Testo: Stella Poli
Copertina: Julio Armenante
Le sedioline sono di formica arancione. Sembrano sedioline da stadio, slavate progressivamente dalle intemperie. Al massimo, da cinema all’aperto, non da sala d’aspetto. Sono proprio incongrue, come sedioline da sala d’aspetto.
Vorrei dirtelo, vorrei dirti non ci avevo mai pensato, prima di portartici, mi fai pensare a delle cose tangenziali, mi rendi viscoso tutto quello spazio goniometrico delle didascalie, angoli interni e usuali, in cui impiglio dei pensieri che, non li dico, ma è evidente che sono pensieri tuoi. Come se filtrassi qui, come se fossi poroso e tu sotterranea. Non che ti capisca sempre, ma in alcuni momenti mi sei evidente al calor bianco. Mi abbacino del nostro assomigliare. Sposto lo sguardo, quando succede. Giocoforza, mi diresti, o forse non lo diresti.
Sotto ci sono le asciugatrici, sopra le lavatrici. Metallo lucido, solo qualche ditata. La tastierina che le comanda tutte sta a sinistra. Vicino all’entrata hanno messo anche una macchinetta del caffè. Hanno portato ciclicamente delle riviste, ma ciclicamente sono sparite.
Sono quasi quindici anni che non abbiamo la lavatrice. Mia madre, che sta sul nostro pianerottolo, ce l’ha. E quindi? All’inizio ci faceva ridere, ci pareva una forma di resistenza alla normalità, un inciampo, una deroga alle radici. Donchisciottesca, quasi. Sì, devo esserle sembrato un personalissimo mulino a vento, prima di sposarmi. Ora non la fa ridere. Porta le sue giacche in una lavanderia a vapore. Devo aver sbagliato un programma, qualche volta. O forse le giacche kenzo non si lavano a botte di dieci chili, in ogni caso.
Ci sono due ragazze sudamericane. Forse sono madre e figlia, non si capisce. Hanno le guance piene, qualcosa di indio. Mentre tiro fuori le cose da lavare ti chiedo, finalmente, che ci fai qui. Mi cadono delle mutande a pois, nel frattempo, sotto la sediolina. Mi chino, non mi pare di sentire risposta. Poi mi rialzo e ti guardo. Hai aperto lo zaino, tiri fuori dei jeans strappati, delle maglie appallottolate. Incroci il mio sguardo con le sopracciglia un po’ alzate.
Ci scappa, velocissimo, da ridere. Ti allungo il detersivo, nei duecento chilometri di treno te ne devi essere dimenticata, immagino. Versi troppo veloce e trabocca, ma ti volti solo quando dico non dovresti, starci, qui.
Fai sì con la testa e ti mordi un labbro. Lo so, dici con lo sguardo basso e un po’ distante di chi lo sa, sì. È che non si riesce a parlarti. È – cerchi una parola muovendo minacciosa una mano per aria – non lo so, è impossibile, disperante, parlarti.
Ognuno ha richiuso il proprio sportello. Il tuo arriva all’altezza dello sguardo. Guardi il mondo da un oblò. O dentro. Insomma. Ora mi tocca dire quello che si dice nei film americani. E di che, dico, come se ti irridessi, ragazzetta, come due palmi alzati, a chiamarmene fuori. Inspiri, espiri forte, dalle narici, come uno scoppio, come i tori nei fumetti. Cerchi due euro in fondo allo zaino, poi vai alla tastierina e metti tutte le monete. Quattro, ti dico. Tu non capisci subito, poi lo schiacci, la lavatrice parte. Ma non torni vicino a me, perché piangi, silenziosamente, e se pure sei partita forse stamattina pensando proprio di urlare, esigere, lacrimare, ora non vuoi farti vedere, piangere, da me.