Testo: Valeria Micale
Copertina: rielaborazione di Rielaborazione di Julio Armenante
Il giorno che arrivò il coronavirus in Italia mi svegliai, come ogni mattina, al rumore del macellaio che batteva la carne. Mi tormenta da anni, quel percuotere sordo e sempre uguale, tre battute cadenzate– tumtumtum, tumtumtum – alle quali non riesco a sfuggire neanche con i tappi o gli auricolari ficcati nelle orecchie; sono le vibrazioni trasmesse attraverso i muri, non il suono, a svegliarmi. Il macellaio è una persona gentile, anche se non compro più carne da anni mi saluta sempre col sorriso e ogni tanto mi regala un osso per Golia. È testimone di Geova. Non ho mai trovato il coraggio di protestare, quei colpi di batticarne sembra si conficchino nel mio cervello solo per farmi sentire in colpa, io al calduccio sotto le coperte e lui, col grembiulaccio sporco di sangue e il berrettino bianco in testa, a faticare in negozio fin dalle prime ore del mattino.
Ogni giorno rifletto sul fatto che dovrei diventare più assertivo, anche con i miei colleghi. Non si comportano male, ma vorrei che mi tenessero più in considerazione. Ci sono cose che non sopporto, tipo se presti la cucitrice e non te la restituiscono, oppure se ti chiedono dei calcoli con urgenza e poi se lo dimenticano. Ecco, io di fronte a questi comportamenti sto zitto, ma dentro di me urlo e faccio facce spaventose, anche se la mia espressione non cambia. “Non riesco mai a capire se sei arrabbiato con me” diceva la mia ex, e aveva ragione, perché anche quando pretendeva di essere accompagnata al centro commerciale il sabato pomeriggio e alla fine sceglieva la borsa più costosa di tutte – anche piuttosto volgare, secondo me, ma io di borse da donna non me ne intendo – non facevo una piega e mettevo mano al portafogli come se stessi pagando il quotidiano all’edicola, anche se dentro di me ero infuriato. Per me l’educazione viene prima di tutto. Anzi no, prima di tutto viene il rispetto. Mi sono perso, dov’ero arrivato? Ah sì, i colleghi di lavoro. Nella mia stanza ci sono Stefania e Giancarlo, che si detestano. Sono persone superficiali e per questo li invidio. Io sono molto attento ai dettagli e non mi fermo mai alla prima impressione, rifletto su tutto e mi faccio molte domande. È faticoso. Stefania mangia porcherie e vuole convincermi ad assaggiare le polpette della mensa, io non mi fido e lei dice che sono esagerato. Ora io dico, va bene che siamo ragionieri, ma qualche nozione di igiene e la consapevolezza dei rischi che si corrono con la carne di dubbia provenienza, dobbiamo pur averla. Niente, lei due volte alla settimana mangia le polpette al sugo con piselli e io mozzarella (dopo essermi accertato che provenga dalla provincia di Salerno e non dalla Terra dei Fuochi). Del resto, come dicevo, carne non ne mangio più da anni, ormai, e neanche insaccati: peccato, la mortadella mi piaceva moltissimo. A parte la disputa sulle polpette, con Stefania vado d’accordo. È sempre allegra, ha le unghie smaltate di uno splendido verde raganella e non manca mai di farmi un regalino per il compleanno. Giancarlo invece è proprio stronzo, la prende in giro per come si veste, dice che con quel sedere non dovrebbe portare robe aderenti e una volta l’ha fatta piangere. Lo sapevamo tutti che il suo ragazzo l’aveva lasciata per un’altra e proprio per questo dovevamo stare attenti a non dire nulla che potesse turbarla, o sbaglio? e lui va a dirle che ha il culo grosso. Che poi è la verità, ma io non lo trovo brutto, anzi, e comunque si sa che a nessuna-dico-nessuna donna devi dire che ha il culo grosso e men che meno a una che è stata appena piantata per un’altra.
Quando aprii gli occhi, quella mattina, giurai a me stesso che avrei preso coraggio e avrei parlato col macellaio. Avrei potuto simulare una cefalea a grappolo con complicazioni uditive e chiedergli di posticipare l’orario di lavoro, oppure suggerirgli di cambiare posizione al ceppo o acquistare un tappeto antivibrazione. Mi alzai fiducioso e incominciai la mia solita routine, che è la seguente: alzo le tapparelle, metto su la macchinetta, vado in bagno, torno in cucina, mi verso il caffè, me lo porto in bagno, accendo la radiolina e ascolto il notiziario mentre mi faccio la barba. Non faccio molto caso alle notizie principali, mi colpiscono quelle minori che vengono date in coda per fare un po’ di colore, tipo “Vuole dimostrare che la terra è piatta, stuntman muore a bordo del suo razzo”. Da lì mi parte un trip assurdo, mi immagino di sorvolare la crosta terrestre con i Da Posse sparati nelle cuffie, vedo la foce del Rio delle Amazzoni, il Perito Moreno, la migrazione dei pinguini, poi il razzo esplode e io mi polverizzo in un nanosecondo come l’uccello che vidi andare in fumo durante la visita guidata alla centrale solare Enel.
Avevo appena incominciato a spalmarmi la schiuma quando lo speaker annunciò che si era registrato il primo caso di infezione da coronavirus in Italia: si trattava di un uomo di trentotto anni, presentatosi al pronto soccorso per problemi respiratori e risultato positivo al test. Rimasi col pennello a mezz’aria e sentii la voce dello speaker sfumare come se mi avessero messo dell’ovatta nelle orecchie. Davanti alle situazioni difficili il mio corpo si paralizza, mentre la mente comincia a correre come un file audio velocizzato di cui non si capiscono più le parole; in genere non dura più di qualche secondo, poi riprendo la capacità di muovermi e pensare in maniera ragionevole. Passato l’ottundimento, la prima domanda che mi feci fu chi fosse il “paziente zero”, la persona che aveva portato il virus in Italia. Fantasticai su prostitute e commercianti cinesi, poi passai a piloti e assistenti di volo perché mi ricordai dello steward accusato di avere introdotto l’HIV in Occidente – il primo “paziente zero” della storia – infine capii che non aveva senso farsi quella domanda e bisognava invece passare all’azione. Mi ero preparato da settimane. Le mascherine le avevo acquistate su internet, i disinfettanti in sanitaria, al supermercato avevo fatto scorte di cibo per sei mesi. Avevo riflettuto molto su come evitare di andare al lavoro: se mi fossi dato malato mi avrebbero mandato la visita fiscale e il medico avrebbe potuto contaminarmi, quindi avrei optato per un permesso di tre giorni e, a seguire, un’aspettativa non retribuita per motivi familiari, che avrei fatto durare fino al termine dell’epidemia. Golia avrebbe fatto i suoi bisogni in veranda e comunque, per ogni evenienza, mi ero dotato di svariati pacchi di traversine assorbenti.
Lasciai caffè e pennello da barba sul lavandino e andai al pc, digitai la password e attesi che caricasse. Le cartelle si stagliarono una dopo l’altra sullo sfondo del desktop dandomi un senso di pace. Il mio desktop è organizzato come gli emisferi cerebrali: sul lato sinistro ci sono documenti, calcoli, pagamenti, eccetera, a destra cartelle in cui raccolgo poesie, immagini che mi colpiscono e cose del tipo “Case in cui vorrei vivere”, “Scritte sui tombini” e “Parole da non pronunciare”. Aprii la cartella “Procedure di sicurezza” (a sinistra), la sottocartella “Epidemie” e la sotto-sotto cartella “Coronavirus”, dove avevo salvato il file con le procedure da seguire in caso di allarme contagio, lo rilessi per accertarmi che non vi fossero errori, ne stampai tre copie e le attaccai in cucina, in bagno e sulla porta d’ingresso, poi aspettai che si facessero le nove per chiamare l’ufficio. Nel frattempo versai i croccantini a Golia e spalancai la porta-finestra della veranda; lui si piazzò accanto all’attaccapanni in attesa che prendessi il guinzaglio, poi, vedendo che non avevo alcuna intenzione di vestirmi, andò a pisciare fuori e tornò ad acciambellarsi nella cuccia. Mi sentivo calmo e nello stesso tempo posseduto da una tenue eccitazione per il verificarsi di qualcosa che stavo aspettando da molto tempo. Composi il numero dell’ufficio, mi rispose Stefania.
«Che succede, fratellino?»
Le infinocchiai che Golia aveva vomitato verde e volevo tenerlo sotto osservazione per le prossime ore, quindi sarei rimasto a casa. Se per favore poteva comunicare lei la mia assenza al capo, l’avrei ripagata con un tubo di Toblerone al mio ritorno. Mi pentii appena lo dissi, perché mi resi conto che, oltre a mentire, stavo implicitamente alludendo alla sua golosità, e di riflesso al suo sovrappeso.
«Povero Golia! ma che ha mangiato?»
«Ma niente, avrà sgraffignato qualche pezzo di carne marcia giù in strada, che ne so. È una fogna», e per essere più credibile «Mi sa che d’ora in poi lo farò uscire con la museruola» aggiunsi, consapevole di alimentare così la sua compassione.
«Non ti preoccupare, fratellino, qui ci penso io. Il capo è di buonumore, oggi».
Sistemata la faccenda, telefonai in palestra per avvertire che non mi avrebbero visto per un po’ e al tecnico della caldaia per annullare l’appuntamento, poi mi piazzai davanti alla tv. Alle undici telefonò mia madre per chiedermi se avevo sentito la notizia e non le dissi che mi trovavo a casa; mi raccomandò di non stringere la mano a nessuno e di stare lontano da chi tossiva e io le dissi di non preoccuparsi e che era esagerata. La sensazione di tenere nascosto a tutti il mio programma mi inebriava. Verificai che le confezioni di clorexidina fossero integre e passai in rassegna le scorte che avevo accatastato in corridoio: avevo previsto sei mesi di isolamento e calcolato il mio fabbisogno alimentare, quindi avevo fatto incetta di legumi e pesce in scatola, verdure surgelate, pesche sciroppate, latte di soia, crackers e acqua minerale. Guardai con soddisfazione la mia batteria di munizioni e scelsi la prima scatoletta.
Nel pomeriggio mi svegliò il campanello del citofono. Mi ero appisolato davanti alla tv accesa e Golia ne aveva approfittato per mettersi sul divano accanto a me, ma quando suonarono saltò giù con un balzo e trotterellò verso la porta. Mi accorsi che mentre dormivo aveva pisciato sul tappeto. Fuori era quasi buio. La seconda scampanellata mi riscosse dal torpore. Raggiunsi la porta trascinandomi su una sola pantofola, l’altra era sparita. Sullo schermo del videocitofono vidi un pezzo di fronte e dei capelli scuri, ma non riuscii a indovinare a chi appartenessero. Cercai di mantenermi lucido per affrontare l’imprevisto: non avevo idea di chi potesse essere, ma di sicuro non avrei aperto. Vi fu una terza scampanellata, poi l’ospite misterioso alzò la testa e nell’inquadratura apparvero un naso enorme e gli occhi di Stefania che fissavano la telecamera. Corsi istintivamente verso il divano, nel timore che potesse vedermi come io vedevo lei. La paura fa fare cose sciocche. Chiusi gli occhi e cominciai a contare nella mia mente: dovevo solo avere pazienza, presto si sarebbe stancata e sarebbe andata via. Il cuore mi batteva in gola, respiravo con difficoltà. Il mio programma rischiava di naufragare al primo imprevisto, mi sentivo annientato. Mi calmai quando Golia venne a stendersi ai miei piedi, allarme rientrato. Poi sentii il rumore dell’ascensore che si fermava al piano e poco dopo qualcuno armeggiare dietro la porta. Realizzai solo in quell’istante che Stefania aveva una copia delle mie chiavi di casa, ce le eravamo scambiate per precauzione in caso uno dei due avesse avuto bisogno di aiuto. La chiave girò due volte nella serratura, lei apparve sulla soglia e Golia le corse incontro festoso.
«Amoooooore!». Poi, rivolta verso di me: «Ma perché non mi hai aperto? Mi hai fatto preoccupare, pensavo fossi dovuto scappare in clinica. Come sta?»
«Ha vomitato altre due volte» mentii, «il veterinario è venuto a fargli una flebo».
«Ti ho portato un pezzo di torta al limone» annunciò, poggiando il casco per terra e togliendosi la sciarpa. «Il Terruzzi ha festeggiato il compleanno. Ma che fai lì sul divano, ti senti bene?»
Avanzò verso di me e io mi rattrappii temendo il peggio. Sentii l’odore del freddo e dei gas di scarico che si portava addosso e la stanza cominciò a vorticarmi attorno. Colpi assordanti si abbattevano sulle pareti deformandole come fossero di gomma e rimbombando nella mia testa. L’immagine di Stefania si sovrappose a quella del macellaio che brandiva minacciosamente il batticarne fissandomi con un ghigno beffardo. Fui assalito da un senso di nausea e lei dovette accorgersene, perché si precipitò in mio aiuto. Mi tastò la fronte col palmo della mano.
«Sei gelato» disse, e nel protendersi sopra di me una stilla di muco le gocciolò dal naso. L’ultima cosa che vidi prima di svenire furono le sue unghie color raganella.