di Vargas
Copertina di Wojtek Edizioni
È di moda, di recente, che chi scrive si qualifichi in qualche modo presso i lettori ed è quindi mia premura anticipare il sentimento di singolare acrimonia che nutro per l’opera lirica, che mi renderebbe l’individuo meno indicato a trattare di È tardi, di Eduardo Savarese (Wojtek). Ciò però, ridurrebbe il libro a un saggio per uso esclusivo di un pubblico melomane, a torto.
È tardi intesse un discorso sul concetto di struggente attesa, strettamente collegato alla figura femminile, ripercorrendo la storia di sette eroine del teatro operistico: Violetta (La traviata), Cho Cho San (Madama Butterfly), Carmen (Carmen), La Contessa (Le nozze di Figaro), Lucia (Lucia di Lammermoor), Elektra (Elektra) e Norma (Norma).
La narrazione è veicolata dal racconto piuttosto lineare delle vicende delle varie protagoniste, che in un punto o l’altro della vita di Savarese sono risultate chiavi di lettura della propria vicenda personale, alternandola a episodi autobiografici e digressioni di contorno in prosa colta ed elegante.
La sinossi, insomma.
Se non fosse che leggendolo l’impressione che se ne ricava sia diversa.
Le eroine dell’opera sono ancora lì, sia chiaro; la profonda conoscenza di una forma d’arte vissuta e amata è palese, tanto da ingenerare in me lo stesso fastidio sperimentato durante la visione degli originali, ma non c’è un discorso.
O meglio, ce n’è solo un pezzo.
Non è raro che chiedendo a uno scrittore perché tratti un determinato argomento, altro da sé, questi risponda che lo fa per capirlo davvero. Scrivere rimette a posto i pensieri e rimpalla a noi stessi il ruolo di contestazione critica normalmente rivestito da un interlocutore.
L’impressione è che È tardi sia una porzione del monologo interiore di Savarese che ragiona su qualcosa di immane e troppo complesso da riportare in un solo posto. Stando al buon Ferruccio Mazzanti, alla luce di lavori precedenti, quel qualcosa potrebbe essere il Tempo.
Quest’ottica, che credo elevi il libro a qualcosa più di una lettura piacevole, farebbe rientrare il testo in una categoria retorica con cui sono sicuro che l’autore sia familiare: quella del paraustiello.
Dicesi paraustiello in napoletano, una forma di discorso che ha poco dell’argomentativo, ma che utilizza esempi o ragionamenti assurdi, insensati o infondati per provare un punto.
Spero di poter pacificamente affermare nel 2021 che è bene nessuno impari come gestire le proprie vite dall’opera lirica, le cui storie hanno visibilmente almeno un centinaio d’anni, con tutto ciò che ne consegue. L’arte però di bello ha questo: ognuno ci vede quello che vuole e Savarese si è portato via dal teatro ciò che risuonava con la sua visione della vita, proponendolo in È tardi come materiale interpretativo per una determinata porzione del misterioso discorso complessivo.
La passione viscerale per il teatro d’opera che pregna le pagine è in sostanza la gratitudine per una forma d’arte che ha spiegato a Savarese cosa ne pensa delle cose, come superare determinate impasse esistenziali o restituire significato a momenti che sembravano non averne. Tanto che nel finale i due elementi, quello dell’Opera fuori di sé e dell’in sé autobiografico, si fondono in una sequenza (l’unica di aperta fiction del volume) dove i personaggi in scena a teatro sono quelli della vita dell’autore, alle cui domande rispondono citandone le arie preferite.
Ed è proprio qui che viene alla luce l’aspetto del libro come frammento di un più ampio discorso incompiuto: quando Savarese interroga una delle apparizioni fantasmatiche nel teatro sull’ombra lunga dell’attesa. Implora di sapere se tutto quel temporeggiare sia utile, se in fondo non sia troppo tardi.
E come gli risponde il fantasma ve lo leggete da soli. Che io detesto quando mi raccontano i film.