Il mio corpo di vetro

di Claudia Lanteri
Copertina di Fernando Pennaforte

Di punto in bianco, la sua pelle ha iniziato a farsi sottile, trasparente. È cominciato dopo un giorno trascorso al mare, durante cui Lucia aveva spalmato la crema più volte su tutto il corpo e su quello del suo compagno, come è importante per tutti ma in special modo per chi ha un colorito così diafano, e tuttavia, risvegliandosi nello stesso letto l’indomani, Gero appariva brunito, con sole le spalle e la punta del naso un poco arrossate, mentre lei, osservandosi nello specchio del comò alla luce che filtrava dalle persiane insieme a un’aria afosa fin dalle prime ore del mattino, si era scovata sul viso un tono spento, come se il giorno precedente avesse patito una febbre, invece della rilassante gita al mare desiderata per settimane. Poiché aveva trovato la cosa piuttosto inquietante, aveva abbassato gli occhi sugli avambracci e sui polsi, lasciati scoperti dalle maniche scampanate del pigiama giallino, e non aveva potuto nascondere l’espressione disturbata del suo viso nello scorgere sotto la pelle un reticolo di vene bluastre di diversa portata e in rilievo, così che perfino Gero, per quanto fosse ancora mezzo intontito di sonno, e solitamente altrove, aveva dovuto chiederle una volta tanto che cosa avesse, se di nuovo mal di stomaco, o le mestruazioni in arrivo, e Lucia aveva trovato più semplice rispondergli solo di sì, sì.


Siccome era domenica, non c’era stato modo di restare sola, come nei giorni feriali, quando apriva di scatto gli occhi al tocco di un bacio frettoloso che Gero le dava sulla fronte prima di correre a lavoro, e Lucia avrebbe aspettato le quattro mandate della serratura blindata prima di poggiare sul fresco pavimento i piedi scalzi, per poi alzare le serrande, tirare le tende leggere e potersi mettere nuda davanti allo specchio, a scandagliare dettagli e caratteristiche di quel corpo fino ad allora sempre normale, quasi banale, e cercare di capire la ragione per cui invece ora la pelle le si andava facendo come d’acqua: era domenica, e Gero era in casa. Sebbene inquieta, mentre da oltre il corridoio lui faceva scorrere il getto della doccia contro le piastrelle grigie a nido d’ape, Lucia aveva a stento avuto il tempo di recuperare nell’armadio una maglia di lino a maniche lunghe, così da nascondere la maggior superficie possibile del suo corpo, da quel mattino così alieno, ripromettendosi di esaminare lo stato della sua sottile epidermide senza fretta, una volta rientrati, non appena Gero si fosse appisolato sul divano. Non era una gran risoluzione, ma non c’era tempo di cercarne altre, considerato che erano già in ritardo per raggiungere la coppia a cui Gero aveva dato appuntamento in centro, per un aperitivo, e Lucia si era anche ripromessa di dare da mangiare al cane, prima di uscire; invece di raggiungere in bagno il suo compagno, di fronte al quale avrebbe dovuto spogliarsi, aveva spalmato il Dove frettolosamente sotto le ascelle – depilate da poco con la cera, e che quindi non mandavano un odore troppo acido, seppure non freschissimo – e subito aveva messo la camicia, evitando di offrire agli sguardi altrui lo spettacolo della sua pelle che svaniva.

Gero era già sceso a prendere l’auto mentre Lucia raggiungeva sovrappensiero il vicolo senza uscita dove la sera il cane si coricava: era il bastardino del quartiere, e la gente gli dava da mangiare senza troppa organizzazione; così poteva capitare che in alcuni giorni dalle ciotole debordassero mucchi di avanzi, e in altri invece capitava che non ci fosse niente, e che la bestia si aggirasse con occhi avviliti lappando la ciotola vuota e, infine, dopo aver mostrato inutilmente i denti in uno sbadiglio di fame, tornasse ad acciambellarsi, rassegnato, nell’ultimo angolo di ombra. Così era quel giorno, e Lucia, che normalmente non avrebbe perso tempo a dargli comandi come «vieni» o «fermo», fu contenta di distrarsi per un poco dall’inconsueta metamorfosi guardandogli la coda sferzare l’aria.


La situazione si era fatta critica seduti al bar: ascoltando una musica di sottofondo perfettamente intonata al legno bianco laccato che arredava il dehors e alle lunghe strisce di luci di colore azzurro neon, Lucia aveva concesso alla propria coscienza di smemorarsi, e il bizzarro mutamento in atto nel suo corpo le era passato di mente. Alla battuta dell’altro uomo – un ex collega di lavoro col quale Gero era rimasto in buoni rapporti e che vedeva di tanto in tanto, occasionalmente includendo, come quel giorno, anche le rispettive partner – Lucia aveva riso, mostrando i piccoli denti grigio perla. Senza pensare, aveva reclinato la testa per bere una lunga sorsata del suo drink trasparente, scoprendo la gola, e poi aveva buttato giù la manciata di salatini che fino a quel momento teneva stretti nel palmo della mano. La poltiglia, sminuzzata dai molari e dai premolari, aveva girato nella bocca di Lucia, finché, come fatto migliaia di volte già in passato, lei non aveva deglutito.

Era stato allora che la moglie dell’ex collega, seduta di fianco, aveva lanciato un grido stridulo, e per poco non le rovesciava addosso il contenuto di entrambi i bicchieri mentre afferrava uno di quei tovagliolini semitrasparenti e rumorosi dal dispenser di laminato melamminico viola e, gridando come un’isterica «un insetto, un insetto», le si era gettata al collo. Nell’urto, la fede egiziana sull’anulare della donna aveva sbattuto contro la trachea di Lucia insieme alla nocca del medio, costringendola a portarsi le mani alla gola per il fastidio, ed era stata la salvezza, momentaneamente, giacché nella confusione nessuno aveva notato che la sua pelle si era fatta così sottile che non solo l’esofago, con dentro il piccolo bolo di salatini spinto giù insieme alla saliva dalle contrazioni peristaltiche, si vedeva, scambiato dall’altra donna per un grosso bombo – la quale, proprio per il fatto di essere andata già una volta in shock anafilattico, in passato, aveva avuto una tale reazione di terrore incontrollato, e non finiva più di scusarsi con tutti meno che con Lucia – ma si vedeva anche il tratto di tubo digerente sotto cui si era già azionato il movimento protettivo dell’epiglottide, ovvero tutta la parte visibile di pelle che fuorusciva dal collo alla coreana della camicia di lino e, verso la curva morbida dei seni, la spugnosa superfice della pleura.


Più tardi, mentre Gero guidava l’auto sportiva dai vetri oscurati che si era accaparrato tramite un’asta del tribunale fallimentare appena l’autunno precedente, e canticchiava, volgendo lo sguardo oltre il parabrezza, come se nulla di quella assurda situazione fosse mai accaduto davvero, Lucia era riuscita a conservare un mirabile controllo di sé quando, specchiandosi sul parasole dal lato del passeggero, si era resa conto delle immagini che prendevano forma sopra l’arco delle sue sopracciglia, scorrendo nitide sulla sua fronte ormai del tutto incolore. Pur senza capire in base a quale modalità fisica il pensiero le si facesse visione, e la visione marchio visibile in movimento sulla pelle, come un film proiettato su uno schermo, Lucia neppure aveva consentito al suo respiro di accelerare: un controllo di sé alquanto notevole, se si considera che a scorrerle sotto la fronte era l’immagine mentale della sua morte, con l’auto di Gero che si ribaltava dopo aver urtato in velocità l’aiuola spartitraffico, sbalzandola fuori dal lunotto, infranto in mille minuscoli pezzi nel momento in cui il suo cranio ci andava a sbattere violentemente contro, e lei atterrava di faccia al centro della carreggiata opposta, dove un uomo dalla pelle olivastra e polo blue marine col colletto alzato, alla guida di un tir, non riuscendo a frenare in tempo, chiudeva gli occhi per non vedere gli schizzi del suo cranio esploso sull’asfalto, tra le urla sconvolte degli astanti che guardavano anch’essi altrove.


I primi giorni erano stati i più difficili. Lucia aveva cercato ogni pretesto pur di non uscire da casa, temendo che Gero potesse accorgersi di quello strano fenomeno corporeo, ormai talmente esteso ed evidente da escludere solo la zona del mento, degli zigomi e delle mani; il timore si era presto rivelato infondato, dato che Gero in casa era distratto come suo solito. Lo stesso Lucia aveva preso la precauzione di indossare gli occhiali da vista riposanti, che di norma portava solo al cinema o in biblioteca. In seguito, aveva in qualche modo adattato il suo stato d’animo, oltre che il suo vestiario, alla bislacca situazione, ed anzi ci aveva scovato un certo piacere: quando restava sola in casa al mattino, nei giorni feriali, dopo aver tirato le tende quanto bastava affinché al di là della finestra i vicini non la vedessero molto più che nuda, nell’interezza dei suoi fluidi e processi, più intimamente di quanto sua madre o medico di base o amante passato o presente non avessero fatto mai, in quei momenti, dopo aver abituato gli occhi all’oscurità, Lucia scopriva con meraviglia una certa luminescenza del suo corpo, come se qualcuno vi avesse iniettato all’interno un liquido di contrasto che permetteva di seguire dall’esterno il flusso della circolazione sanguigna – il sangue fluido e chiaro, ricaricatosi di ossigeno dai polmoni, che si muove nel corpo attraverso le arterie che lo portano lontano dal cuore, le vene che riportano il sangue stanco e scuro al cuore – e si incantava dietro il movimento del diaframma ed il dolce dondolio impresso da questo, attraverso il respiro, allo stomaco, come seguendo una nenia. Certe mattine Lucia sarebbe rimasta ad fissare questo flusso meccanico ininterrotto fin quasi a convincersi di poter sentire nelle orecchie, a cinquanta, cento decibel, lo sciabordio del sangue che sbatte contro l’aorta passando dietro la vena polmonare, e solo con un enorme sforzo di volontà riusciva a staccarsi dalla chiarezza che lentamente finiva per trasmetterle l’osservazione di quel perfetto movimento, e a concentrarsi su questioni più pressanti, come ad esempio capire che cosa diamine le stesse succedendo. Così sollevava lo schermo del computer sul tavolino di fianco alla finestra socchiusa, digitava la password e cominciava a scrivere nella stringa di Google l’inizio di una frase che l’aiutasse a chiarire; senonché, quasi subito si ritrovava impantanata in una marea di risultati suggeriti a dir poco demenziali, come ad esempio «diventare invisibili», che generava suggerimenti come «diventare invisibili su Facebook», «diventare invisibili libro Amazon», o «essere trasparenti», che dava adito a «essere trasparenti con gli altri», «essere trasparenti sul lavoro» e perfino «perché i pesci abissali sono trasparenti»; per non parlare di quando Lucia tentava di aggiungere ulteriori elementi di specificazione, entrate come «la pelle diventa trasparente», che faceva comparire sullo schermo migliaia e migliaia di risultati afferenti a «invecchiamento cutaneo un processo inarrestabile», o «pelle sottile bodybuilding» e, ancora, «cosa fare per rassodare l’addome con eccesso di pelle».


Dopo qualche ora a tentare di raccapezzarsi sulla situazione, tipicamente incollava lo sguardo – reso più ampio dalle palpebre, ormai anch’esse quasi del tutto trasparenti – sul movimento delle dita sulla tastiera, trascorrendo l’ora successiva a pigiare tasti a caso solo per godere dello spettacolo flessuoso, oltre l’epidermide, degli adduttori del pollice che si cercano, si assottigliano e cooperano a sollevare le falangi prossimali, e questo a prescindere dalla sensatezza dei segni che compaiono sullo schermo, anzi, infischiandosene altamente. Poi, quando le dita cominciavano a dolerle, restando immobile con le ginocchia anchilosate ad ascoltare i rumori che provenivano dalla strada, Lucia puntava lo sguardo con convinzione nel vetro retroilluminato. L’inattività prolungata aveva fatto partire il salvaschermo, e Lucia ritrovava i contorni del suo viso sulla superficie scura del computer. Sulla fronte riflessa, pure di vetro, si formulava l’immagine del corpo di Lucia che lentamente decideva di farla alzare dalla sedia, smettere il pigiama giallino e scegliere dall’armadio un abito smanicato pantapalazzo di un colore allegro; quindi, la Lucia sulla fronte di vetro obbediva alle mani che comandavano di spargere terracotta sulle guance, un rossetto matt evitando i denti, si dava una ravviata ai capelli con la spazzola in fibre naturali e, pescando dal ripostiglio delle scope lo spesso cordino con l’anima in ferro, residuo di un vecchio stendino ormai rotto da mesi, obbediva all’ordine di formare un cappio, un pupazzo dai gesti certi, la cui competenza per svolgere il nodo riaffiorava dai tempi di quand’era una piccola scout, e di assicurarlo attorno al vaso del grosso albero di limoni; dunque, scavalcando la ringhiera, la Lucia riflessa appurava che non vi fosse nessun passante sul vicolo assolato. Dal momento che non passava nessuno, poteva lanciarsi nel conforto oscillatorio del vuoto sottostante. Restava lì a guardare, Lucia, ancora seduta, con la vestaglia, le ginocchia anchilosate, finché l’immagine formata sulla fronte e riflessa dal salvaschermo non ritornava immobile, placida. Soltanto allora, indossato uno strato di fondotinta, andava a mettere su la cena.


La sera mangiavano in silenzio nella cucina male illuminata. Dalla finestra arrivavano i rumori della strada, del cane bastardino che guaiva nel vicolo o di qualche bambino ritardatario che tirava colpi di pallone alle porte dei box, e di sua madre che si sgolava a chiamarlo da sopra, con la ciabatta in mano. Nei piatti c’era filetto di platessa al limone con le patate a vapore, quello di Gero già quasi vuoto, il bordo contornato dalla fitta corona di spinette della pinna dorsale e qualche foglia di alloro, quello di Lucia su cui la forchetta giaceva accanto alla pelle del pesce coperta di bolle grigie in rilievo, abbandonata come le mani di lei, trasparenti, in grembo. Alla televisione davano un dibattito sulle elezioni amministrative, e Gero seguiva assorto, di tanto in tanto stringendo la mano attorno al bicchiere pieno per metà di birra chiara, così rabbiosamente che Lucia temeva lo avrebbe frantumato da un momento all’altro in mille minuscoli pezzi. Quando Gero sentiva lo sguardo di Lucia in allarme sopra di sé, voltava la testa di scatto, come a sfidarla, ma non si accorgeva mai che lei era di vetro. Allora Lucia volgeva anche lei la testa verso la televisione, e cercava di fissarla per un po’: di tanto in tanto, tra l’assemblea di opinionisti urlanti, le pareva di scorgere qualche ospite – un attivista Friday For Future o un’assessora di paesino toscano da qualche parte – che, mentre parlavano, sembravano per un attimo sul punto di scolorire e diventare trasparenti, quasi di vetro pure loro, come stava capitando a lei; ma poi arrivava la pubblicità e Gero, che nel frattempo aveva finito tutto il suo pesce e spiluccava la carne bianca e filamentosa dal piatto di Lucia, chiedeva che cosa ci fosse di frutta, e così lei aveva la scusa di alzarsi a prendergli una banana e di non fare ritorno in tavola. Andava subito a togliersi il cardigan con le maniche lunghe che era costretta a indossare nonostante il caldo anche a tarda sera, e quando Gero, finita la pubblicità, ritornava a fare bisticci col televisore, lei poteva accoccolarsi sulla poltrona della stanza di là con un libro tra le mani che sfogliava senza leggere, restando solo seduta in silenzio, intanto che fuori stava calando il buio.


A volte sollevava il viso per controllare se qualche immagine mentale si stesse formando sopra l’arco delle sue sopracciglia, riflettendosi sul vetro del balcone. Mentre poi distoglieva le pupille – chiudervi sopra le palpebre sarebbe stato del tutto vano – dall’ennesima visione del suo corpo che spariva tra i flutti del fiume, o veniva dilaniato sotto le rotaie in corsa tra getti altissimi di vivo sangue arterioso, o che placidamente finiva deprivato di aria dopo che la Lucia dell’immagine di vetro aveva infilato la testa in un robusto sacchetto dell’hard discount, qualche volta sentiva allora come un morso di rabbia, e cercava di tenere gli occhi ben spalancati sulla fronte, desiderando di poter rivolgere tutto quell’odio verso di Gero, invece che contro sé stessa; in quei momenti si sentiva sollevata di non essere ancora morta e, forte di questa esile energia, riusciva perfino a fantasticare di fare a pezzi lui, il dannato Gero e la cecità con la quale continuava a fingere che l’assurda trasparenza con cui il suo corpo, da un giorno all’altro, aveva deciso di mostrare ogni anfratto non fosse reale, come se neppure ciò gli bastasse a vederla. Come se Lucia non ci fosse, come se perfino il vetro che ora era la nuova pelle del suo corpo potesse svanire non lasciandosi nulla, nulla indietro; solo la poltrona vuota, la piantana accesa e un cuscino sprimacciato col gatto sopra.

Perché non era capace di reagire, oppure di odiarlo? Perché continuava invece a vedersi morire?


Quando fu trascorso un mese, pensò che era abbastanza: non era possibile, si diceva, non era possibile che pur abitandole accanto, Gero non fosse minimamente in grado di vedere attraverso il suo corpo di vetro. Decise di fare in modo, una volta per tutte, di essere vista: passò una parte del pomeriggio a depilarsi le gambe – sulle quali i peli, nonostante la pelle diafana e i fasci di muscoli visibili fin sotto l’ipoderma, continuavano a crescere scuri e con il medesimo accanimento di sempre – e si rasò con cura anche ascelle e zona dell’inguine; scelse dal cassetto del comò che di recente aveva aperto meno un babydoll color viola chiaro con l’elastico che stringeva un poco sotto il seno, pizzicandole la pelle; mise una nuova ricarica al diffusore per ambienti all’aroma di Notti Arabe, e accese solo le lampade più brillanti, spostando la piantana di fronte allo specchio perché facesse il doppio della luce.

Gero entrò in camera da letto come sempre di fretta, altrove, già con la polo in una mano, e l’altra mano lanciata in corsa a slacciarsi la cintura. Lucia era seduta sul letto, voltata di schiena per tre quarti: i folti capelli scuri, che non aveva fatto in tempo a tirare su in un nodo, le ricoprivano cadendo le scapole, fino al culo. Cercò di spostarli sulla spalla destra, per offrire allo sguardo di Gero la curva sottile della sua nuca; pensò che avrebbe dovuto occhieggiarlo di sotto in su con la bocca schiusa, ma si sentì un’idiota oltremisura; così guardò soltanto oltre il bordo del letto, verso dove il pavimento di granito iniziava a incontrare le frange del tappeto scendiletto. Senza sollevare le palpebre, continuando a sentire Gero muoversi nella stanza, prese aria a pieni polmoni – li vedeva espandersi dall’alto, come due spugne rosee imprigionate nella gabbia delle costole, al centro di cui fluttuavano in una baraonda di tubi azzurri – e, sollevando le natiche, fece scivolare la brasiliana contro le cosce dal lato del ricamo a fiori; i fiori, arrotolandosi contro la pelle dei fianchi, opponevano una debole resistenza. Non appena ebbe percepito la sagoma delle infradito di Gero quasi sul bordo del tappeto scendiletto, Lucia sfilò dalle caviglie la brasiliana imbrogliata, depositandola ai suoi piedi, come il dono di un topo morto di una gatta al venerato padrone. 


Si sarebbe aspettata che il respiro di Gero dovesse farsi subito pesante, e invece per qualche istante non successe nulla; poi lui fece crollare un ginocchio sul letto, una gamba dei pantaloni penzolante e l’altra ancora involtata attorno alla caviglia, e poi le posò una mano sulla nuca, forzandola a chinarsi in avanti di traverso al materasso.

Lucia in un sospiro arrochito disse che avrebbe voluto togliersi tutto, per farsi vedere da lui in piena luce, ma Gero non le diede nessuna considerazione, le disse solo che la voleva così, ora: mentre con la mano le teneva fermo il collo, aggrovigliandosi col sudore e coi capelli, con l’altra frugava giù per liberarsi dei boxer e, quando fu nudo anche dei pantaloni, le alzò il culo, facendole perdere l’equilibrio in avanti e sbattere il mento sul cuscino ortopedico; ma le accarezzò svelto la testa a mo’ di scuse, prima di imprigionarle una ciocca di capelli tra le maglie dell’orologio ancora al polso del braccio col quale si teneva sollevato; Lucia sentì il rumore dello sputo con cui Gero si bagnava indice e medio, prima di passarli sbrigativamente sopra la punta del cazzo; non ebbe il tempo di chiedersi se si fosse lavato le mani prima del colpo di reni, due, tre; giusto lo spazio di contarne all’incirca venti, che era finito tutto.


Dopo, Gero, all’istante prendeva a respirare rumorosamente e a fare versi strascicati col naso, tutte le volte. Dormiva con la bocca aperta, il cazzo ridotto a una fascetta di cerchi concentrici marroncini, con una voragine al centro. Lucia si liberò di un suo avanzo di gamba, pesante come un quarto di vitello, e si allontanò lentamente dal letto, senza osare voltarsi. Solo quando fu arrivata davanti allo specchio dell’armadio, avvertendo il proprio riflesso sul vetro alle sue spalle, si offrì da sola lo spettacolo del suo corpo, nudo e del tutto trasparente. Il riflesso della piantana sullo specchio del comò la illuminava in pieno, come fosse giorno fatto. Lucia fece scorrere gli occhi di fretta, quasi con smania, sui dettagli secondari, superando le tette un poco divergenti l’una con l’altra e il loro giallo tessuto adiposo e i grappoli delle ghiandole mammarie color bianco, avvolte in filamenti, metri e metri di intestino aggrovigliato su sé stesso, vuoto e pieno di spasimi, e andò diritta alla zona del suo corpo che più di tutte sentiva pulsare, e che avrebbe desiderato strapparsi via: lì sotto, dentro il canale vaginale arrossato, un muco denso e viscoso aveva incontrato il muro curvo di gomma del diaframma che sbarrava l’accesso all’utero, e stava già colando all’indietro, attirato dalla gravità della terra, e iniziava a schiumare in piccole bolle bianche fuori dalla vulva, scendendo piano contro l’interno delle gambe di Lucia, leggermente divaricate. Più l’interno si svuotava, più le pareva di scorgersi negli occhi come una scintilla, finché, osservandosi la fronte, quasi si sorprese a non vedervi formulato nessun disegno di voli pindarici giù dal davanzale, vene recise o autoavvelenamenti; la sua pelle, sempre diafana, sembrava ora poter risplendere dall’interno, e fasci di luce partivano da sotto i capelli scarmigliati, e illuminavano i gangli e le sinapsi diffondendosi in tutto il corpo per il sistema nervoso periferico. Gero ronfava a bocca aperta agitandosi nel sonno, ma non aveva nessuna importanza, dal momento che Lucia sentiva di non essere più disposta a riconoscergliene. L’acido fiume che dallo stomaco aveva cercato di farsi strada contro le pareti dell’esofago al momento in cui Gero aveva mugghiato attorcendosi nel suo piacere, si placò e fu del tutto domato nel tempo in cui lei, senza nessuna fretta, strinse il suo corpo di vetro nella vestaglia e raggiunse il lavandino, e avendo fatto scorrere un po’ di acqua tiepida, si sciacquò il viso a lungo, accarezzandolo.


Dalla finestra aperta anche la strada si era acquietata, il silenzio della sera era interrotto solo da un lontano abbaiare del cane contro qualche lucertola, o le pareti scrostate del vicolo, o contro la fame. Lucia pensò che nessuno del quartiere doveva essersi ricordato del bastardino, e ne ebbe pena. Andò senza fare rumore verso la dispensa, in cerca di qualche scatoletta – il cane non perdeva tempo a interrogarsi da dove gli venisse il cibo o a riconoscerne la qualità, così anche un pezzo di pane secco intriso nel latte forse poteva zittirlo, o almeno lei, quando ebbe infilato i sandali e fu scesa nel vicolo, se lo augurava. Una sensazione di calore le prese a risalire lentamente dalle gambe di nuovo in movimento, libere dal peso di quel corpo a lungo disprezzato, mentre attraversava al cortile. Si avvicinò verso l’angolo dove il cane si raggomitolava la sera, il corpo trasparente illuminato dal lampione che la bagnava di giallo intermittente e le gambe leggermente accovacciate, allungando la mano. Il cane sollevò il muso ad annusare il cibo che gli arrivava dall’alto, fece un guaito breve e uno sbadiglio, e si alzò sulle zampe di dietro, senza riconoscere la sua presenza; Lucia gli disse «fermo», gli disse «vieni», mormorò «ti prego», ma il cane abbassò la testa.


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2 Comments

  1. Alcune parti descrittive sono ridondanti e distraggono il lettore. Il testo non sembra completo e diventa, quindi, simbolico di una realtà non facile da afferrare. La scrittura è perfetta e, forse, si compiace di se stessa, giocando con se stessa.La figura dell’uomo è meschina, ma non per contrasto.

  2. In tutte le sezioni che compongono il racconto ho percepito un senso di solitudine molto intimo e, inoltre, la capacità di scegliere le parole adatte mi ha immerso ancora di più nel personaggio. Lo trovo molto creativo, come il finale che mi ha spiazzato piacevolmente.

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