di Marco Renzi
Copertina di Sante Cutecchia
Figlioli grulli, chi li fa se li trastulli.
Così dissero al mi’ babbo quando io facevo l’asilo. Avevo quattro anni e ancora mi cacavo addosso. La maestra con me ci aveva messo tutta la volontà del mondo, ma io niente: piangevo e ripiangevo, e soprattutto seguitavo a pisciarmi e a smerdarmi nelle mutande.
Non so, forse la maestra Adria non ci mise il massimo della pazienza, e fu credo un tantino aggressiva a rivolgersi in quel modo al babbo, che infatti si rivoltò male.
Grulla sarà lei, disse, e mi riportò a casa. Ma se n’era accorto anche lui che qualcosa non andava; soltanto che, pover’uomo, non ce la faceva ad ammetterlo.
A casa continuai a rifiutarmi di correre verso il vasino, anche se alla fine imparai: avevo sei anni, e quel giorno fu tutta una festa.
Pochi mesi più tardi cominciarono le scuole, e pure lì, trascorso poco tempo, il maestro mandò a chiamare i miei genitori.
Questo bambino ha dei problemi, disse, lo vedo parecchio disattento, e ancora non ha imparato nulla di quello che s’è fatto in classe.
Ma non sarà lei che non ha spiegato abbastanza bene?, gli rispose la mi’ mamma.
È sicuro di essere un maestro?, le fece eco il babbo.
Il maestro rimase in silenzio, e umilmente promise loro di riprovarci, ma fu tutto inutile: non ero tarato per la scuola; ero sempre troppo indietro o troppo avanti. Imparai le tabelline a memoria fino a quella del settantadue, però leggere non mi riusciva. Sicché i miei mi ritirarono dalle elementari e mi presero un precettore, il signor Basilichi, un uomo grosso, pelato e dallo sguardo gentile. Fu lui, a furia d’insistere, a insegnarmi a leggere e a scrivere. Debbo essere sincero: benché a modo mio, me la cavavo. È vero, a otto anni scrivevo con fatica le mie belle frasette, e purtuttavia conoscevo dalla prima all’ultima parola Le odi del Parini.
Non ho più nulla da insegnare a questo ragazzino, disse una sera il signor Basilichi ai miei.
Ah, ottimo, fece il mi’ babbo, anche a Leopardi dissero la stessa cosa.
Il precettore declinò il viso in un risolino; senza dir nulla si diresse verso la porta e ci salutò con calore.
Avevo dodici anni, e da lì in avanti dovetti fare con quello che sapevo; e sapevo tanto, a dire il vero, ma non ero capace di mettere insieme le cose. Ormai se n’erano resi conto anche il babbo e la mamma: avrei dovuto fare le scuole medie e poi le superiori, e loro sapevano benissimo che non mi ci avrebbero mai mandato.
Passai lunghi periodi chiuso in casa, senza vedere nessuno. La mamma mi tappezzò la camera con la carta da parati.
Disegna e scrivi pure quanto ti pare, mi disse.
E io lo feci: riempii di girigogoli, di lettere, di parole e di disegni tutta la stanza, e nel volgere di un paio d’anni le pareti erano divenute un magma indefinito di scarabocchi e chissà che altro.
Compiuti i sedici anni, fui definitivamente consapevole di non essere come gli altri. Desideravo uscire e al tempo stesso ne ero intimorito.
Ripresi a piangere come quando ero piccino, e non capivo nemmeno il perché. Piangevo e basta. I miei allora mi portarono da un dottore, che mi disse che ero depresso. Mi diede delle medicine che però non mi fecero effetto, anzi peggiorarono la situazione: non solo piangevo a fontana, ma urlavo e spaccavo tutto quello che mi si parava dinanzi.
Fu allora che il dottore decise di rinchiudermi nella Torre. Il babbo al principio non era favorevole; alla fine però si fece convincere dalla mamma: era la cosa giusta da fare.
Dentro la Torre ero solo, isolato dal mondo com’ero prima ma senza il babbo e la mamma. Ogni tanto veniva una persona – mai capito se fosse maschio o femmina – a portarmi da mangiare. Per il resto, dovevo cavarmela da me.
Per fortuna trovai Il libro della memoria di Aldemiro Massotti, e per fortuna ero divenuto assai più bravo nella lettura.
Era la storia di uno che era stato nella Torre prima di me. Mentre lo leggevo mi sembrava di aver vissuto la sua stessa vita, e non mi era mai successo con nessun libro, con nessun film, con nulla in generale.
Lessi e rilessi il libro del Massotti non so quante volte; così tante da credere di essere io stesso l’autore.
Un giorno riuscii a farmi portare un quaderno e una penna dalla Guardia – l’unica persona sempre lì presente, un nano sordomuto e dal viso angelico – cominciai a scrivere anch’io, e nel mettere in fila una parola dietro l’altra non compresi se stessi riscrivendo pari pari le memorie di Aldemiro oppure le mie.
Sono passati dieci anni da quando ho messo piede nella Torre. Il primo passo credo di averlo fatto quando all’asilo me la feci addosso per la prima volta; il secondo quando smisi di andare alle elementari; il terzo quando il signor Basilichi se ne andò via.
Ho scritto tutte queste cose nel mio libro, e continuo a scrivere ancora nel silenzio claustrale della Torre; un silenzio rotto di tanto in tanto solo da alcuni sibili, dai passetti della Guardia e dal rumore della penna sui fogli, dove le nuove parole si sono sovrapposte alle vecchie, e già le vecchie erano state a loro volta scritte sopra ad altre ancor più antiche.
Non so quanto resisterò qui dentro, ma è pur vero che comincio a starci bene. Non ho più alcuna voglia di uscire, né voglio conoscere le persone: perché, come scrive Aldemiro Massotti, le persone sono cattive, e anch’io l’ho scritto più volte.
Le persone sono cattive, è vero, altrimenti io non sarei qua dentro, e nondimeno mi sento un privilegiato: posso leggere Il libro della memoria tutte le volte che voglio e scriverne uno nuovo per il prossimo che verrà.
Bello davvero
Bellissimo. Strappa un sorriso alla fine come ogni buon racconto dovrebbe fare.