di Andrea Zandomeneghi
Copertina di La Nuova Carne Edizioni
Jinn: «Denominazione araba degli spiriti che popolano la natura e il cui influsso benefico o malefico si esercita continuamente sulla vita umana. La nozione di j. è non solo preislamica, ma anche precedente alla costituzione del politeismo arabo; essa fu soggetta nel tempo a considerazioni speculative che attribuirono ai j. caratteristiche diverse da quelle originarie (per es., l’inferiorità rispetto all’uomo e la natura mortale). Costituiscono una collettività tendenzialmente indifferenziata, che lascia tuttavia emergere tratti più personali, per es., nella Ghūl; la credenza nei j., largamente rappresentati nel folclore religioso islamico e nella favolistica, è tuttora viva nelle classi popolari del mondo musulmano.»
Enciclopedia Treccani
Campeggia sul retro della esuberante e sovraccarica – in pieno stile La nuova carne edizioni – copertina del volume in parola un’affermazione impegnativa, tanto per il suo contenuto perentorio, quanto per la paternità della stessa: «Gianni De Martino è l’archivio vivente della controcultura italiana» – è Vanni Santoni l’autore del blurb in questione e al contempo lo scrittore italiano che più di ogni altro s’è immerso nello studio diretto e nelle mappature esperienziali delle subculture misconosciute e ignorate che scorrono ai margini del fangoso discorso intellettuale maggioritario generalistico, editorialistico, merceologicistico e accademicistico. Santoni, che di queste immersioni ha fatto letteratura (il rave, il gioco di ruolo, l’arte di strada, la psichedelia), ci dice in pratica: «attenzione, siete al cospetto di chi alle scaturigini e agli sviluppi del discorso controculturale (il viaggio infinito alla scoperta di sé in Nord Africa e in India, le mistiche non occidentali, il libertinismo bi e omosessuale, l’LSD, la comune hippy, la sensibilità e le rivendicazioni del movimento Beat, l’etnografia) della seconda metà del novecento italiano ha preso parte come testimone oculare, come protagonista, come ermeneuta e come esponente letterario di spicco.» Prendiamo ad esempio l’esperienza odierna nostra delle riviste di cui nella bolla della lit-web si dibatte molto e confrontiamola con quella di De Martino (classe 1947): fondatore e caporedattore di Mondo Beat, direttore di Mandala. Quaderni d’oriente e d’occidente, collaboratore di Pianeta fresco, Alfabeta, L’erba voglio, Il piccolo Hans, Panta, Altrove, Paramita, Babilonia, Lotta Continua. Nello scarto tra la nostra esperienza di rivista e la sua s’apre un baratro incolmabile perché i due elementi del confronto sono incommensurabili. Valgano queste poche notizie sul nostro – a cui voglio solo aggiungere la pubblicazione del primo romanzo di etnografia e linguistica erotica marocchina nella collana Mouse ti mouse curata da Pier Vittorio Tondelli per Mondadori: Hotel Oasis – a mo’ di sghemba introduzione.
La città dei jinn è romanzo sulla possessione nella cultura popolare marocchina della costa atlantica, sulla trance più in generale e su Eros e Thanatos, un romanzo in cui un anziano signore (sposato e con tre figli) durante la segregazione domestica della prima quarantena del Covid19 rievoca proustianamente («Io e Proust? Nella stessa camera oscura? Non è una comparazione di valore, naturalmente, ma d’intenzioni») un suo lungo viaggio magrebino nella seconda metà degli anni sessanta del novecento, un viaggio di studio finalizzato alla stesura di una tesi di laurea sul folklore nordafricano sotto la direzione del professore Labulue (alter ego di Lapassade) che diventa una straordinaria («finché, presi e trasportati – la faccia stravolta dall’estasi amorosa nel cuscino e il culo per aria, la schiena e il petto ricoperti da armature di piccoli lampi – non giungemmo al rogo. Sì, accesi e brucianti di un calore magico, aperti come ostriche e nudi come anime alla luce o flash sfolgorante di uno spazio immenso e senza centro, né legge, né periferia. Era quasi un’esperienza mistica. Non sono forse tutti gli amanti, così come anche le streghe e gli stregoni, afflitti dai lampi? Priapo e Pan erano risorti!») e delicatissima («ci capitò una cosa strana. Perché allungando la mano, prima l’uno, poi l’altro, potemmo toccare le erezioni che il nostro contatto aveva provocato in noi. Quei leggeri rigonfiamenti parvero lusingarci. Mi eccitava stare con qualcuno che aveva il pene come me. Che operazione sarebbe? Metonimia? Stargli vicino trasmetteva giovinezza e bellezza per vicinanza? E il calore e la tensione erano così forti, che fu necessario toglierci in fretta i vestiti, compresi i costumi da bagno. In un lampo eravamo nudi e abbiamo rotolato un po’ sulla sabbia calda») avventura amorosa con un diciassettenne berbero di nome Aïssa («Sciolti gli ormeggi e sparse le trecce, uno dei due, chi non importa, si mise per primo al galoppo per esplorare il vento e il mare, il diritto e il rovescio, yin e yang. E i gagliardi movimenti del piacere del liwāt [la sodomia] fanno finalmente scricchiolare il legno del letto, comunicando scosse e vibrazioni a tutto il corpo e al sacco a pelo, alle pareti della casa di Alimah, ai bastioni di Mugadur, al mare, al cielo e ai pianeti»). E se vivere quest’avventura imprevista (addirittura il protagonista era andato in Marocco con la fidanzata) avviene in ottemperanza alla massima aurea che sta sul tempio di Apollo a Delphi: «conosci te stesso» (γνῶθι σαυτόν), rievocarla in vecchiaia e metterla per iscritto – cercare di sedurre la propria memoria o di forzarla a sgorgare e rivelarsi linguisticamente – non può che avvenire nel segno della riflessione e della meditazione d’un’intera esistenza sulla magia della scrittura, sui suoi arcani e i suoi sortilegi. Sulla sua natura.
La città dei jinn è Essaouira, che i berberi chiamano Mugadur – l’antico e cruciale porto di Timbuctu che connetteva l’Africa nera con l’Europa, da tempo non più abituato ai vecchi fasti dei bei tempi andati, divenuto marginale per i nuovi attracchi e centri di smercio, per le nuove rotte. Alla fine degli anni sessanta Mugadur divenne meta del movimento della Beat Generation dove «tutti eravamo fatti di acido, di kif, di vento, di jinn, di lingue in collisione e di sardine» – perché parlare delle sardine, un elemento così prosaico rispetto agli altri? Perché Aïssa, il Bafometto, il puer aeternus, l’efebo divino, era un sosia di Giuba II «giovane re berbero, allevato alla corte di Augusto e andato sposo a Cleopatra Selene, la figlia della grande Cleopatra, [che ci] fece costruire fabbriche di pesce salato». Mugadur «rifugio degli espatriati dalla vecchia Europa per inquietudine o insoddisfazione [che] erano animati dalla segreta ricerca di cose nuove, un costante interesse per sogni e visioni, e un certo timore per il sesso.» Mugadur la cui fine apocalittica – ci racconta Aïssa – per mano d’un uragano oceanico che in un giorno di festa abbatterà i suoi bastioni fu cantata dal poeta Sidi Abderahmane El Mejdoub, «che praticava l’epigramma e la profezia, non era solo un mistico e un poeta. Era anche mentalmente squilibrato, un posseduto. Praticava la gidhba ‒ o trance ‒ e dunque era a contatto diretto con i jinn nati dal fuoco di cui parla il Corano, gli spiriti delle Mille e una notte, i ritmi naturali di distruzione e origine, la scaturigine di ogni conoscenza. Le sue quartine continuano, al di là dei secoli, a imprimere le loro immagini incisive nell’immaginario maghrebino del giovane Aïssa». Libro irregolare e anomalo questo di De Martino, libro delicatissimo e sfranato nella ricerca di senso pur nell’armonia della costruzione, scritto con una prosa colta e brillante, mai artefatta però, una prosa cristallina che fluisce fresca e incontaminata – pur nella sorprendente stratificazione – anche quando prova (riuscendoci) a districarsi e orientarsi nei labirinti etimologici islamici (preziosissimi) e nelle eteree concezioni artistiche o mistiche intuite e sviluppate dall’autore e restituite sulla pagina. Una prosa eccellente e rara, per eleganza ed efficacia, una prosa levigata dai decenni di matrimonio con la scrittura. Una prosa che nella letteratura italiana contemporanea ben pubblicata non si trova manco a cercarla col lumicino perché dotata di quella immane sensibilità testuale che propizia una lettura attiva e creativa, una lettura che raffina l’intelletto e nobilita la mente, una lettura trasformativa – che poi è l’unica lettura che conta davvero – da cui emergi cambiato rispetto a quando ti ci immergessi. Per dirla con Giovenale: rara avis in terris, nigroque simillima cycno.
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Grazie Andrea per la tua “elettrizzante” presentazione del mio nuovo romanzo “La città dei Jinn”. E grazie anche a Malgrado Le Mosche, che si definisce “una rivista letteraria insoddisfatta”. Con l’augurio di non diventare come la sempre insoddisfatta Monaca di Casale, come in quel proverbio in lingua napoletana, che dice: “‘A Monaca ‘e Casale muscio nun ‘o senteva e tuosto le faceva male! – ossia:” La monaca di Casale moscio non lo sentiva e duro le faceva male!”.