Testo di Giovanni Marilli
Copertina di Claudio Parentela
Oggi la scuola è chiusa. Anche ieri la scuola era chiusa, lo ha deciso il sindaco. Quando in quartiere il vento soffia così forte, il sindaco chiude le scuole e ordina a tutti di stare a casa. La nonna dice che domani sarà uguale. Il vento dura tre giorni, dice. E dice che il sindaco fa bene, che con questo vento in quartiere la gente si mette a fare cose da pazzi. La nonna ha ragione. Quando c’è vento, prendo la scossa tutte le volte che afferro la maniglia del cancello senza aver toccato prima il muro. Marcello dice che non è colpa del vento. Dice che è colpa del giubbetto del centro commerciale. I giubbetti che si comprano nei negozi dall’altra parte del ponte la scossa non te la fanno prendere, dice. Ho detto a Marcello che il mese prossimo sapremo se quello che dice è vero. La mamma ha promesso a Giulia un giubbetto nuovo per il compleanno e Giulia ne vuole uno che ha visto in una vetrina dall’altra parte del ponte.
Giulia ha cominciato le superiori, va dall’altra parte del ponte tutti i giorni. Oggi è rimasta a casa. Le scuole dall’altra parte del ponte sono aperte, non sono chiuse come da noi in quartiere, ma lei non ha voluto andarci. Dice che è inutile. La sera che è tornata dai colloqui, Giulia ha sentito la mamma dire sottovoce alla nonna tanto hanno già deciso. E ha sentito la nonna rispondere che deve essere un fatto di famiglia, che è la stessa cosa che hanno detto a lei quando le superiori le ha cominciate la mamma.
Giulia dice che il primo giorno di scuola se in classe al suo posto fosse entrato un marziano se ne sarebbero accorti di meno. Non è come in quartiere, dice, in quartiere nessuno ti giudica dal giubbetto che hai addosso. Sfido io, abbiamo su tutti quello del centro commerciale. Comunque, è stato allora che la mamma le ha promesso il giubbetto nuovo per il compleanno. Ma adesso che hanno già deciso Giulia chiama la nonna vecchiastronza tutte le volte che la sente dire che sono soldi buttati. E pure io e Marcello siamo preoccupati. Se la mamma si rimangia la promessa, se prendo la scossa per colpa del vento o per colpa del giubbetto non lo sapremo mai.
Nessuno di quelli che conosco in quartiere ha finito le superiori. Da queste parti se non te la cavi bene con lo studio nessuno ci fa caso. A scuola, per esempio, sono tutti lì a guardare di continuo le previsioni. E quando arriva l’ordine del sindaco, la maestra, i bidelli, il segretario sono tutti contenti. Anche il padre di Marcello è contento, che così, se ci sono consegne extra da fare, Marcello può andare a dargli una mano. Io a scuola ci sto bene, anzi ci sto meglio che a casa. Oggi, per esempio, non posso nemmeno affacciarmi alla finestra senza che il fumo delle ciminiere mi graffi la gola. E allora non sono contenta per niente quando arriva l’ordine del sindaco. E anche Marcello non è contento. A lui la scuola non piace come piace a me, ma gli piace ancora meno dare una mano al padre con le consegne extra.
Il mese scorso ho sentito dire al padre di Marcello tanto non è portato per lo studio. È stato dopo che a scuola è venuta una signora con la erre moscia che ci ha fatto fare un test lungo più di dieci pagine. Siamo rimasti tre ore a mettere crocette su dei cerchietti così minuscoli che alla fine ci sono venuti gli occhi storti. La maestra ci guardava, seduta alla cattedra, accanto alla signora con la erre moscia. E diceva che dovevamo fare da soli, senza il suo aiuto, che tanto non ci avrebbe messo il voto. Qualche giorno più tardi la madre di Marcello ha detto sottovoce alla mamma che la signora con la erre moscia le aveva detto che Marcello è un po’ indietro, e che bisogna portarlo da un dottore, dall’altra parte del ponte, per insegnargli a pronunciare bene la erre e la esse. Io sono saltata su e ho detto che neanche la signora con la erre moscia pronuncia bene la erre, ma che lei dal dottore non ci va mica. La mamma mi ha tirato i capelli e mi ha strillato di filare a casa. E a casa ha detto alla nonna di mettere in padella quattro bastoncini di pesce in meno.
Parlo troppo, i vicini dicono che assomiglio a mio padre. E la mamma ha paura che i vicini abbiano ragione. Giulia dice che i vicini si sbagliano, dice che papà era un uomo bellissimo, coi capelli lisci e neri e gli occhi verdi. Io, se me lo chiedono, rispondo che di papà mi ricordo l’odore, ma la mamma dice che non è possibile, che ero troppo piccola per potermene ricordare. Ma quando la signora con la erre moscia mi ha fatto sedere davanti a lei, e mi ha offerto un biscotto, e mi ha chiesto se mi andava di parlarne, e ho visto che mi guardava con tanto d’occhi, ho pensato che ci sarebbe rimasta male se avessi risposto come al solito. Allora ho deciso di raccontare tutta la storia da cima a fondo, che tanto l’avrò ascoltata almeno un milione di volte e la conosco a memoria.
Io e Giulia mio padre lo chiamiamo papà, ho detto alla signora con la erre moscia. La nonna lo chiama Il Pazzo. Il quartiere lo chiamava Il Filosofo. Papà era un uomo bellissimo, coi capelli lisci e neri e gli occhi verdi, ho detto. Papà ha finito le superiori, e, fosse stato per lui, non si sarebbe fermato, ma suo padre un giorno lo ha preso da parte e gli ha detto che poteva bastare così. E lo ha accompagnato all’ingresso dello stabilimento, e si è fermato a guardare la schiena curva di papà che spariva in mezzo alle tute blu e verdi. Qualche anno più tardi papà ha cominciato a parlare una lingua strana, una lingua che nel quartiere nessuno capiva, ho detto. E nei giorni di vento si infilava sulle spalle un cartello, sistemava uno sgabello in piazza davanti alla chiesa, ci saliva sopra, e se ne usciva con certi discorsi in quella lingua che capiva soltanto lui. È stato allora che il quartiere ha cominciato a evitarlo, che se nessuno in quartiere ti giudica per il giubbetto che hai addosso, ti giudicano eccome se hai finito le superiori e ti credi più intelligente degli altri, ho detto. Ed è stato durante uno di quei giorni di vento che lo hanno visto scendere dallo sgabello a metà del discorso, togliersi di dosso il cartello e correre verso il molo, dove un gabbiano travestito da corvo non riusciva più a volare. E una mattina, all’alba, una mattina che il vento soffiava più forte che mai, hanno visto papà camminare sul ponte con in braccio il gabbiano che adesso era bianco come un gabbiano. Qualcuno ha detto filosofo-qualcosa a mezza bocca e qualcun altro si è messo a ridere. Papà, dicono, è saltato sul parapetto di ferro e ha cercato la direzione del vento con un dito bagnato di saliva. E ha lanciato il gabbiano verso il sole che nasceva, ed è rimasto a guardarlo che spiegava le ali e saliva in cielo. E mentre il vento gli sbatteva in faccia, papà ha sollevato le braccia e si è messo a urlare come urlano i gabbiani. E il gabbiano deve avergli risposto, perché papà ha urlato ancora più forte, si è messo a muovere le braccia su e giù, come fossero ali, ed è volato via.
Dopo quel giorno la signora con la erre moscia ha chiesto di incontrare la mamma. Al principio la mamma non ci stava capendo molto, che invece di seguire la punta della penna tra le crocette del test, si è messa a studiare il french sulle unghie della signora con la erre moscia. La madre di Marcello aveva raccontato che aveva un french fichissimo, che di sicuro se lo era fatto fare dall’altra parte del ponte e che chissà quanto doveva aver scucito per farselo fare. La mamma ha cominciato a capire che le cose stavano andando storte quando la signora con la erre moscia mi ha accarezzato la testa senza badare al french fichissimo e ha detto questa signorina ha del potenziale. E ha preso la mano della mamma fra le sue, e ha detto che avrebbe fatto il possibile per spostarmi in una scuola dall’altra parte del ponte. Lungo la strada di casa la mamma non diceva una parola. Le ho promesso che quando avrei cambiato scuola mi sarei tenuta il giubbetto del centro commerciale senza fare storie. La mamma ha fatto sì con la testa e ha tirato su col naso.
I giorni di vento come oggi io e Marcello ce ne andiamo sul molo. Sempre che a Giulia non le giri di mettersi a fare la sorella grande, o che al padre di Marcello non gli giri di fare consegne extra. Sul molo le ciminiere ci stanno alle spalle e, se stiamo attenti, e non ci voltiamo di scatto, possiamo fare finta che non ci siano. Ci piace starcene seduti a guardare le onde che si schiantano sul frangiflutti, e sentire gli schizzi di acqua salata che ci pungono le mani e la faccia. E ci piace guardare verso la sponda opposta, al di là del ponte. Case, campanili, palazzi come ce ne sono di qua, che pare che le due sponde si guardino allo specchio. E allora certe volte facciamo finta di essere dall’altra parte, e facciamo finta che a scuola non ci siamo andati perché non ci andava, e facciamo finta di mangiare un gelato, e di vedere due come noi, da questa parte del ponte, che non sanno cosa fare, a parte stare seduti a guardare i gabbiani che si tuffano in mezzo alle onde rabbiose. Due che non si voltano per non vedere il filo di fumo rossastro che buca l’aria, e che striscia in alto, e che si allarga, si allarga, si allarga, fino a quando una nube densa e grassa colora il cielo dello stesso colore del quartiere.
Quando io e Marcello siamo in strada mi metto sempre a contare i cartelli VENDESI attaccati all’ingresso dei palazzi. Marcello dice che oggi ce ne sono due in più dell’altra volta e quando finisco di contare gli dico che ha ragione. Abbiamo cominciato a contare i cartelli da quando il padre di Marcello ci ha chiesto di tenere d’occhio il cartello rosa sbiadito del palazzo all’angolo. Ha scommesso con quelli del bar che quell’appartamento sarebbe stato il primo ad essere venduto e una volta ha anche creduto di aver vinto la scommessa. Invece il cartello rosa sbiadito io e Marcello lo abbiamo ripescato con un tubo di plastica che abbiamo trovato sul molo. Mi ricordo che abbiamo fatto una gran fatica per ripescarlo, che quel giorno il vento soffiava forte, proprio come oggi, e il mare sembrava sul punto di bollire. Il giorno dopo, sul palazzo all’angolo è comparso un cartello nuovo, rosso fiammante. Così lo vedono bene anche quelli dall’altra parte del ponte, ha detto Marcello, almeno fino a quando non sarà diventato rosa sbiadito, e il vento lo strapperà via, e finirà in mare, come quello di prima.
Marcello mi chiede come ci si sente ad avere del potenziale. Non lo so, la nonna dice che è un fatto di famiglia, rispondo io. Allora la prossima volta che il sindaco viene a scuola devi alzare la mano e chiedergli se la scossa la prendiamo per colpa del vento o del giubbetto, dice Marcello. La prossima volta non ci sarò, rispondo io. Marcello si volta a guardare i gabbiani e io guardo lui che li guarda a bocca aperta. Volano così bassi che riusciamo a sentire sui capelli il frullare delle ali. Prometto di imparare a dire bene la erre e la esse, dice Marcello, così alle superiori ci rimettono in classe insieme e ci fidanziamo. Non so se mi va di fidanzarmi, dico io, Giulia dice che i fidanzati si baciano con la lingua. Marcello promette che non me lo chiederà e io rispondo che ci penserò. Marcello si fa tutto serio, se ne sta impettito come quando suona l’inno e gioca la nazionale. Strappa un foglio dal quaderno e lo piega, e lo ripiega. E quando ha finito di piegare mi sorride, e disegna un cuore e le iniziali su ognuna delle ali. Anch’io sorrido, e mi tocco i capelli, e massaggio le farfalle che si agitano nello stomaco. Marcello si schiarisce la gola, e accosta una mano alla bocca, mentre l’altra stringe l’aereo tra le dita. E fissa i gabbiani, come se volesse chiedere di accogliere un nuovo amico. E grida al vento la promessa con tutto il fiato che ha in gola. E una raffica di vento più forte delle altre afferra l’aereo di carta, e l’aereo di carta si dibatte in aria fino a confondersi in mezzo ai gabbiani. E allora chiudo gli occhi, respiro la promessa nel vento, e l’odore di papà che mi gonfia il petto.
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Con una abilità fuori dal comune Giovanni Marilli riesce a trasmettere ogni singola sensazione dei suoi personaggi. Con uno stile diretto privo di fronzoli ti fa uscire di casa e annusare il vento in qualsiasi posto tu ti trovi. Grazie per questa ennesima perla