Epistolario di storie – conversazione critica a partire da Solo a loro l’ultima parola

Testo di Antonio Paciello e mariel
Copertina di Susan Orlok da un’opera di Claudio Parentela

mariel

Caro Antonio – solitamente inizia(va)no così le lettere, no?!, 
come stai? 

È bello ritrovarci intorno alle storie, allo scriverle. Occasione è il tuo racconto per mlm, Solo a loro l’ultima parola

Scrivi: «un racconto ambientato nelle aree interne del sud Italia che cerca di rinfrangere la brutalità derivante dal senso di solitudine a cui queste zone in cui sono nato e cresciuto sono esposte a cui si accompagna un silenzioso e inesorabile sfruttamento economico/estrattivo e sociale (da lucano penso al petrolio delle valli o alla crisi idrica di queste settimane).» 
Riconosco la nostra regione, la Basilicata, seppur le dinamiche e i paesaggi specifici dei nostri paesi siano diverse (il mio sta «sulla collina, disteso come un vecchio addormentato» a due passi dal mare). 

Da ciò che ho letto di tuo (Le idee di noi in Sciroccate e i testi del lab di Trame, oltre il racconto da cui partiamo), penso di poter dire che il paese è uno dei tuoi temi. Oltre a essere luogo natale, di formazione, cosa ti porta ad ambientare le storie qui, e non magari in città, dove ti sei trasferito? 
Si fa, appunto, tanto parlare di aree interne/marginali/periferiche, borghi/paesi/comuni, è qui che va il tuo interesse? 
La direzione mainstream/commerciale va nel senso di una riabilitazione turistificante, di un’esotizzazione romantica, una via di fuga dallo stress e di rifugio: il tuo racconto mostra tutt’altro. C’è un intento di contronarrazione? Però, mi sembra che sia collocato in un tempo più remoto rispetto all’oggi, o sbaglio? Penso al papà da solo in Germania per lavoro, alla vestizione come via di fuga e “realizzazione” della voce narrante. E anche alla foto che accompagna il testo. Il tempo si è fermato o è ricorsivo? È concepito in modo diverso? Siamo solo ancora «terra del ricordo»? 
Come ti spieghi la questione della crescita, di una modernità che da noi pare non essere arrivata (ancora quel Cristo (che) si è fermato a Eboli) e dell’inesorabile sfruttamento? Sappiamo solo votarci a Dio e resistere? Penso a quando scrivi: «Nel racconto ho cercato di far muovere i personaggi attorno a un pensiero caro a De Martino e a Frantz Fanon e che ha a che fare con la fede e la resistenza. Secondo i due autori in alcuni casi la fede religiosa ha più a che fare con la resistenza che con la spiritualità; secondo Fanon dietro la formula “se Dio vuole” c’è la necessità degli oppressi di togliere il proprio destino dalle mani dell’oppressore e di affidarlo nelle mani di Dio che diventa un soggetto politico prima ancora che religioso.» 
Le caratteristiche geografiche e demografiche del territorio quanto contano? 
La narrazione, soprattutto quando viene dall’esterno, può essere falsata, ma spesso è anche quella più autorevole: dovremmo forse prendere di più noi la parola. E senza volerlo vado in contrasto col titolo del racconto. 

Un abbraccio, 
mariel 

Una precisazione alla frase finale: il contrasto lo intendo solo a livello formale, perché il “loro” del racconto non è lo stesso, non è fuori. Ma una sorta di forza plurale. Ne vorrei parlare poi. 

Antonio

Cara Mariel, 

sono molto contento di poter avere questo scambio con te e ti ringrazio. Ripenso alle chiacchiere e alle bevute genovesi insieme a Francesco di qualche mese fa e mi sento a casa. Sto bene e poi fra un po’ è Natale. 
Come stai tu? Che si dice a Bernalda? 

Hai ragione, tutti i racconti che ho scritto finora sono ambientati in un paese (anche molti di quelli che ho chiusi nel desktop del pc), e di certo le immagini che vivo scrivendo mi riportano, spesso, tra le vie del mio paese, quello reale che si mischia inevitabilmente con quello interiore, un concerto di immagini animate che non sono per forza il mio paese ma che ne ricordano gli umori e le atmosfere, ma anche le dinamiche sociali e politiche. In realtà questa circostanza non è il frutto di una decisione motivata, anzi, mi piacerebbe scrivere e vagare altrove ma credo che le motivazioni che mi fanno restare lì – per ora – siano varie, te ne elenco alcune: la nostalgia è sicuramente uno dei sentimenti che mi muove di più, a cui la scrittura, con la possibilità che ha di rimandare con la fantasia ai luoghi e tra la gente di cui si scrive, mi permette di mantenere un contatto con le persone e le atmosfere care, da cui sto lontano per molto tempo. Un altro motivo risponde alla profonda conoscenza emotiva che ho di quei luoghi, per cui mi viene più semplice parlarne, rievocarli, vagarci – ho avuto la fortuna di svolgere una visualizzazione guidata sulla placenta, qualche settimana fa, un organo a cui non avevo mai pensato con molta attenzione, l’organo che è nella pancia della madre ma appartiene già alla creatura, gli permette di vivere e si spegne quando nasce: nella mia visualizzazione la placenta era rappresentata dalle due grandi montagne che sovrastano il mio paese, la sua atmosfera rappresentava quindi il grembo: ho rivisto il mio paese e ho pensato che certo, il luogo più intimo che mi ha ospitato dopo il grembo di mia madre è stato lui ed è il suo ricordo che orienta il mio senso di casa quando nei luoghi in cui vivo devo sentirmi appaesato, al caldo. Ma c’è anche un’altra ragione, più politica, che mi porta a scegliere di parlare di quei luoghi, credo che le difficoltà che spesso abbiamo di raccontarci nascondono molti fantasmi storici, sociali, politici, che si ha l’abitudine di tenere taciuti, a me piace rievocare questa sensazione di non detto, di taciuto, di nascosto e di pericoloso che vivo sempre, quando penso, sogno e sto nel mio paese ma più in generale nella mia (nella nostra) terra. Dimmi se sei d’accordo, se è qualcosa che riesci a percepire anche tu. Questo non detto fantasmatico, queste presenze, letterariamente, mi coinvolgono molto, allo stesso tempo so che se non ci vivessi lontano mi soffocherebbero! 

di Carole Rosa, doula

Rispondo al tuo secondo gruppo di domande. Si fa tanto parlare di aree interne, marginali, periferiche: è vero, e certo lo si fa spesso nei termini neoliberali del consumo, in cui le aree interne sono messe a rendimento dal turismo mainstream. Come tanti e tante di noi vivo con preoccupazione questi movimenti, che provano a vendere la fuffa della fuga dallo stress, che esotizzano, banalizzano e assalgono interi territori. Non credo, però, che la mia voglia essere una forma di contronarrazione, il mio intento vorrebbe essere piuttosto quello di cercare di animare, di scegliere una storia e di vedere in che modo si sviluppa in un paese delle aree interne del sud Italia (mi piace scrivere praticando una specie di etnografia immaginaria, in cui non so cosa sta per accadere ma quel che succede mi è suggerito man mano, da quel che accade nelle mie fantasie, mentre incontro luoghi e persone, che sono pur sempre modellate da ciò che mi circonda, fantasie sociali), oggi o l’altro ieri, di dare respiro a quel che accade, consapevole, però, che la realtà è molto complessa, molto più complessa dei luoghi comuni che spesso ci descrivono, raccontare la realtà in questo senso, forse, è inevitabilmente una contronarrazione nei confronti delle narrazioni che la realtà la tradiscono. La turistificazione è una realtà, com’è una realtà anche lo sfruttamento, il soggiogamento, la repressione, l’isolamento ma anche la bellezza, la spontaneità, la dignità, questo chi vive nella nostra terra lo sa bene. 

La questione del tempo è una bella domanda e ti ringrazio per avermela fatta. In questo racconto mi piaceva evocare (ma più in generale è una questione che mi interroga molto) la migrazione della generazione dei nostri nonni verso il nord Europa nel suo tenore drammatico. Mio nonno è migrato in Germania e c’è stato per una ventina d’anni, tornava due volte l’anno, ed era prima di tutto la macchina economica della famiglia. Nonostante questa lunga esperienza che accomuna molte famiglie noto, nel mio paese (non saprei dirti cosa succede altrove, mi piacerebbe molto saperlo), una grande povertà narrativa nei confronti di questa esperienza sia collettiva che individuale: le mie zie, mio padre, ma anche altre zie, altri padri e madri di amici e amiche, hanno raccolto poche storie, poche testimonianze, pochi racconti, addirittura poche fotografie (mio padre ne ha conservate poco più di una decina) di questa storia migratoria genitoriale che è stata pure lunga e ha coinvolto almeno due generazioni di migranti. Mi chiedo quale sia il motivo di questo non detto, non raccontato e ricordo la faccia di poche parole di mio nonno, e la sua malattia, l’alzheimer, in cui è stato in grado di sprigionare tanta rabbia accumulata che risuonava come una grande bestemmia quindi mi sono detto che sicuramente uno dei motivi per cui non ha voluto mai parlare della sua esperienza (che poi era la sua vita) aveva a che fare con quella rabbia, e quindi con l’umiliazione che spesso accompagnava i nostri nonni e le nostre nonne in questi luoghi, per anni, e che era stata preceduta già da altre umiliazioni che avevano determinato il viaggio: un’incrostazione di umiliazioni. Queste umiliazioni, taciute, andate via, in fondo non scompaiono, ma si tramandano tacitamente, nei gesti, negli affetti, nei modi di vivere – generano i fantasmi di cui ti parlavo prima. Non posso pensare che l’esperienza di mio nonno, di cui porto nome e cognome, e della sua famiglia non sia costitutiva anche di me stesso, e di mio padre, dell’ambiente che mi ha cresciuto. A volte mi dico che siamo stati cresciuti anche dai fantasmi, una parte di noi è stata socializzata al non detto, come un grande libro di storia con le pagine nere, che ci ha aiutati a sviluppare sicuramente una buona intuizione ma anche l’abitudine a tacere, un’abitudine non per forza negativa ma che sicuramente vuole dirci qualcosa, allora mi rispondo che quando uno non vuole parlare è perché in fondo parlare gli fa male, e questo è quello che accade, spesso, ancora oggi. La nostra terra subisce ripetuti soprusi (da ultima una crisi idrica che interessa centoquarantamila persone e ha chiare responsabilità politiche), ma si preferisce tacere, forse per vigliaccheria, per incapacità di determinarsi politicamente, ma se fosse anche per dolore? Perché siamo incrostati da tante umiliazioni (e non voglio scomodare il passato ora, mantenendo questa sana abitudine a tacere) e svelare le nostre frustrazioni, accumulate e tramandate, forse ci fa male, o forse ci è impossibile, ancora. Con questo misto di sofferenza, timore, parole taciute e rabbia esplosiva ho provato a costruire i personaggi del racconto e il non detto che li circonda. 
Quindi il tempo del racconto è il tempo dei nostri genitori, ho immaginato che la morte del padre fosse accaduta in un passato lontano rispetto al presente del racconto, e che lasciasse ancora i segni di una disgrazia. Una famiglia strutturata in quel modo, in cui il padre migrante è l’unico motore economico, quando questo padre muore, lontano, soccombe e ognuno cerca di costruirsi come può all’ombra della miseria che si annuncia (ritornando alle fatiche che avevano già reso la migrazione necessaria). Ho fatto incontrare questa tragedia immaginata con la tragedia del nostro territorio, con gli espropri di terre che ancora continuano, con i grandi pre-potenti (le élite politiche ed economiche, quelli importati e quelli nati tra di noi, penso ai grandi petrolieri di Eni e Total ma anche ai piccoli e grandi baroni industriali e politici nostrani, che con i potenti ci fanno affari e  trovano i modi di arricchirsi giocando sull’assenza di risorse, sul ricatto occupazionale, sullo spopolamento, sul controllo e sul clientelismo, ma anche sulle condizioni demografiche e geografiche della nostra terra, come tu mi ricordi, che ci tiene pochi e lontani e che giocano a loro favore). È un dramma nascosto e quotidiano, lo sfruttamento della terra e lo sfruttamento delle fasce più deboli della popolazione che a fronte di pochi anticorpi sociali (anche se quelli che ci sono si fanno resistenti come la pietra, penso al neonato Comitato acqua pubblica Peppe Di Bello, ad associazioni come Cova Contro, movimenti come No Triv o Potenza Project, a testate giornalistiche come Basilicata 24, alla Collettiva Mashare e alla galassia transfemminista che ruota attorno al Potenza-Basilicata Pride) aumenta a dismisura. In questo senso non credo che la modernità non sia arrivata ma che abbia assunto forme inusuali dall’idea collettiva di modernità, che cos’è l’Eni o la Total, la turistificazione e la privatizzazione delle risorse, di cosa parla lo spopolamento se non di modernità? Noi viviamo la modernità di un territorio marginale, così si potrebbe dire, la modernità di un territorio politicamente sofferente, isolato e spopolato: è questa la nostra modernità, che genera la nostalgia di quel che il territorio è stato, socialmente, politicamente, biologicamente, climaticamente, e non è più, la nostalgia del luogo che ancora abiti ma che non riconosci (ho provato a farlo dire a uno dei personaggi). Solastalgia è stato definito questo sentimento, ho molti amici che ne soffrono, anche io la rivivo quando torno, quando affogo nelle immagini che rappresentano altre epoche in cui si può facilmente immaginare la presenza di una forza comunitaria comune che non c’è più, un po’ come l’immagine che vi ho mandato e che vede la banda immersa in un passato lontano, la foto vorrebbe rappresentare questa fuga verso un altrove temporale, ma anche la memoria dell’infanzia lontana del personaggio che suona nella banda da bambino, è una vecchia foto che ho trovato in un cassetto di mio padre, pure lui bandista. 

Frantz Fanon ed Ernesto De Martino: ho citato questi due autori quando vi ho proposto il racconto, cercando di raccontarvi cosa ci fosse dietro il tema religioso che ho deciso di evocare. Nel racconto ho voluto immaginare un valore particolare che può assumere la religione di fronte alla sofferenza sociale, partendo dal presupposto che la religione è ancora presente se non nelle abitudini quantomeno nella costituzione antropologica dei nostri territori. Di fronte alla sofferenza sociale di alcune fasce di popolazione la religione, in una terra povera di anticorpi sociali, può assumere (e lo vedo nei modi che hanno di vivere la religione le persone che mi circondano) una forma di riscatto o quantomeno di resistenza, qualcosa che è già appartenuto alla nostra civiltà contadina e forse ne è un’eredità. Con le dovute differenze Fanon immaginava qualcosa di simile quando osservava, ne I dannati della terra, la formula “inshallah” (se Dio vuole) vedendo una modalità utile all’algerino colonizzato per togliere dalle mani del colonizzatore il potere sul proprio destino e metterlo nelle mani di Dio (qui si spiega il titolo del racconto Solo a loro l’ultima parola, perché se l’ultima parola non spetta a me, che sono oppresso, non deve spettare neanche al mio oppressore, spetterà a Dio, che ci livella, ricordando Totò, il religioso si fa strumento politico) in questo senso forse Cristo si è fermato a Eboli salendo dal Mediterraneo e non scendendo. 
Ma il racconto si chiude con un’esplosione di violenza, durante un momento rituale, antichissimo. Non ho potuto evitare di pensare a Ernesto De Martino quando instancabilmente parla della funzione delle costruzioni culturali collettive, come sono i momenti rituali, di consentire il superamento delle crisi (individuali o collettive), lo definisce processo di destorificazione istituzionale e mette a fuoco il ruolo che la cultura ha nell’amministrare il pericolo di dissoluzione dell’uomo di fronte alle minacce esterne, sociali, politiche, culturali, biologiche, climatiche; il rituale religioso come forma di protezione dalla minaccia del non-esserci-nel mondo, ecco, la  processione di cui riporto alcuni momenti è una processione che esiste davvero, si chiama la Uglia, e si svolge nel mio paese da un tempo immemore (altre, simili, esistono sparse in tutto il sud Italia). Ha sempre coinvolto le fasce popolari della popolazione, un luogo in cui acquisivano valore varie tipologie di marginalità. Le sue origini sono discusse ma nelle sue forme qualcuno rivede i segni di un antico rito propiziatorio, la ricorrenza, in primavera, fa pensare a una forma di protezione del raccolto. Ora, nel racconto abbiamo una famiglia a cui stanno per essere sottratte delle terre, il potere rituale cos’altro può suggerire se non di proteggerle? Anche se la sua funzione ha una eco lontana in un presente in cui i fili che tengono uniti la comunità sono sempre più erosi, l’atmosfera si nutre, però, ancora del ricordo sbiadito di una forma catartica di liberazione e allora sono stato costretto a rendermi conto che, nella solitudine a cui ci espone l’apocalisse culturale che ci minaccia, ai due fratelli non può che arrivare il suggerimento della violenza alimentata da una rabbia incendiaria, drammatica e inesorabile, solo quel moto avrebbe permesso a queste persone di riacquisire, per un misero istante, la propria presenza sociale e politica, a liberare una catena di incrostazioni di umiliazioni che in qualche modo ci simbolizza tacitamente. 
Di fronte all’apocalisse culturale apparecchiata dalla modernità neoliberale – che da noi mostra uno dei suoi lati neri – nel racconto immagino che solo la rabbia può reintegrare la presenza, la rabbia che si fa cultura e diventa rivolta. E con una presenza rinnovata finalmente prendere parola. 

Ti abbraccio 
Antonio 

mariel

Antonio, 
grazie di tanta generosità nel raccontare e raccontarti. Ho pensato tanto. 

Sì, la questione del non detto, del taciuto, di questa sorta di spettri (non lo siamo anche noi, in fondo?) che aleggiano, la ritrovo eccome! E mi viene in mente il racconto di Alessia Sardella, L’iris di Giù (sempre in Sciroccate), della frase che ripete la nonna «Certe cose è meglio che voi non le sappiate proprio» (anche se lì poi le raccontava) e che rimanda alle non storie di tuo nonno, o meglio, forse, mezzestorie. E siccome ho avuto anch’io un nonno tornato a piedi dalla campagna di Russia, che però non ho conosciuto, mi sembra di stare nella stessa storia. Su di lui un alone di leggenda e di violenza a vestirlo, Tərrmotə era il suo soprannome. Lui si diede all’alcool (ma non sono sicura ché i non detti danno agio alla fantasia, soprattutto di una me bambina – e sono strategia narrativa molto efficace!). 
Ma penso anche all’intesa positiva – nell’avvicinarsi della scena finale, inserisci degli sguardi di risaputo tra il protagonista e altri abitanti, un accordo di protezione comunitaria? –, di malaccordo anche, che c’è nel quotidiano, nel contravvenire/aggirare regole che probabilmente non abbiamo mai sentite nostre di cui, però, spesso hanno approfittato i padroni interni e il potere esterno. Parlo delle questioni lavorative, di miseria e sottomissione che hanno sfruttato il nostro (ma non solo nostro) forse più spontaneo, “naturale” per le caratteristiche delle nostre comunità, senso di mutuo aiuto per aggiovarsene e mantenerci in uno status quo, immobili e stagnanti. Seppur i cambiamenti ci siano. Più piccoli e lenti sono percepiti da me che sono dentro. 

Parli di vecchie e nuove realtà che resistono e alzano la voce contro lo sfruttamento e ne sono molto felice, queste le vedo!; soprattutto le nuove generazioni che si aggregano e si fanno spazio e portano nuovi concetti, rivendicano istanze antispeciste e di genere e diritti per l’ecosistema che abitiamo. Tra la (ri)scoperta della storia dei luoghi, le nuove tecnologie, l’avvicinamento alla terra, un nuovo radicamento che porta speranza contro quello che ormai per noi era normale: la migrazione. Tutto ciò mi fa pensare che non ho sbagliato a restare nel mio paese. Senza caricare ciò di campanilismo o esagerato attaccamento che è molto lontano da come vivo io il territorio. Ho imparato a stare in mezzo a tutte le contraddizioni, le storture per godere comunque di un piccolo margine di azione quotidiana che non scardina nulla di grande, ma risana il terreno in qualche modo (e sappiamo quanto un terreno inquinato ci metta a riprendersi, se riesce, e quanto sia interdipendente) e che credo qui, lontano dal centro, sia possibile (lo scriveva già bell hooks, meglio). E non sono certo l’unica. Ma ci teniamo separatə. È facile sentire: Ma cè ‘a fa’? Ci t’ la fasc fa’? Lascia stare, non ce la fai. E forse può ricollegarsi a quel dolore delle umiliazioni, alla vergogna del non farcela e che abbiamo anche interiorizzato rispetto a situazioni che spesso dipendono dall’esterno o per le quali non abbiamo unica colpa, se non nessuna. Il tema del fallimento e della colpa (e pure della povertà) sarebbero da affrontare insieme, da scardinare dalle narrazioni che mostrano solo artefici pericolosi per la società, con tutte le conseguenze che ne derivano. Io sento sempre quel leitmotiv “se vuoi puoi” e piano piano imparo a zittirlo, non perché non si debba lottare, ma questo senso del sacrificio perenne, molto cristiano, che ci dovrebbe far meritare una vita migliore (nell’aldilà) paralizza se sei solə. 
E allora ti chiedo: il senso di colpa è un sentimento che ho ritrovato nei tuoi testi. Deriva da questo andare e tornare ma stare da un’altra parte? Nell’atrocità dei legami disciolti nella lontananza (qui il rapporto tra fratelli e figlio-madre, nell’altro racconto quello figlio-madre, tra i due amici), resta come un’oscurità profonda e tragica, che mi è sembrata più potente dell’amore, soprattutto in Solo a loro l’ultima parola

La religione, il nostro “se Dio vuole” che mi capita di sentire spesso. Mi piace molto l’idea che Cristo si sia fermato a Eboli in moto contrario, risalendo dal Mediterraneo, dà un significato diverso rispetto al sentire comune, prendendo un’accezione positiva ma mantenendo la differenza storico-territoriale. 
Il sincretismo è molto più forte nelle regioni del Sud (forse perché ne è ancora evidente la violenza?), dove dio, madonna, santi e martiri hanno mangiato e integrato caratteristiche delle pregresse divinità legate soprattutto alla terra e al vivere quotidiano. E questo dice molto della storia dei luoghi e delle persone. La nostra regione ha come protettrice la Madonna nera di Viggiano, una donna, nera, nera come il petrolio che la fa sfruttare.  Uno spunto di analisi ecofemminista. Colonia Basilicata è il titolo di un testo di Giorgio Santoriello di Cova Contro che mi pare abbia utilizzato il parallelismo nel denunciare Eni-Total-Shell. 
Una provocazione. Lo Stato qui è presente solo per i colossi del capitale: che ce ne facciamo? 

Il titolo lo hai già spiegato e si desume nel finale. C’è un’ironia in quel «avevano finalmente deciso per noi», riferito a quella “spinta” all’azione che ripaga? E poi, terminata la lettura: è successo davvero? A questo punto mi/ti chiedo: anche il tuo racconto è una magia di protezione contro la perdita? Ha la struttura di una matrioska!(?) 

Un ultimo (per me) punto: il dialetto che qua e là sbuca, non tradotto, senza note né marcatori grafici. È vero che occorre poco e in piccole costruzioni, ma come sei arrivato a questa scelta? È una scelta? Lo utilizzeresti nello stesso modo per parti più lunghe o andresti a vantaggio della leggibilità? 
Premetto che sto per parlare di testi non di narrativa tout court. Vengo dalla lettura di Anzaldúa in Luce nell’oscurità/Luz en lo oscuro (già il titolo dà conto dell’utilizzo mestizaje): nella nota alla traduzione di Scarmoncin si riprende a tal proposito bell hooks di Insegnare a trasgredire che intende il non tradotto di «idiomi vernacolari e ibridi» in senso politico, di autodeterminazione e ribaltamento della posizione di dominio bianca, ammettendo il non sapere e accettandolo. Torno a rifletterci e proprio nel testo di Anzaldúa ritrovo quella sensazione di straniamento, di “ignoranza feconda” – ma anche no! – e di sforzo che avevo già provato coi neologismi di Chthulucene di Haraway tradotti o meno (anche qui c’è una nota di traduzione) da Durastanti e Ciccioni. In entrambi i testi la lingua è parte dello scardinamento di se stessa e del pensiero. Per me è stata una sensazione bella. Vagare con la mente in cerca di un appiglio a volte riuscendoci a volte no. Mi sono trovata a fare attenzione al suono dei termini. A proseguire la lettura senza molte certezze. Ad avere intuizioni in ritardo. – Tipo quella che ho avuto, terminata questa mail e rileggendo il testo, per il verbo (ag)giovare, un’italianizzazione dal dialetto di mia nonna ❤️ un’«euforia lessicale» (Durastanti). 

mariel 

p.s. Genova è nel cuore per tanti motivi, compreso te e la dolce Carol (senza ‘e’ finale, giusto?). Se rientrate per natale proviamo a rivederci. 

Antonio

Mariel cara, 

Il soprannome di tuo nonno mi ha lasciato quel gusto un po’ dolce e un po’ amaro che lasciano i soprannomi, quantomeno quelli a cui sono abituato io, credo che sia una vera e propria arte quella del soprannominare, di riuscire a sintetizzare in poche lettere una caratteristica nascosta e riconoscibile, anche il soprannominare ha molto a che fare – ora ci penso – con il fantasmatico, con la capacità di vedere quel che non si vede ma che aleggia, non trovi? 
Sono d’accordo anche io, i non detti danno agio alla fantasia e la ricerca di certe risposte, il tentativo, a posteriori, di dare forma ai non detti, forse sì, può mettere a proprio agio la fantasia e cercare di dare delle risposte riconoscibili collettivamente. Mi viene in mente un libro, in particolare, che riflette su questo tema, si intitola Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica di Avery Gordon, e si interroga sulla facoltà che l’immaginazione ha di stanare i non detti, di vedere ciò che sta nascosto dietro coltri di violenza, sopruso, silenzio, vergogna, ciò che manca all’appello (e che di notte viene a tirarci i piedi, un po’ come i morti, quando li scomodi). Penso alle forme a noi più note di scongiuro del male (che ancora godono di una nascosta, per l’appunto, salute). Cos’è il malocchio, se non una struttura immaginifica volta ad amministrare i non detti? Un modo per connetterci a ciò che si sente, che tutti sentiamo, eppure non possiamo nominare? Il male, la violenza, la sopraffazione. 
Non so se questo accade anche da te, forse no, perché sei lontana, accadranno altre cose. Dalle mie parti, negli ultimi dieci anni, c’è stato un vertiginoso aumento di tumori. A pochi chilometri in linea d’aria, dietro le montagne, sorgono a destra il centro Tempa Rossa della Total, a Corleto, e a sinistra il centro Oli di Eni di Viggiano, tutt’intorno decine e decine di pozzi petroliferi. Bene, tutti, tacitamente, pensiamo che quei tumori, in qualche modo, potrebbero essere collegati a questo lavorio di estrazione ma c’è nell’aria una sorta di timore (o ancora, di dolore) nel dare forma a questo pensiero e verbalizzarlo pubblicamente, aleggia silenzioso, diventa un fantasma e ci infesta, ci incarognisce. 

È proprio in questa nascosta consapevolezza, nell’idea che in fondo, tuttə, anche se non lo verbalizzano, il male lo conoscono, che volevo si muovesse la solidarietà tra i personaggi, trasmessa anche solo con uno sguardo. Penso allora alla storia della Madonna di Viggiano (ma perché no, anche alla Bruna di Matera, che strano scherzo, lì ha protetto il laboratorio nazionale della gentrificazione) emblematica in questo senso, che mi sollecita tantissimo. 
Vista con gli occhi di chi vuole osservare i fantasmi, la Madonna di Viggiano è una grande menzogna, una grande produttrice di simulacri. È assurdo che la protettrice della Basilicata sia una Madonna nera il cui santuario sorge a pochi chilometri dal centro di raccolta Oli dell’Eni, a pochi chilometri dalla puzza di zolfo e di gas, a raccontartela mi sembra una scena biblica. Non so se sei mai stata a Viggiano, congela le vene, i due santuari, quello della Madonna e quello dell’Eni, sono uno di fronte all’altro, dal portone del santuario della Madonna si vedono, in basso, i tubi grigi e i camini fumanti del centro, lì, ogni settembre, vanno in pellegrinaggio tutti i fedeli della regione. Quando una volta sono entrato in paese, a fare un giro con un amico, per il semplice fatto di avere una fotocamera al collo tutti pensavano fossimo giornalisti ed erano impauriti che li andassimo a scomodare; entrammo in un bar e osservammo gli occhi intimoriti della gente a difendere un segreto, il segreto di Pulcinella, le casacche catarifrangenti dell’Eni erano numerose, questa gente ha la quotidianità occupata da un ricatto inspiegabile, ci siamo detti. Torno un attimo alla Madonna: l’antropologo Andrea Ravenda in un lavoro intitolato Carbone. Inquinamento industriale, salute e politica a Brindisi, racconta di come in Puglia, nel brindisino, l’Enel per pulire la sua bella faccia dalla sporcizia delle centrali a carbone con il quale da decenni occupa e infesta quei territori, abbia iniziato a interessarsi ai finanziamenti delle attività culturali e religiose salentine. Quello che accade ogni settembre a Viggiano è ridicolo, il Comune, con i soldi delle royalties dei petrolieri, finanzia concerti per centinaia di migliaia di euro, accanto al pellegrinaggio per la protettrice va in scena il pellegrinaggio per i padroni, i pifferai magici che ci stregano e ci uccidono. I poteri politici e religiosi si uniscono, conniventi, dietro questo spettacolo macabro. Nel racconto, invece, volevo ricostruire l’altra faccia della religiosità, quella che parla a chi subisce tutto questo sfacelo, non quella delle Madonne ricche e imbevute di petrolio, mi piaceva immaginare che la voce delle persone disgraziate si riunisce dietro ai santi disgraziati, quelli che non mentono e custodiscono il dolore della miseria, che raccolgono le lacrime e non fanno i patti con i potenti, anzi, ci permettono, con il loro potere catartico che viene da un antico anelito alla libertà, di abbatterli, quantomeno con la fantasia (liberandocene momentaneamente, in questo senso il mio racconto, si, vuole essere una specie di atto magico che stuzzichi la fantasia della rivolta). 

È interessantissimo il tuo punto di vista interno, la facoltà che hai di toccare la lentezza con cui tutto si muove, una presenza che può appoggiarsi sulle sensazioni e che io purtroppo ho perso e devo sempre ricostruire da lontano. Se il mio margine è psichico e lo vivo nello straniamento della migrazione, il tuo margine è reale e si compie nei sensi, nelle percezioni, è più animato e meno pensoso, immagino, mi dirai se in qualche modo ho indovinato. Sicuramente il senso di colpa che aleggia nel racconto ha a che fare con questo turbamento, con la sensazione, a volte imposta, di aver mollato il colpo, di essere fuggiti via, è una sensazione che non analizzo e di cui voglio solo dare testimonianza, esiste anche se io non penso sia giusta, fino in fondo. Trovo, anzi, a volte stucchevole la retorica del ritorno, come se chi è nato in una terra sofferente non avesse il permesso di andare altrove – quasi a far ricadere le responsabilità dello spopolamento su chi è andato via – mi sembra riduttivo e sposta l’attenzione sulle ragioni politiche del nostro isolamento. Penso, a mo’ di esempio, alla retorica identitaria di alcuni gruppi (non dichiaratamente fascisti) potentini che animano questo “invito” al ritorno, giocando sul senso di colpa, per cercare nuove braccia da arruolare nelle loro politiche insensate e autoritarie, si nascondono dietro nomi che ricordano la terra ma in realtà sono le creature della piccola borghesia che la nostra terra la controlla da un tempo immemore come farebbe un vecchio podestà, c’è una parte di persone che vuole una terra abitata perché potente, da governare fieramente nel loro interesse, non diversamente da chi la governa già. Andare via è tanto avvincente quanto drammatico, genera sentimenti complessi, in cui resta un’oscurità profonda e tragica, come dici tu. Penso ad Antonio Rezza quando dice che la prima cosa che una persona deve fare, se può, è abbandonare il proprio paese, guardarlo dall’esterno (un po’ come si cerca di fare con se stessə), è più facile abituarsi a questo sguardo “laterale” andando via e non restando (quello che hai fatto tu, creando un luogo di distanza che ha a che fare con l’anima e non con il corpo, mi ricordo di alcuni momenti in cui ci siamo confrontati su questo e lo accenni quando accenni al modo in cui tu vivi il territorio, correggimi se sbaglio), allo stesso tempo, si può essere stati via per anni e non aver mai fatto i conti con questo sguardo laterale rimanendo fagocitatə dalle dinamiche interne ai nostri luoghi che hanno sempre a che fare con il potere e mai con la cura, con un lavoro politico vero e proprio, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Credo che assumere questo punto di vista ci permette di osservare in maniera più onesta la realtà, di non perpetuare i giochi di potere che le retoriche identitarie rinsaldano. Io non voglio tornare a vivere nel mio paese; eppure, non smetto mai di interessarmi ai miei luoghi. 

Il dialetto, devo dirti la verità, non è stata una scelta tanto meditata.  Durante i laboratori per Tamu Edizioni che hanno fatto conoscere me e te, ho scoperto la possibilità di rendere il dialetto una parte dell’andamento discorsivo, senza isolarlo con il corsivo, aiutandomi ad aderire al senso di libertà con cui sento la necessità di trattarlo, ossia con dignità letteraria, senza preoccuparmi di doverlo giustificare, isolare, incorniciare in un’atmosfera esotica, il dialetto è di fatto la mia lingua madre, come immagino anche la tua, e di tante persone, in Italia, che, nel dialogo orale, utilizzano un linguaggio ibrido rispetto ai contesti in cui si trovano a vivere (esponendosi anche a rischi fastidiosi e razzisti, se sono, che so, lucani a Milano), è indubbiamente anche una posizione politica, e mi risuona fortemente quello che dice bell hooks, un tentativo, anche questo, di restituire la realtà. 

Carol ti manda un grande abbraccio 
Vediamoci a Natale, aggioverebbe tuttə 🙂 
Antonio 

mariel

Antonio, 

a me i soprannomi sono sempre parsi violenti; ci vedo una stereotipizzazione di una caratteristica più evidente che alla fine ti ingloba e acceca, riduce la complessità. Inoltre, spesso, fanno il paio coi cognomi in un sistema patrilineare, o comunque univoco. Però, sì, a volte un soprannome può riuscire a esternalizzare un’essenza, un fantasma, un dolore, un tabu. Può fare luce. 

Hai toccato un tasto, quello dei tumori, che è parte ormai quotidiana di quasi ogni famiglia in Basilicata, anche verso la costa (anche la mia), perché quando inquini la terra, l’acqua, l’aria, seppur ci sia distanza, dilaga ovunque il dolore. E non solo quello umano. “Citt citt ‘n’mmienz a chiazz” si dice da me ed è proprio quello ci siamo detti. Vedi i fiumi alla foce schiumare, arrossarsi e addensarsi, per tentare di liberarsi. E riversarsi nel mare. 
Solo che, quando lotti su ogni fronte, c’è da scegliere quale sacrificare. E quello, sì!, che di notte viene a tirarti i piedi! Oppure ti si siede sullo stomaco. 
Ho visto il film Lucania qualche mese fa e riflettevo sull’asprezza della vita deə protagonistə, un padre con la figlia in una terra di montagna. A un certo punto, durante il viaggio di fuga a piedi, dopo aver visto campi e alberi bruciati, secchi, contadini con naso e bocca coperti, il papà parla proprio di questo: dell’aver tenuto sempre la testa e la schiena china sul lavoro, sulla terra e che una volta alzatosi ha trovato il mondo cambiato. «Il mondo che ho conosciuto io è morto», dice. Invece si è trasformato, se guardiamo lateralmente, oppure (e credo vada lì l’accento della battuta) è il suo mondo a essere morto, in parte, e ne possiamo immaginare uno diverso. 
E anche qui c’è la musica – con Antonio Infantino, poeta e musicista di Tricarico a cui è dedicato il film – che trasforma, diventando climax della narrazione in una sorta di rito di passaggio per Lucia, la figlia. 

Ho visto bene cosa accade a Viggiano – ogni anno c’è un pullman organizzato che parte da Bernalda, come penso anche da altri paesi: un luogo “perfetto”, sempre tirato a nuovo, mentre sali trovi cespugli di piccole rose ai bordi della strada, i marciapiedi sono intatti, le fioriere perfette e che organizzazione se penso alla festa del mio paese – per non parlare del campo da calcio che la sera s’illumina a giorno ma resta vuoto – tanti i soldi che arrivano e che non si sa come spendere (pare che ogni anno rifacciano qualcosa, nonostante non ve ne sia bisogno: ché un paese svuotato, dove i parchi dei bimbi sono quasi come il primo giorno di installazione, come si usura?!). La connivenza tra sfruttamento e settore culturale mi deprime. Sono parecchi i festival, le iniziative nella nostra regione che hanno tra gli sponsor parte della triade (o quadriade?). Tra l’altro, una cosa che ho notato durante il covid è che la Basilicata è stata tra le poche regioni, se non l’unica, a non bloccare, ma continuare a finanziare borse di studio per l’alta formazione (e simili). Come ultimamente ha dichiarato qualcuno, non è più questione di consapevolezza… 

Con la speranza che stando in piazza s’inizi a gridare, e pure a ballare, 
ti abbraccio e ti ringrazio davvero tanto per questo dialogo, 
mariel 

Antonio

Cara Mariel, 

ti scrivo con il ritardo delle feste, sono ritornato da qualche giorno a Torino, ne approfitto per raccontartele. Nel mio paese ha nevicato, la Vigilia di Natale cadevano fiocconi di neve come non ne faceva da anni, ci ha lasciatə tutti in piazza incantatə. Dopo la neve è uscito un sole caldo e ci è sembrato di vivere quattro stagioni in sei giorni. In piazza, nei primi giorni dal mio arrivo, si cercavano le persone che ritornano per le feste, molte non hanno risposto all’appello, ritorna sempre meno gente, “ci sono ancora le stesse facce in questo paese” mi ha detto qualcuno al bar, era il 23 dicembre, le facce sarebbero dovute essere già nuove. Moltə amicə si sposano, e progettano viaggi di nozze lontanissimi, perché “bisogna capire che qui fuori c’è un mondo” mi ha detto un amico. Durante il pranzo di Natale mia madre e i miei zii hanno rievocato puntualmente i ricordi del terremoto dell’Ottanta, che ancora occupa il nostro immaginario, il nostro grande evento. Il giorno di Santo Stefano il paese si è riempito di giornalisti, un po’ perché la neve aveva fatto riaprire le due piccole piste da sci che stanno poco lontane dal centro abitato, un po’ perché, pensa tu lo scherzo incomprensibile, mancava l’acqua, e nevicava, durante i giorni più vivi della festa. Il giorno di Natale, dal mattino all’ora di pranzo, ho saputo di persone che hanno sciolto la neve per lavare le posate, per i giorni seguenti è andata spesso via a singhiozzi, e dalle prime ore della sera all’alba ancora oggi viene staccata. La rassegnazione con cui si è vissuto tutto è rinchiusa nella frase di un mio amico che ha detto parlando dei giornalisti: “ora che si sono interessati all’emergenza idrica venissero a interessarsi pure dell’emergenza cinghiali”. Il nostro paese è servito da sorgenti d’acqua autonome e non rientra tra i comuni della provincia di Potenza che in questi lunghi mesi sono in crisi idrica, ma raziona parte della sua acqua per dare un “contributo di solidarietà” e mandarla ai comuni in sofferenza. L’acquedotto lucano, gestito in parte da enti privati, e il governatore Bardi, nominato commissario straordinario per la gestione della crisi, governano in maniera estremamente confusa questo razionamento, comunicando a singhiozzi e interrompendo l’acqua senza preavvisi, molto spesso per ovviare a problemi causati da mancata manutenzione. Insomma, fanno un po’ che cazzo vogliono, e quindi la gente si infastidisce a essere solidale e l’ombra di nuove crepe e nuove fratture. Qualcuno ha iniziato a chiedere di non pagare più le bollette, ma poi l’acqua è tornata, molta gente è andata via (in Svizzera, in Francia, negli Stati Uniti, in Spagna prima ancora che al nord), la quotidianità è ripartita, le strade, vuote, hanno risucchiato il silenzio e diventa difficile pure parlare, che non si sa con chi. La vita di chi resta è davvero dura, lo è stato per me per qualche giorno, lo sento nei racconti delle persone a me vicine, della fatica che si fa a stare di fronte al vuoto, “esci di casa perché non c’è nessuno, vai fuori e non c’è nessuno”. Ho raggiunto il mio paese durante queste feste con la solita nostalgia che si accumula durante mesi di assenza, ma, come in maniera sempre più viva negli ultimi anni, ho vissuto i giorni di permanenza con una nostalgia più pungente, le vie vuote anche nei giorni di festa condannano il mio paese a essere un luogo fatto principalmente di ricordi. 

Ma fra un po’ è di nuovo festa, il 17 gennaio si festeggia Sant’Antuono Abate, il santo del deserto, protettore degli animali. Nel mio paese si organizza una corsa intorno al centro storico, di muli e asini che da sempre, e ancora oggi, aiutano i mulattieri del paese a trasportare la legna che raccolgono nei boschi, quel giorno gli animali si tirano a festa, con redini colorate e le criniere curate. La notte prima, il 16, si fa un grande falò, a benedizione del nuovo anno che arriva, il fuoco resta sempre a raccoglierci, da tempo immemore ci ricorda come si brucia. 

Ho riletto il nostro scambio di e-mail prima di rispondere, sono davvero contento di aver potuto parlare con te così intimamente, ti ringrazio tanto per l’accoglienza, per la delicatezza dell’editing, per la premura. Non ce l’abbiamo fatta questo Natale ma ci rivedremo. 

Ti mando un grande abbraccio 
Antonio 


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