di Rossella Caleca
copertina di Claudio Parentela
Stupida, stupida. Sapevo che sarei caduta. Il mio scarso equilibrio, i miei piedi cavi. E io me ne vado da sola nel bosco, con un bastone che non è servito a niente. Come farò a tornare alla fattoria? Qualcuno prima o poi si accorgerà della mia assenza, ma chissà quando. E il cellulare qui non serve. Tutto per osservare un albero ferito.
Solo mezz’ora fa, stavo scendendo, passo dopo passo, sul sentiero che si inoltra nella macchia, e sentivo la terra attraverso le scarpe. Non solo il pendio, gli sterpi, i sassi: proprio la terra, come si sfarina, come si compatta. La sua diversa consistenza, là dove è cenere. Perché il bosco è bruciato; non tutto, ma a brani, a fogli strappati, lingue di suolo devastato in mezzo a macchie ancora intatte. L’incendio ha consumato alcune zone e ne ha risparmiate altre; il contrasto tra distruzione e resistenza è casuale, senza ragione. La terra tiene insieme adesso colori estremi, una griglia di braccia nere raccoglie il paesaggio sullo sfondo, ancora verde; per arrivarci bisogna attraversare il nero, sentire il suo odore. E non posso trattenermi dal toccare passando le croste arse dei tronchi che erano querce, lecci, lentischi; gesti leggeri e insensati. Più in basso rispetto al sentiero vedo un albero spaccato, in bilico tra la resa e lo sforzo di ritrovare una stilla di linfa. Sembra un crocefisso storto, due rami come braccia aperte ai lati di un corpo-tronco che pende all’indietro. Voglio arrivarci: devo lasciare il sentiero e scendere, attraverso un lago di foglie secche Mi accorgo che in mezzo è già spuntata una felce di un verde liscio e definitivo; mi distraggo a guardarla e lì scivolo sulle foglie e rotolo fino in fondo al declivio, ai piedi dell’albero spezzato. Faccio per alzarmi, nonostante le fitte alla caviglia, e mi accorgo che non riesco più ad appoggiare il piede, a camminare. Ecco, è accaduto così.
Ora lo sento, contro il mio fianco. Mi piacerebbe capire se è vivo. Sento il suo odore: oltre il bruciato, mi sembra di percepire la resina. Forse era un pino. Mi distrae, vicino, l’odore della nepitella, e quello di altre erbe che non so e vorrei conoscere. Le felci hanno un odore? Forse è lo stordimento, devo aver battuto la testa, ma mi sembra che questo tronco mi chiami, dal suo midollo indifeso. Come una voce senza suono. E dice di me. Dice che mi somiglia. Un tronco spezzato?
Quando sono uscita dalla mia stanza alla fattoria, stamattina, mi sentivo addosso una grande stanchezza. E ancora un riverbero di dolore alla schiena, e sotto lo sterno, dove ancora ho i lividi. Ora, nonostante la caduta, mi sembra di assorbire energia dal tronco che mi preme sul fianco. Il suo midollo nudo mi appartiene, è vero. Io ho una qualità elegante e discreta: so esporre organi molli – cuore, fegato, visceri – e urlanti, eppure non farli vedere nè sentire. Sono brava, a non disturbare.
Sappiamo anche muoverci senza fare rumore. Sappiamo cosa calpestare, e cosa no. Cosa masticare, e cosa no. Sappiamo tornare, non abbiamo bisogno di confini. Loro, ne hanno bisogno. Per come si muovono, facilmente si perdono. Qualcuno si è perduto qui vicino.
Non riesco ad alzarmi, eppure una sensazione di benessere ha preso il posto dell’umore amaro di stamattina, come se avessi lasciato, là sul letto, le spoglie di un altro corpo, usato e logoro, riprendendo il mio, quello vero. Quell’altro, il vecchio corpo, trattiene i segni dei colpi dati dove non si vede, e sa come trattenere il fiato spezzato, e come accasciarsi senza fare rumore; conosce anche i baci del ritorno, su per il petto e le braccia, sui segni neri e là dove pulsano le vene, e poi di nuovo dolore, ancora ritorni… è immobile, lontano, adesso; e qui percepisco attraverso la pelle altri movimenti, come se una vacanza della mente avesse spalancato le porte dei sensi. Il suolo, le foglie secche, i germogli nuovi, ciascuno si muove a suo modo; e il volo degli insetti e il frullo delle ali degli uccelli, i coleotteri che tracciano dritta la loro strada e gli schiocchi e i fruscii dei ramarri; sento la materia vivente come un groviglio di cui anch’io sono parte, e il suo moto è una spinta uguale e contraria alla paura.
Eccolo, il corpo umano. Ne sentivo l’odore da un po’. Quel loro odore disgustoso. Non è il contatto che ci dà fastidio, non è il loro peso, solo l’odore. Certo dipende da quello che mangiano. Volto il muso di lato, agito le froge, niente da fare, persiste. Però non voglio allontanarmi. Questo corpo umano è strano. Raramente ho visto immobili gli umani, anche questo corpo non è fermo del tutto. Il suo respiro mi attraversa, mi fa cogliere una vibrazione. Ma non si rialza, a volte anche per loro è difficile. Vorrei aiutarlo. Batto lo zoccolo al suolo. I suoi occhi si aprono.
È apparso tra gli alberi come un fantasma, bianco e fumoso, come un annuncio di apocalisse. Ma ha lo sguardo tranquillo, come chi è nella sua terra, nel mondo a cui appartiene. Sta, senza oscillazioni, tranne quella lieve della criniera. Dev’essere uno di quelli della fattoria. Mi guarda con iridi scure e attente. Quando inizia a muoversi, lo fa con la forza contenuta di un lento corso d’acqua. In un attimo mi è accanto.
Mi lascio afferrare la criniera da quelle mani maldestre. Gli umani le usano di solito così male, ma di alcuni mi piacciono le carezze. Quasi sempre, però, hanno una direzione; anche le loro gambe, credono sempre di sapere dove andare. Non capiscono i nostri movimenti, cercano di guidarli, non sanno che non saremo mai domati del tutto: perchè non abbiamo bisogno di una direzione.
Sto salendo a fatica sul tronco spezzato. Striscio, aggrappandomi, cercando di arrivare più in alto, sopra al corpo animale, grande e vibrante, che mi è giunto vicino. Ci riesco!
Avrei avuto paura, in altre circostanze. Ma adesso è una fortuna essere riuscita a montare sul cavallo, è una gioia che sia così docile, che si lasci stringere, che si muova dolcemente senza esitazioni. Mi porterà alla fattoria piano piano, mi curerò la caviglia slogata. Ma non voglio dimenticare quello che ho vissuto qui.
Vado lentamente, all’inizio. Ma non risalgo il pendio verso il sentiero. Volto la testa, la sollevo, percepisco il suo stupore in una stretta alla criniera, una diversa qualità del suo odore, forse sorpresa e insieme paura. E poi sento allentare la presa in una nuova serenità. Sto scendendo, ora, rapido, nel folto.
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La percezione sensoriale filtrata dallo stato d’animo e notevole permea il lettore così il contrasto tra una natura ferita e una natura che segue l’impulso vitale. Lettura molto eterea e coinvolgente.