Ibuprofene 600

di Davide Ceraso

Natale – Julio Armenante

«E’ femmìn song cchiu’ furbè!»
Rientro in casa mezzo intirizzito dal freddo nel momento esatto in cui nonno Vittorino pronuncia quelle parole. È seduto sul suo solito scranno, una sgangherata seggiola pieghevole con braccioli di plastica acquistata anni addietro all’Esselunga di Legnano. Sorride e indica il mobiletto del televisore.
«Qui sotto non c’è!»
Una voce strozzata rimbalza sulle piastrelle della cucina e rimane sospesa nell’aria aromatizzata al profumo di alici marinate senza trovare interlocutori interessati. Circumnavigo il corpo di mio padre steso in terra e apro l’anta della credenza alla disperata ricerca di una bustina di Ibuprofene 600 ma trovo soltanto vecchie bollette, fotografie di matrimoni e santini sgualciti di Padre Pio. Da due ore la testa pare voglia esplodermi e l’erba appena fumata in balcone ha amplificato, se possibile, il dolore.
«Nicola, ti sembra possa essere lassù?»
«Cerco l’Ibuprofene 600…»
Rispondo a Cornelia senza guardarla e percorro il corridoio mentre la sua vocina stridula penetra come uno stiletto nel mio cervello ricordando che prima di cena reciterà davanti alla famiglia una delle innumerevoli poesie di Natale imparate all’asilo e dovrò esserci anch’io. Ignoro l’invito e irrompo in bagno. Mia madre è seduta sul bordo della vasca, le mani a coprire il volto. Piange. Disperata. Passo a malapena nello spazio tra le sue ginocchia e il lavandino prima di inchinarmi per armeggiare nella scatola dei farmaci ma anche lì non c’è traccia dell’Ibuprofene 600. Impreco sottovoce. La mamma alza lo sguardo con un’espressione inebetita, gli occhi rossi e gonfi galleggiano in due pozze nere, i capelli corvini sono scompigliati come la criniera di un leone agonizzante.
«Mi è sfuggito di mano» bisbiglia, «non so come sia potuto succedere…»
«Sai dov’è l’Ibuprofene 600?»
Lei fissa la sua immagine riflessa nello specchio, non risponde alla domanda e continua il discorso con l’intonazione di un automa.
«…l’aveva comprato lo zio Alfio al mercato di Porta Nolana poco prima dell’alba, da Napoli a Buscate in un sol respiro. E io…»
Riprende a singhiozzare, bava e lacrime confluiscono in un unico rivolo e colano lungo il mento per poi ristagnare sul grembiule teso sopra le cosce. La lascio in compagnia dei rimorsi ed esco dal bagno massaggiandomi le tempie che pulsano come subwoofer durante un rave party. La fitta alla testa non da tregua e vago per casa fin quando scorgo nella penombra del salotto una sagoma grigiastra in piedi a mani giunte davanti alla statuetta della Madonna di Lourdes. La luce delle candele vibra sul volto della Santa Vergine, immobile e ammutolita come se le fosse apparso Carmelo Bene ubriaco mentre declama senza sosta il monologo di Amleto con tono biascicato. La sagoma, nonna Carmela per l’esattezza, sussurra invece una litania sommessa che soffoca in parte il mio dolore. Mi avvicino in punta di piedi in cerca di conforto ma lei si volta di scatto, pallida, gli occhi iniettati di sangue, un tremore leggero a scuoterla.
«L’hanno trovato il capitone?» secca come uno sparo «dimmelo subito».
Non posso essere sincero, non adesso e non con questo mal di testa.
«Credo di no. È così importante?»
Lei trasfigura e assume per un attimo le sembianze del feroce Saladino in guerra contro orde d’infedeli. Gesticola come una forsennata.
«La tradizione Nicola, la tra-di-zio-ne! La nostra famiglia mangia capitone fritto ogni vigilia di Natale! Dovresti saperlo…»
Accenno un sorriso e la nonna torna a pregare senza aggiungere altro. Dopo quell’incontro il dolore è aumentato, un cerchio che abbraccia la fronte e mi attira verso l’alto come se il soffitto fosse una sorta di campo elettromagnetico e io un monolite di ferro. Galleggio a mezz’aria, le braccia lungo il corpo, le gambe penzoloni, gli occhi socchiusi. Riatterro come d’incanto in cucina. Cornelia gioca con un’amica immaginaria e sistema baby puffo dentro la mangiatoia del presepio al posto di Gesù bambino, sostituzione non consona alla collaudata tra-di-zio-ne di famiglia che procurerà un travaso di bile a nonna Carmela. Mio padre intanto, tornato in posizione eretta e in vita come un novello Lazzaro a seguito di un qualche miracolo, passeggia nervosamente attorno al tavolo. Poi d’improvviso si blocca sul posto, la bocca spalancata, il volto illuminato da un’espressione di giubilo che lo teletrasporta al maggio ‘87, al goal di Carnevale contro la Fiorentina e al primo scudetto del Napoli. Mi afferra il braccio trascinandomi in camera.
«Devi rispondere Nicola» occhi negli occhi, «hai visto il capitone?»
Lo sguardo indagatore s’intrufola nella mia scatola cranica e cattura una verità che cercavo invano di nascondere. Confesso all’istante.
«È sgusciato in balcone dalla portafinestra socchiusa mentre fumavo ed è caduto in strada. Ha attraversato via San Giusto per tuffarsi nel Canale Villoresi, il tramonto a far da quinta… ho letto da qualche parte che riescono a sentire l’odore dell’acqua… Se è intelligente, e lo è perché i capitoni sono femmine e come dice il nonno le femmine sono più furbe, a quest’ora avrà seguito la corrente e sarà dalle parti di Parabiago, dove il canale incrocia l’Olona. Da lì, per lei, è tutto in discesa…»
Papà annuisce come se avesse già intuito la risposta.
«Sai che dobbiamo trovare una soluzione?»
Rimango in silenzio. Lui si volta verso il davanzale.
«Che serpente c’è lì dentro?»
«Pantherophis obsoletus o serpente dei ratti americano. Dorme, l’ho nutrito ieri pomeriggio, ha una digestione lenta».
«È velenoso?»
Fissa la teca di Achille. Parla dandomi le spalle.
«No» sorrido, «è innocuo a meno che tu non sia un topolino…»
«Sarà lungo due metri».
«Forse un po’ men…»
L’idea che ha in mente è acqua dentro un geyser che senza preavviso erutta dalla crosta terrestre e schiaffeggia la mia guancia. Vacillo come un pugile alle corde e il male alla testa decolla verso lo spazio.
«Dobbiamo farlo Nicola… per la famiglia…»
Guardo con la coda dell’occhio i poster di Ernesto Che Guevara, Karl Marx e Mao Tse Tung appesi sul muro. A gennaio compirò diciott’anni, potrò votare e contribuire così a creare una società diversa da quella corrosa da incrostazioni commerciali e idealiste delle generazioni precedenti, compresa quella di mio padre. E la scintilla ispiratrice potrà scaturire soltanto attraverso una lotta di condivisione e da una differente ossessione dell’avere, dalla realizzazione di una nazione basata su uguaglianza e solidarietà come valori fondanti. Inoltre chi ha contribuito a fare la storia, anzi a cambiare il corso della storia, non si è mai aggrappato a nulla di materiale, ma ha sempre sacrificato qualcosa per la causa della rivoluzione.
«Va bene, facciamolo!»
Scandisco le parole con voce ferma, la schiena dritta, il petto in fuori. Devo però aggiungere una condizione vincolante perché anche il rivoluzionario più puro, a volte, agisce per necessità.
«Ho bisogno dell’Ibuprofene 600! La testa mi scoppia…»
Papà appoggia una mano sulla mia spalla.
«Sono fiero di te!»
Esce dalla cameretta e torna con un bicchiere d’acqua, il coltello santoku e un tagliere di legno d’ulivo. Sposta con il gomito i libri di Zerocalcare e i vinili di Guccini ammucchiati in disordine sopra la scrivania e appoggia tutto l’occorrente. Poi estrae dalla tasca una bustina e me la porge stretta tra indice e pollice come un pusher scafato. Tracanno l’Ibuprofene 600, il gusto acidulo solletica le papille gustative e la fanfara di Guerra Stellari risuona nelle mie orecchie. L’effetto è immediato, un sollievo che invade ogni atomo del corpo, le sensazioni amplificate all’ennesima potenza.
«Non diremo nulla a nessuno. Sarà il nostro segreto».
Papà suda, la pelle luccica sotto la luce al neon, gli occhi spiritati sono quasi fuori dalle orbite. Brandisce il coltello santoku come una katana di Hattori Hanzo. Io gli sono accanto, pronto a tutto.
«Nicola corri in cucina, avvisa i nonni, la mamma e Cornelia, spiegagli che abbiamo trovato il capitone e che inizino la partita a tombola senza di noi. Poi torna e chiudi la porta» parla in fretta, la concentrazione di un chirurgo prima di un’operazione destinata a riscrivere la medicina moderna «sarà il capitone più buono che la famiglia Cupiello abbia mai mangiato…»

Foto di Julio Armenante

0 Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *