di Michele Frisia
Copertina di Veronica la Greca – Piccionazzi
Mi ero innamorato di Allegra, credo, al primo anno delle superiori. A quel tempo aveva, mi pare, i capelli mossi. Che si erano chetati con gli anni e le stavano oggi ancora meglio, spaghettini fini, dritti come fili di ragno, di un castano anonimo ma lucente. Una chioma che calava verso il basso in modo grave, che fasciava così bene zigomi e mento, lineamenti che rifiutavano di farsi notare se non dagli osservatori più attenti, quelli in grado di penetrare al di là degli occhiali da vista, della frangia troppo netta, dei vestiti da poco prezzo; quelli che avrebbero apprezzato le qualità magari poco appariscenti di una donna che, non per questo, risultava meno incisiva.
Ero stato innamorato di Allegra che però non mi aveva, mai, considerato. Non avevo, nemmeno una volta, colto nei suoi occhi nulla più che il riflesso di un amico. E andava bene così, la dimenticai. Finché, molti anni dopo, la sua amica Giada, che avevo preso a frequentare per motivi di lavoro, mi raccontò un dettaglio che finì per cambiare tutto. Sapevo infatti che Allegra si era sposata ma non mi ero mai soffermato a riflettere sull’andamento della sua vita matrimoniale. Anche perché, da parte mia, sarebbe stato parecchio difficoltoso giudicare; sempre così distante da ogni genere di storia fissa, inaccessibile alla convivenza, figuriamoci allo sposalizio. Ma avevo sbagliato perché Giada, quel giorno, mi aprì gli occhi. Si fa cagare addosso, disse. In che senso si fa cagare addosso? chiesi io. Giada sbuffò in quella maniera sguaiata che la caratterizza perfino in una sala affollata. In che senso chiede lui, ma svegliati, il marito di Allegra la fa sdraiare sul pavimento, nuda, e poi le caga sulla pancia. Ma, chiesi io, lei poi come si pulisce? E Giada intanto mi fissava con lo stesso sguardo che sfoggia, quando ormai ha deciso, con i dipendenti che vuole licenziare. E non è la cosa peggiore, aveva aggiunto lei. E qual è la cosa peggiore?, avevo chiesto io. La cosa peggiore, aveva detto lei, è che il marito la costringe a prendere la purga. E perché la costringe a prendere la purga? avevo chiesto io. E Giada si era passata la mano sulla faccia. Perché, disse, vuole che anche Allegra lo faccia, che anche lei gli caghi addosso, sulla pancia, o sul petto, ma principalmente sulla pancia. E questa cosa, disse Giada con serietà, è quella che la distrugge, perché Allegra si farebbe cagare addosso in continuazione, senza problemi, quella pratica non la tocca più di tanto. Allegra, continuò Giada, mi ha confidato che si sdraia e si rilassa, come fosse un’incombenza magari non troppo piacevole, ma nemmeno tragica, e il marito fa quello che deve. Invece prendere la purga, aveva confidato Allegra, e cagare addosso a suo marito, ecco, quello no, quello le creava un sacco di scompensi. Così aveva concluso Giada, con la parola scompensi.
Non mi piace divagare ma di recente ho saputo che, quando non ci sono, i miei amici parlano di me. Sostengono che sono troppo riflessivo, e compiacente, e che mi dovrei svegliare. Ma credo che si sbaglino. Se infatti Giada non era rimasta soddisfatta del modo in cui avevo reagito alle sue confidenze, quando invece mesi dopo incontrai, per puro caso, Allegra, le mie reazioni così docili, sempre opportune, prive d’invadenza, furono d’aiuto. Infatti Allegra si era separata, anche se allora non lo sapevo, e in breve tempo si affezionò a me perché si sentiva protetta, non percepiva minacce o tentativi di intrusioni e quello era, ripensandoci, proprio ciò di cui aveva bisogno. Iniziammo a incontrarci ogni tanto, in pausa pranzo, agevolati dalla vicinanza dei nostri luoghi di lavoro, e la compagnia era sempre gradevole. Ricordo soltanto il poco disagio che provai, alla fine di un pranzo che avevo chiuso con un budino, quando incrociai la mia vista nello specchio e mi accorsi che il cioccolato mi anneriva i denti. Non so dire se Allegra se lo avesse notato o meno, ma sorrideva, in un modo che giudicai troppo smaccato, e fui costretto a correre in bagno. In un’altra occasione, nonostante l’inverno fosse già passato, ordinai comunque una zuppa di verdure, la quale mi provocò un lieve tepore allo stomaco, come se qualcuno mi avesse posato un oggetto caldo, una borsa d’acqua o qualcosa del genere, sopra la camicia, e questo mi costrinse a salutare Allegra anzitempo.
Lei che, dopo tutti quegli anni, era ancora gradevole. Anzi, sembrava addirittura migliorata dal tempo. Se in giovinezza era stata talvolta leggera, supponente, quasi irritante, gli accidenti della vita l’avevano alesata a dovere, smussandone il carattere quel tanto che serviva per renderlo docile in ogni occasione. Ma ecco che durante una pausa caffè, una passeggiata, un pranzo che magari si concludeva con un dolce al cacao, ecco che la consapevolezza di quanto fosse stata, col marito, mansueta, mi rovinava il piacere della complicità.
La naturale educazione, il distacco rispettoso, e non ultima la mia paura, ci tenevano lontano. Per lungo tempo non arrivammo neppure a sfiorare un momento d’intimità. Ci vedevamo soltanto in luoghi pubblici e ogni incontro era caratterizzato, più che altro, dalle sue lamentele. Innanzitutto riguardo al comportamento dell’ex – ormai fedifrago acclarato – che pare avesse convinto quasi tutte le amiche di Allegra a compiere atti sessuali di varia natura, anche se nessuna di loro aveva ammesso di aver ceduto alle proposte cui Allegra pareva essere invece così supina. Lei era ancora devastata dalla rottura di un matrimonio che, a suo dire, sembrava del tutto solido. Ma nonostante i detriti di cui era composto il suo umore, mi ribadiva in continuazione che non aveva ancora pianto: non lo aveva fatto il giorno in cui il marito se n’era andato, senza addurre alcuna motivazione; e neppure quando la prima amica le aveva confidato del tradimento; o quando era giunto il turno di quella successiva e di quella dopo ancora; e non era accaduto nemmeno in Tribunale, all’atto della firma che sanciva, omologandolo, il fallimento del loro progetto comune.
Io la consolavo e temporeggiavo, attratto dalla sua bellezza delicata ma al tempo stesso preoccupato dai possibili sviluppi. Giada invece era del tutto negativa rispetto al mio rapporto con Allegra. Lo considerava soltanto un vezzo, un vecchio amore alimentato dalla nostalgia di ciò che non era stato, e quindi non sarebbe stato mai; liquidava pertanto le mie ambizioni come pretenziose dietrologie; un inseguimento autoreferenziale di passioni giovanili ormai svanite, e io non me la sentivo davvero di darle torto. Ma Allegra, col suo fare sempre difettoso, l’abitudine antica di appoggiare il seno cadente, ma tosto, alla mia spalla, e tutte le altre piccole ma efficaci azioni, che non ritenevo dettate da calcoli quanto piuttosto da confidenza, Allegra era insomma capace di governare la mia attenzione quando e come voleva. Arrivammo a vederci più spesso ma, sebbene lei non affrontasse mai i dettagli della sua storia passata, men che meno sessuali, io continuavo a sentire quello strano tepore durante i nostri pranzi, quello che si era manifestato per la prima volta con la zuppa. E lei, che seguitava a elencarmi le numerose donne con le quali il marito l’aveva tradita, e le profonde mancanze di lui nella vita comune, e tutti i progetti naufragati ancora prima di salpare, si rifiutava comunque di piangere per il dissesto del suo matrimonio. Io sapevo che quel rifiuto al pianto avrebbe avuto conseguenze nefaste, al pari di ciò che accade con gli ingordi i quali, dopo aver esagerato col cibo, giudicano il vomito come una sconfitta anziché come un fondamentale rimedio. Gli incontri perciò seguitavano, ma io provavo la sensazione di essermi bloccato in una sorta di stallo.
Accadde in quel periodo che interrompessi la mia relazione sentimentale. Mi frequentavo da qualche tempo con una ragazza conosciuta in quel bar, quello a poco prezzo, davanti alla facoltà, dove le bottigliette di birra costano quasi come al supermercato. Lei non era più così giovane, ma stentava a laurearsi e dopo la passione iniziale, e l’inevitabile scontro di caratteri, sembrava che le nostre divergenze si potessero appianare. Questa ragazza infatti era troppo attiva, costantemente impegnata in qualcosa che costantemente non capivo; ma questo suo fervore di adesione non sarebbe stato un problema, se lei non avesse preso a spingere in ogni modo – ma solo dopo aver astutamente atteso il patentino di fidanzata ufficiale – perché mi facessi coinvolgere nel suo attivismo. Richiesta corredata da generiche lamentele sulle mie presunte carenze valoriali e sulla possibilità, finalmente, di colmarle.
Quella storia finì senza grandi patemi, o almeno così mi parve, e in quello stesso periodo avvenne che, per molti giorni, io e Allegra non ci vedessimo. L’azienda per cui lavoravo mi aveva spedito in trasferta, per risolvere non so quale problema di non so quale fornitore, e quando tornai fu Allegra che si negò, a causa di alcuni urgenti impegni di famiglia dei quali non mi specificò nulla. Poi giunsero le feste comandate, e i ponti, uno dietro l’altro, e nonostante l’apparente volontà che stavamo entrambi investendo nell’incontrarci, non riuscimmo per settimane a organizzare alcunché.
Finché una sera mi chiamò. Era in lacrime e mi implorava di raggiungerla nel suo appartamento. Mentre uscivo di casa mi resi conto che si trattava, da quando Allegra era tornata a occupare la mia vita, della prima occasione intima fra noi. Lei non mi aveva mai invitato a casa sua, e per di più eravamo entrambi, finalmente, sforniti di una relazione. Mi avevano così invaso alcuni strani pensieri. Ripensavo a come gli accidenti della vita me l’avessero riportata accanto, a quanto la trovavo, come donna, interessante, a come, mentre avanzava con gli anni, si era mantenuta giovanile, agile, snella, professionalmente capace. Ma al tempo stesso mi chiedevo in quale misura le velleità dell’ex marito avessero invaso e modificato la sua intimità. Da parecchio mi comparivano immagini intrusive di lei, sudata come usualmente si suda quando l’evacuazione non è del tutto naturale, accovacciata sopra il marito, entrambi sconvolti ed eccitati, e chissà poi come riuscivano a gestire la logistica di quel gesto abnorme. Io ero sicuro, nel modo più assoluto, che non le avrei mai consentito di accovacciarsi su di me, in bagno, e defecare. Il senso di caldo mi avrebbe disturbato non poco e soprattutto non sarei mai stato in grado di accovacciarmi a mia volta e defecare su di lei. Impossibile. Conoscevo e conosco i confini del mio agire e non è la modestia che mi spinge a rivelare questi limiti. Inoltre, anche se fossi materialmente riuscito nell’atto, non avrei retto la condivisione con lei di certi sconfinamenti che, a mio parere, debbono essere riservati a compagne di minore prestigio, a donne che ti affiancano per un tempo breve nella vita amorosa, e sessuale, e che possono quindi essere deputate a sperimentazioni di questo tipo. Camminavo sul lungofiume, verso l’appartamento di Allegra, e mi sovvenne che quelle pratiche, a cui lei era avvezza, ponevano un ulteriore problema: quello igienico. Avevo chiesto a un amico di famiglia, molto riservato, e competente, il quale aveva speso alcuni anni alla facoltà di medicina pur senza raggiungere una laurea, delucidazioni in merito. L’amico di famiglia aveva confermato la possibilità, non remota, che i prodotti intestinali, ricchi di germi, potessero provocarne la diffusione patogena. E questa eventualità – ovviamente non gli avevo illustrato in dettaglio le modalità di un’eventuale contaminazione – andava in qualche modo contenuta. Per questo, aveva aggiunto l’amico di famiglia, i bagni sono coperti di piastrelle, per consentire un’adeguata pulizia. Mi stavo interrogando su come, Allegra e il marito, avessero potuto continuare per anni in quella pratica orrenda senza incorrere in ripercussioni sanitarie, quando mi trovai di fronte alla sua porta di casa. Lei mi aprì e la vidi, in piedi, davanti a me, in lacrime. Non mi dovetti neppure avvicinare, fu lei che si gettò verso di me, mi abbracciò e io, in quel momento, nonostante le controindicazioni sanitarie e i dubbi morali e il fatto non secondario che difficilmente riesco a defecare a comando, vedendola così, fragile, indifesa, abbattuta dalla vita, dalla separazione, da un uomo che aveva approfittato di lei in modo ignobile, sentii che potevo, anzi dovevo, era senza dubbio un imperativo morale, andarle incontro. Quindi non mi vergogno nel dire che mi sentivo anche un po’ eccitato, ebbi un’erezione, per fortuna lei non mi abbracciava così forte, non se ne accorse, non subito. Io intanto avevo capito di essere pronto, a fare ciò che voleva, il suo pianto liberatorio l’aveva finalmente staccata dal marito e quindi potevo darle ciò che desiderava. La strinsi a me, intanto gettavo un occhio in fondo alla stanza, alla ricerca di un gabinetto. Lei a quel punto sentì l’erezione, ne sono certo, ma per qualche motivo si staccò, di poco, ma lo fece, e col viso coperto dalle lacrime lo disse.
È morta mia madre. Disse.