato con i regali, e allora l’hanno sbattuta in un istituto di suore dove l’hanno esorcizzata tre volte, dice, ma secondo me il diavolo comunque mica se l’è tolto, ce l’ha ancora lì che le ronza nella testa e le fa dire cose terribili a volte. O come adesso che inspiegabilmente accelera all’improvviso, tagliando tutti i rossi agli incroci e andando sempre più veloce.
Mi metto a gridare, ma lei niente, accelera sempre di più. La Bibi seduta dietro si sveglia, chiedendo se siamo già arrivate, ma un secondo dopo si mette a urlare anche lei.
Poco più in là un tram disperso blocca tutta la strada e la Giusi, non so come, riesce a frenare all’ultimo senza nemmeno toccarlo. Il tram riparte, come un animale che resta fermo a guardarti in mezzo al bosco e poi se ne va ignaro come prima del pericolo.
Respiriamo forte, con i petti che si gonfiano e si sgonfiano. E ripenso a quando abbiamo parlato per la prima volta di sta cosa che mi sarei trasferita coi miei in un’altra città. La Giusi anche allora aveva frenato di colpo in mezzo alla strada, e m’aveva detto: «esci dalla macchina, ti prego».
Ora però è lei a slacciarsi la cintura di fretta e a uscire dalla macchina sbattendo la portiera. Le corro dietro e non appena la raggiungo le tiro subito uno schiaffo potentissimo. Ma me ne pento subito non appena vedo il suo sguardo pieno d’odio che si rialza.
Mi salta addosso, ci picchiamo, ci mordiamo e ci strappiamo i capelli, ma alla fine riesco a bloccarla. Seduta sopra di lei, le chiedo perché cazzo non mi dice cos’ha.
Lei tenta di svincolarsi e intanto piange silenziosamente, finché con un colpo di reni riesce a togliermi da sopra di sé e si rialza.
«Giusi, dimmi che c’hai».
Si pulisce il naso che ha ripreso a grondare sangue e con una voce screpolata mi fa: «dirti cosa?».
«Lo sai che non cambierà nulla, te l’ho promesso».
Si volta e mi guarda.
«Non sopporto l’idea che diventeremo sconosciute», dice.
«Ma Giusi, non…».
Non resta nemmeno ad ascoltarmi. Si gira e ritorna alla macchina.
La Bibi non ha mai sopportato i climi di tensione come questo che c’è adesso in macchina, e per tirare su l’animo a tutte quante ci dice che vuole farci vedere il costume che voleva mettersi alla festa, facendoci giurare solennemente di non girarci a guardarla finché non avrà finito di cambiarsi.
Quindi, senza muovere la testa, dico alla Giusi che mi dispiace per prima. Con l’angolo dell’occhio la vedo grattarsi il collo nervosamente, dove ha quel tatuaggio che odia e ogni tanto le prude.
Poi per sbaglio alzo gli occhi sullo specchietto e la Bibi quasi mi tira un calcio sulla nuca. Le dico di smetterla che non è lei che stavo guardando, di non rompere. C’era una specie di luce che mi dava fastidio.
E infatti.
«Giusi, la polizia».
«Merda».
«Giuseppina Matteis» fa uno dei poliziotti puntando la torcia sui documenti.
«Presente» gli fa la Giusi per prenderlo per il culo, ma soprattutto perché non vuole mai essere chiamata con il suo vero nome.
«Elisabetta De Giorgi».
«Sì, sono io» fa la Bibi vestita da coniglietto sexy con un pompon sul culo.
Io la carta d’identità non ce l’ho perché l’ho persa al bar dov’eravamo prima di tutta sta storia, «al Ristoro», spiego al pulotto.
«C’entrate qualcosa con la rissa di stasera?»
La Giusi, tirando su il sangue secco dalle narici, dice che non c’entriamo proprio niente, «quale rissa, signor agente?».
Quelli sfoderano due sguardi eloquenti tra colleghi, mentre noi siamo rigide in realtà, anche se non sembra, con dei gran pali nel culo. Ci dicono di tornare a casa, che stanotte la città è di nuovo piena di dispersi, google maps è crashato di nuovo, i satelliti sono impazziti, e non hanno tempo per occuparsi di tre bambine su un’auto rubata e con i fanali dietro rotti.
«Quindi sciò, smammate bambocce» ci dicono.
Potremmo semplicemente abbandonare l’auto in uno di quei parcheggi immensi dei supermercati in periferia, «lasciarla lì per sempre e non pensarci più» dico, ma la Giusi non è d’accordo. Ha qualcos’altro in mente.
Ci fermiamo quindi a una pompa di benzina, mettiamo gli ultimi venti euro che avevamo nel distributore e versiamo la benzina direttamente dentro la macchina, che non abbiamo una tanica. Poi, arrivati a una duna di sabbia fuori città, tenendo sempre i finestrini aperti e facendo attenzione a non accendere inconsapevolmente sigarette, scendiamo tutt’e tre.
Restiamo a guardare la carcassa in fiamme per un’ora almeno, in silenzio come a un funerale. E mi vien da pensare a quanto è orribile, davvero, avere dodici anni e ritrovarsi a camminare sulla sabbia che tra poco sarà rovente, mandando giù in gola fiumi di lacrime che sgorgano a gogo, e non avere la minima idea di dove andare, che strada prendere in questo gomitolo di vie infinite che non portano da nessuna parte e nessun satellite è in grado di districare, segnare con un puntino rosso che dice Voi siete qui e siete insieme e non c’è niente di cui aver paura. Invece attorno a noi è tutto piatto e sconfortante, è tutto orribile che fa una paura immensa, e niente di niente sembra indicarci la via dall’alto.
Guardo la Giusi e non riesco a dire altro se non «dammi la mano, ti prego». Lei me la prende, senza stringere troppo, toccandomi appena. Mi vien da ridere ora, non so perché, a ripensare alla prima volta che abbiamo limonato, così per scherzo, per provare, per esercitarci, e la Giusi si è pulita la bava dalla bocca con la manica della giacca. Avrei voglia di baciarla adesso. Ma la Bibi, ch’era dietro a farci una foto, ci salta addosso ridendo, baciandoci dove capita e rovinando per sempre il momento. Stiamo così, accatastate l’una sull’altra, a guardare le fiamme. Voglio tornare a casa e dormire insieme, strette per farci del caldo, in maglietta e mutande con le gambe semi-intrecciate, prima che i nostri corpi crescano tanto da non starci più su unico lettino – oppure perché semplicemente quando tornerò non ci andrà più di farlo, o ci sembrerà strano, chissà.
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