Testo: Paolo Di Nicola
Copertina: Senza titolo – Julio Armenante
Tutto quello che è successo prima
Tra casa mia e l’ospedale dove era ricoverata, stando a Google Maps, ci sono 13 km. Un quarto d’ora di auto, stando alle mie misurazioni quotidiane. Quella strada l’ho fatta tutti i giorni, quattro volte al giorno. A pranzo e a cena, perché per farla mangiare dovevi quasi litigare, e perché l’orario di visita ci imponeva una fascia ristrettissima. La mia vita non è mai stata tanto limitata come durante quel periodo. Una casa, un ospedale e una strada, e basta.
“sei solo stanco, ripete una voce qualunque”1. Casa significava stanchezza, rubare qualche oretta al giorno per studiare, perché è importante aggrapparsi a qualsiasi cosa sia rimasto di normale. La malattia, nello specifico la fine della malattia; ancora più nello specifico la fine della malattia di qualcuno che è molto importante per te è una cosa che avverti prima di tutto dal punto di vista fisico. Il malato ha bisogno di tante cose, e tu esisti solo per dargliele. E questo è stancante. E la tua vita non esiste più.
La morte è un punto nella vita delle persone, e i giorni immediatamente vicini vengono risucchiati da questo mostro terribilmente più grande e ingombrante. Una morte che avviene lentamente poi non lascia spazio che a sé stessa, alla stessa morte che avviene lentamente. “vorrei perdonargli di morire”2. I giorni sono tutto un curare, badare, fare, curare badare fare, ricordarsi ogni tanto di farsi una doccia e assolutamente non piangere. Ogni tanto parlare.
“chi vive dice nella vita tante cose \ che restano nella vita che muore”3. Le comunicazioni sono sporadiche, accidentate. Ricordo che io raccontavo i cazzi miei, lei rispondeva poco e con un sussurro; ovviamente questo quando eravamo soli. In gruppo, durante gli orari ufficiali, non c’era che mezza parola per ciascuno. È il dramma di avere tante persone che ti vogliono bene.
“penso a come dire questa fragilità che è guardarti”4. Da un punto di vista strettamente fisico il letto era la sua natura. Ho un nitido ricordo di lei allungata in quasi ogni momento della mia vita. Come suo padre del resto. Entrambi io li ho sempre associati al letto, al riposarsi. Questa stanchezza che non le è mai mancata e che l’ha mangiata era il suo biglietto da visita. Però non uno destinato agli altri, uno più privato, per casa. Inutili e lunghe le litigate per “fare qualcosa”. Ogni tanto vincevamo anche e qualcosa lo facevamo, però la sconfitta ideologica era inesorabile. Il letto avrebbe vinto sempre. Tanto che alla fine noi tutti ci eravamo arresi e spostavamo la conversazione sul suo letto, entrando anche in 4-5, accatastati e ammucchiati. Solo per stare un po’ insieme.
“e io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni”5. Davanti alla morte, alla malattia nello specifico, la reazione naturale e di sopravvivenza è la fuga. Credo che tutto quel fastidio che provassi fosse solo questo. Ogni cosa mi era urticante. Andare tutti i giorni all’ospedale, mangiare a orari improbabili e avere la giornata ridotta a una manciata di ore. Tutto questo mi provocava fastidio. Ero abituato a chiedere, nei suoi confronti, e mi trovavo nella seccante condizione di dover dare, tutto ciò era fastidioso. Esserci per qualcuno è fastidioso. Urtica la pelle e le mani, rende irritabili, stanca. Alla fine, quando arrivi al punto in cui ci sei, alla morte, senti solo un’immensa, terribile stanchezza.
“vedere che non ci sei più, non dire niente.”6. il periodo di attesa senza speranza, di attesa e basta, seppur lunghissimo e stancante, ad un certo punto finisce, finisce sempre. La morte, nell’atto pratico, si consuma in un due giorni di tour de force dove entra tantissima gente a casa tua, si prega, poi si va al funerale. Tutti questi giorni in cui intorno a te esiste solo il casino. La casa che hai vissuto per anni è il corso del centro città di sabato pomeriggio, tale è la calca. Senti tantissimo piangere, tantissimi singhiozzi diversi. La gente chiacchiera come si fosse in un mercato nella stanza affianco a dove ce n’è altrettanta che piange. Nelle case dove c’è un morto si ride anche. Gente più disparata pensa di essere autorizzata ad esserci in funzione di un aneddoto, aneddoto che ti raccontano con, magari anche vero, trasporto emotivo. La gente mi svuota. Due giorni pieni di gente mi stancano.
“sono questo, questa mortalità \ che mi assedia, che si concentra \ negli occhi, nelle mani.”7 All’indomani del fattaccio respiravo, e con fattaccio intendo il funerale; sarebbe più corretto dire che la casa finalmente vuota mi ha dato respiro. Tutta quella fatica era finita. Non ho percepito subito la perdita, l’euforia per l’essere libero di nuovo mi ha anestetizzato completamente. A ripensarci non so perché sia andata così, però finalmente era finita la maratona. Era la vita che tornava in me, quasi uguale a quella di prima, provata da questo lungo periodo di pausa.
Tutto quello che è successo dopo
Per un periodo della mia vita avrei voluto ringhiare ad ogni persona che incontravo: “ho 22 anni ed è morta mia madre”. Naturalmente poi non l’ho fatto davvero, in fondo ci tengo ad essere educato. Il desiderio che mi faceva pulsare la rabbia dentro aveva però origine altrove rispetto a me. Era nello sguardo di chi mi stava intorno, era nei discorsi di sempre che facevano tutti. Nella mia vita era avvenuta una cesura netta, chiara e fortissima, e nella vita degli altri no. E tutti pretendevano da me che fosse tutto normale, che mi comportassi normalmente, che fossi lo stesso di sempre. E sia ben chiaro, il mostro non erano “gli altri” che si comportavano con me rimuovendo completamente il fatto, il mostro sono io che ho acconsentito a tutto questo. Sono io che provo fastidio ogni volta sento qualcuno nominare il funerale. Sono io che non ho pianto durante il funerale, o quando è morta, o poco dopo, o poco prima. Sono io che nella normalità in fondo mi ci sono buttato. mi dicevo che era il modo migliore per andare avanti, e forse lo è davvero. Ho chinato la testa e ho continuato la mia vita. Mi sono laureato, praticamente senza ritardi sulla tabella di marcia. Ho dato un mucchio di esami, tutti peraltro andati molto bene. E in tutto questo di tristezza ce n’era poca. Certo, i momenti in cui qualsiasi pensiero si collega a quel vuoto enorme ed incolmabile ci sono stati, alcune volte sono stati anche molto violenti ma tutto sommato la mia vita filava via esattamente come prima. Normale. E tutto ciò accadeva perché la morte di mia madre è avvenuta in un periodo della mia vita in cui ero, se non felice, quantomeno sereno. Le cose, escluso ovviamente “il sinistro”, andavano in una direzione che mi piaceva. Dopo un’adolescenza in cui mi sono sentito triste per gran parte delle giornate i 20 anni sono stati una svolta. L’università in una facoltà che adoro in una città che sento fatta su misura per me. Un amore che mi è esploso tra le mani durante le fasi finali della malattia. Il rapporto difficile con mia madre che si è risolto, perché le cose della vita di fronte alla morte si rivelano stupidaggini. E di tutto questo io non ho rimpianti. Uno in realtà sì, ma è molto piccolo, ed è aver chiesto attenzioni a lei in un momento, quello finale della malattia, in cui toccava a me darle a lei. Se ci ripenso mi sento ancora un adolescente. Ma poi basta. E il punto è proprio questo. Io con mia madre ci ho litigato, molto e duramente. L’ho trattata con ferocia, con il desiderio profondo di rosicchiare le sue ossa. Ha pianto di fronte a me e ne sono andato fiero. La malattia ha spazzato via tutto questo, senza neanche che me ne accorgessi. Ed è nella fase finale della stessa, quando lei era l’ombra di un corpo vivo, che mi sono accorto di quanto questo carico pesasse. E quando poi è morta a me andava bene così. Non chiedevo nulla di diverso dalla piega che avevano preso gli eventi. E non è che non ho mai visceralmente desiderato che mia madre fosse viva in questi mesi, è che certe cose negative nella vita accadono e va bene così, in fondo non è che c’era molto da fare.
Tutte queste parole sono belle e vere ma tacciono sul costo di questa ferita rapidamente rimarginata: la rimozione totale. Io odio parlare di mia madre, non sono mai andato al cimitero, non parlo del funerale, non ne parlo. Non esiste. La normalità ha un prezzo, anche la felicità ha un prezzo. Io sono normale e felice. Il mio rendimento universitario non ha risentito del sinistro, i miei amici probabilmente non hanno notato differenze tra il prima e il dopo. È stata una vittoria, ho chiesto tanto a me stesso in questi mesi. Dovrei festeggiare. Eppure c’è una poesia che non se va più dalla mia testa…
“e dire dei morti come se fossero
ancora vivi, come è necessario
sorridere quando si è in compagnia.”8
1 Mario Benedetti, il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità, da Tersa Morte
2 Mario Benedetti, Venerdì Santo, da Umana Gloria
3 Mario Benedetti, Adesso i cani sono pecore e macchie, da Tersa Morte
4 Mario Benedetti, A D. , da Umana Gloria
5 Mario Benedetti, Quante parole non ci sono più, da Tersa Morte
6 Mario Benedetti, Le parole non sono per chi non c’è più, da Tersa Morte
7 Mario Benedetti, Duomo – Pasteur, da Tersa Morte
8 Mario Benedetti, Ritornare nei giorni, mandarli avanti, da Tersa Morte
La stanchezza e il respiro ritrovato sono sensazioni, meglio dire esperienze che ho “attraversato”. Grazie per averle verbalizzate così bene, con un’eloquenza straordinaria. Che non è sfacciataggine, semmai un grande coraggio, il coraggio di trovare e dare un nome a ciò che, nostro malgrado, spesso siamo costretti a vivere.