Volumi

di Aurora Dell’Oro
Copertina: Senza titolo – Chiara Casetta

I più anziani fra noi, hanno trent’anni:
ci rimane dunque almeno un decennio,
per compier l’opera nostra.

(F.T. Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo,
«Le Figaro», 20 febbraio 1909)

Marco ha traslocato cinque mesi fa, quando settembre era ancora lontano. Prima di firmare il contratto di locazione, si è accertato che il parcheggio del suo nuovo condominio fosse abbastanza spazioso. Lo è. Contiene venti posti auto. Per soli residenti, multa ai contravventori, ammonisce il cartello. I sensi della legge giacciono prescrittivi ai piedi della «P», bianca su fondo blu. L’area è delimitata, a destra e a sinistra, da una fila di acacie. Precisamente, si contano quaranta acacie a tre metri di distanza l’una dall’altra sul lato destro e altrettante a tre metri e cinque centimetri sul lato sinistro. I cinque centimetri di scarto sono la traccia residuale della trascuratezza di N., un tempo cameriere di un noto ristorante, nonché principale responsabile della reazione allergica di S., operaio, il quale aveva trascorso in bagno tutta la notte antecedente la collocazione dei fusti. La stanchezza gli aveva impedito di esercitare la precisione millimetrica che aveva riservato al lato destro, così S. si sarebbe giustificato.
Parallelo al lato sinistro si snoda il marciapiede, una superficie ben asfaltata larga due metri e mezzo. Offre al passante graziose amenità, tra cui panchine sessantottine, sopravvissute a grandine e ragazzini grafomani, e cestini regolarmente svuotati dagli addetti del Servizio Strade, nei giorni e nelle fasce orarie approvate dal Consiglio comunale. Il suddetto marciapiede consente inoltre di spostarsi dalla zona est alla zona ovest della città, giacché affianca il viale, fu decumano, che taglia la pancia del centro storico.

L’intero quartiere era stato scelto per un intervento di riqualificazione alla fine degli anni Ottanta. Lo scopo era costruire unità residenziali, sobrie ma eleganti, separate da spazi verdi per bambini e anziani. Si auspicava di instaurare in tal modo una certa armonia, in una parte della città nota per avere collezionato, nel corso del tempo, stili difformi e, in alcuni casi, confliggenti. Un occhio sensibile, infatti, non poteva tollerare che le forme barocche della Chiesa consacrata a Santa Lucia fossero oltraggiate quotidianamente dalla tetragona pesantezza di edifici anni Trenta, né riusciva a comprendere la scelta di aprire vetrine stroboscopiche di brand internazionali sulle facciate di palazzi ottocenteschi. Le intenzioni, insomma, erano onorevoli. Tuttavia, gli sforzi dei pochi erano stati dispersi dallo scarso zelo dei più, i quali si erano avvalsi della complicità di una burocrazia farraginosa.

Le acacie, però, erano state allocate, una cornice orfana di tela. Il terreno in cui sarebbero state piantate non aveva suscitato l’interesse di nessun’impresa, perciò la giunta non temeva che gliene venissero dei grattacapi; aveva dato il suo beneplacito con il cuore in pace. Pertanto gli alberi, unici abitanti di una città che avrebbe potuto essere e non era mai stata, diffondevano ogni primavera un profumo inebriante, coprendo il puzzo di catrame e di gas che impregnava le sere già calde di aprile. In autunno, invece, le loro chiome coprivano d’oro la strada percorsa dai bambini della scuola elementare “G. Carducci”, un brutto edificio dagli spigoli fascisti prospiciente il condominio di Marco.

Marco aveva scelto l’appartamento al quarto piano, benché non fosse il migliore tra quelli visionati durante l’anno che si era concesso per cercare casa. Le acacie avevano agito da innesco: voleva che le sue finestre ne fossero piene. Solo così le notti insonni di suo padre, Franco Alberti, non sarebbero state trascorse invano. Ogni sera l’ingegnere gli aveva mostrato la schiena e la nuca marezzata di grigio, chino sul piano reclinato del suo studio, la lampada accesa sopra la testa. Gli lanciava una buona notte sfilacciata come un panno lavato troppe volte, mentre la madre, dal soggiorno, gli ripeteva che era ora di infilarsi nel letto. Per mesi e mesi l’ingegner Alberti si era lambiccato il cervello, per riuscire a estrarne un’idea che fruttasse praticità e estetica soddisfazione. Per sua fortuna, non aveva avuto modo di scoprire che non sarebbe mai stata realizzata. Era morto quindici giorni dopo avere terminato il progetto. Un infarto.
Marco aveva metabolizzato il lutto abbastanza in fretta, nonostante fosse suo padre; lo conosceva poco, chiuso com’era nei doveri della professione. Eppure, gli era rimasta nel sangue l’uggia per quel piano inevaso. Si sentiva defraudato della sua eredità. Molte volte, passeggiando, aveva cercato di sovrapporre a quello che vedeva l’immagine dell’altra città, come l’aveva prefigurata la mente geniale dell’ingegner Alberti. Gli sembrava di stare a cavalcioni sul confine tra due dimensioni, la reale, caotica e insensata, e quella rimasta sulla carta, ordinata e silenziosa.

Aveva chiamato l’agente immobiliare mezz’ora dopo averlo congedato. Quest’ultimo, un giovanotto il cui bell’aspetto era guastato da un difetto di pronuncia, non poteva credere alle sue orecchie. Mai aveva concluso un affare con una tale rapidità. Marco aveva terminato la telefonata assicurando più volte che sarebbe andato in agenzia appena gli fosse stato possibile, anche se già temeva di essere stato avventato. Per farsi coraggio si ripeteva che aveva più di trent’anni e il fatto che non ci fosse ancora un luogo che potesse dire suo, inalienabile come un diritto di nascita, lo metteva a disagio. Oltretutto, la donna con cui intendeva condividerlo sosteneva la sua scelta. Stava con lei da un po’. Da più tempo di quanto fosse stato con le altre.

Questo proprio non sapeva spiegarselo. Aveva avuto una giovinezza sentimentalmente turbolenta e, pur non negando di essersi divertito, era consapevole che avrebbe potuto risparmiarsi parecchie scocciature, alcune delle quali gli avevano procurato delle brighe notevoli. C’erano state ragazze, poche, che l’avevano fatto innamorare davvero e ogni volta che accadeva, credeva entusiasta di avere finalmente trovato la quadratura del cerchio: ecco, ci siamo, si diceva trionfante, l’altra metà dell’anima, l’Uno platonico. A quel punto, un dettaglio banale su cui non si era soffermato, un episodio all’apparenza insignificante, gli faceva sentire, cocente, la delusione nei confronti di un essere che, fino a qualche istante prima, aveva idolatrato come una beatrice. Oppure succedeva che fosse lui a capitolare. Perdeva improvvisamente interesse, nicchiava e agli appuntamenti era sempre distratto. Non lo faceva di proposito. Lei all’inizio resisteva, poi si disperava, alla fine s’arrabbiava e, alla fine, faceva i bagagli. Aveva avuto i suoi periodi migliori tra una storia e l’altra. Si sentiva meravigliosamente bene, così rilassato, da solo con se stesso. Malgrado ciò, si ostinava a cercare nuovi legami, perché non avrebbe sopportato l’idea di essere considerato uno che non piaceva più alle donne.

Con Anna, invece, era stato diverso. L’aveva conosciuta alla festa di un amico in comune, Marcello. Erano entrambi fuori contesto: non avevano con l’ospite abbastanza confidenza da sentirsi a loro agio in una villa enorme e piena di gente. L’invito di Marcello era giunto così inaspettato che, in seguito, avrebbero ammesso che era bastato questo semplice evento per sconvolgere la logica cristallina alla quale le loro vite avevano obbedito fino a quel momento. In cuor loro avevano benedetto il disordine di cui l’amico si era fatto portatore.

Ufficiale? gli chiedevano quelli del suo giro, sornioni.
Ufficiale, rispondeva Marco, serissimo.

Anna lo aveva ammaliato. Non che di solito non fosse sensibile al fascino femminile, tutt’altro, ma con gli anni era diventato esigente e ormai non gli capitava quasi più di sentirsi conquistato così facilmente da qualcuno. Di Anna, invece, era addirittura entusiasta. Eppure non era una bellezza. All’apparenza era una persona del tutto ordinaria: statura media, corporatura nella norma, capelli e occhi castani. Nessun segno particolare. Tuttavia c’erano alcuni aspetti di lei, alcuni dettagli, che non aveva trovato in nessun’altra e a cui lui dava un’importanza straordinaria. La forma delle orecchie, leggermente a punta; le dita, corte e paffute, ma non tozze; l’ombra azzurrina sotto agli occhi, nei giorni in cui aveva il ciclo, e che le dava un’aria così indifesa che lui avrebbe voluto impedirle di uscire di casa.
Per farla breve, c’era cascato intero, gli ripetevano gli amici. Lui stesso se ne era stupito: non avrebbe mai pensato che potesse diventare una relazione così solida da convincerlo a comprare casa insieme. Invece, eccolo lì, di rientro da una giornata di lavoro, il cappotto sul braccio e le chiavi in mano, nel suo appartamento di tre locali, più bagno, più terrazzo, con esposizione a sud.

È soddisfatto di come hanno portato a termine il trasloco, senza chiedere aiuto a nessuno, loro due soli. È stato piacevole, soprattutto quando di sera si sdraiavano sul nudo materasso, in mezzo agli scatoloni ancora da aprire e la polvere nell’aria, sospesa nei coni di luce proiettati dalle lampadine. Giocavano a immaginare come sarebbe cambiata la stanza nel corso di un anno. Quasi senza accorgersene, inauguravano la stagione dei riti, tracciavano circonferenze che lasciavano aperte, sicuri che avrebbero saputo richiuderle al momento giusto. Volevano scommettere sulla loro durata, ma senza addossarsi il peso di una promessa. Anna vedeva piante negli angoli e nuovi quadri alle pareti, Marco un giradischi usato e una teca per i liquori. Non osavano andare oltre, lasciando che il non detto si condensasse in vapore ai loro piedi. Lo disperdevano ridendo e poi, per non cadere nella tentazione di crederci troppo, facevano l’amore, facevano finta di dimenticare.

La voce di Anna che lo saluta dalla cucina gli scioglie pensiero e muscoli. Gli suggerisce i gesti da fare, appendere il cappotto, togliersi le scarpe, lavarsi le mani. Una torta è nel forno, sul tavolo c’è la pastasciutta. La sera è iridescente, nel loro conforto domestico. Si raccontano le ore.

Oggi al lavoro mi sono annoiata, dice lei.
Ah sì, risponde Marco, da me è arrivato uno nuovo, trasferito dall’ufficio di P.
E come ti sembra?
Non male, credo. È torta alle mele?

È un discorso in codice. Non c’è nessuno che li possa sentire, ma sanno che, se dessero corpo alle parole che hanno mature, qualcosa potrebbe offendersi. È un segreto: lo trattengono, anche se lo sentono formicolare nel naso, perché se pronunciassero ad alta voce il suo nome i muri s’incrinerebbero, seppellendoli.

Mentre cenano, rintuzzano con gli occhi i dolori dell’altro. L’invito a mangiare un altro boccone,
ricordati di non lasciare niente nel piatto,
è un punto di sutura sulle ferite che Anna riapre sul palcoscenico di un’infanzia non troppo felice.
Guarda che hai qualcosa sul mento,
e il senso di colpa, fastidioso come il contatto con un insetto, è portato via dal tovagliolo.

Marco e Anna sono due volumi complessi. Lui sente i suoi vertici fragili, si spostano come i lati di un cubo di Rubik. Ogni notte, prima di addormentarsi, chiama all’appello le sue personalità; le conosce tutte, una per una, tuttavia gli manca la visione d’insieme. Teme di essere una chimera. Anna sorride, lo esclude, fa intuire, mentre gli porge la forchetta del dolce. La sintesi è sua.

Mi passi l’acqua per favore, chiede,

Marco allunga la caraffa evitando le punte del cuore di lei. È un icosaedro stellato. Aveva intravisto il suo baluginio da pulsar sotto la stoffa della vestaglia, una notte d’estate. La mattina dopo ne aveva cercato il nome su Internet.
Si ringraziano. Quella sera sono una coppia con un mutuo da pagare e una verità da disinnescare. In qualche modo, hanno preso il loro corredo genetico e lo hanno manipolato. Anna ci ha ricamato sopra le iniziali, come le nonne le lenzuola, lui ci ha messo dei marcatori, per potersi riconoscere. Sono i primi di una nuova specie, affratellata alle acacie dell’ingegner Alberti, al legno graffito delle panchine, ai cinque centimetri per sbaglio. Si raccolgono nelle loro conversazioni piane, tenendosi allacciati i polsi, perché avvertono la minaccia.

Si sono accorti che, da quando il mondo ha cominciato a morire, settembre non è più lo stesso. Le cose rimangono spalancate senza spine, costrette a mostrare il loro nudo ventre a un cielo avvelenato, che ha messo al bando il pudore e interdetto il riserbo. E allora loro si complicano. Marco ha piegato i ricordi sulle devianze dei vent’anni. Anna cuce le palpebre agli occhi che le hanno suggerito, per anni, cosa guardare e cosa ignorare. Li costringe a chiudersi, ora non le scrutano più dentro. Insieme fingono, s’arroccano, dissimulano la difesa. Sono gli strateghi di una nuova geometria.

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