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Diniego
By Malgrado le Mosche Posted in Senza categoria on 24/04/2020 0 Comments 20 min read
I racconti della sopravvivenza Previous Diario ellenico Next

I Restituiti

Testo: Emanuela Cocco
Copertina: Paesaggio interiore – Julio Armenante

1. La ganga traviata

Passi, lenta, qui davanti, lenta a sfregio, lenta a dire: attenti a voi.
La macchina vecchia, la macchina d’altri tempi, la macchina sfasciata, ci passa proprio sotto il naso. Dentro: ascolti musica di merda. Avete qualcosa da dire? Fuori: bevono una cosa, rilassati. Ci sono anche io, ma non con loro, non come sembra. No, per niente. Loro ridono di te, a me piaci. Ridono perché il volume è alto e le note sgraziate. Note da culo mosso su e giù per lasciarti guardare. Appena scenderai – dove sei diretta? – quando scendi te li prendi tutti. Ridono di te. Perché loro sanno solo ridere, anche se ti desiderano senza scampo. A meno di pagarti, forse nemmeno così, ma non è detto. Ridono per mascherare il desiderio e non ci riescono neanche un po’. Il volume lo lasci alto, alto alto come un insulto. Alto, mentre ci passi vicino, lenta, come a scandire bene le parole: mi fate schifo, tutti. E dentro questi tutti intendi anche me. Lenta e vicina, a dire: vi credete al sicuro ma possiamo venire a pestarvi quando vogliamo. Proprio così. E il finestrino è abbassato. Mica siamo a un safari. E niente ti spaventa, le conosco quelle come te. Scommetto, però, che se andassero loro nella tua zona lo terrebbero su. Quelle come te fanno paura. Ridono per mascherare la paura. Il finestrino è tutto giù anche se fa freddo e la tua pelle è nuda. Le tue braccia nude fuori dal finestrino. Le tue braccia che ballano. La mano che volteggia nell’aria fredda, volteggia, si alza e plana su di noi. Il tuo indice puntato, carico di musica. Balli. Forte e precisa, immersa in una lite immaginaria. Il dito puntato, il capo che annuisce nel vuoto. Sì, proprio così, non potete farci niente, ridete pure. Vicina. Forte. Precisa. Ti riconosco, tanto che provo vergogna. Fumi. Giurerei che te la sei preparata da sola. Noi lo sappiamo fare, loro sono negati. È una carica, di quelle da sabato sera, direbbero loro. Ma noi ce le facciamo sempre, per noi il sabato non esiste. Mi passi vicino e vorrei chiederti scusa. Adesso butto in strada il bicchiere, adesso li mollo e vengo via con te. Ti guardano come una bestia rara.  Ho voglia di picchiarli. Le loro battute fanno schifo, non fanno ridere se non sei una di loro e io non lo sono. Hai capito? Battute impotenti, che non ti toccano. Non a te, che sei una ganga traviata, quindi bellissima sul serio. E sai di malia. La tua pelle, i tuoi capelli e le spalle nude e irruenti. Te ne freghi di me e degli altri. Vorrei dirti: non prendermi per una di questi, potresti essere la mia migliore amica. Forse lo abbiamo anche fatto, essere amiche, giocare insieme a urne, tra i sepolcri.

All’ombra  dentro l’urne urne urne
Il sonno della morte morte morte
All’ombra dentro l’urne
morte morte morte.

Non prendermi per una di loro. Conciata come sono non mi crederesti. Vorrei avere ancora i miei stracci sexy. Questa roba è scema, questi abiti da dritta. E la mia nuova pelle sa di sali da bagno e vaniglia, e i miei capelli sono in ordine. I miei capelli adesso sono lisci. Adesso sono brutta. Ma tu non guardarmi così, non prendermi per una di loro. Ero dei vostri. Ero anch’io nella nebbia, con tutti voi, una di voi. Ma adesso non lo so più. Adesso non posso dire di essere ganga, come te. Ma, te lo assicuro, non sono nemmeno una dritta, non lo sarò mai. Io gli vomito in bocca ai dritti, proprio come te. Allora non giudicarmi. Ci sono cose che non sai, cose che forse non hai capito. Adesso mi guardi a quel modo ma non sai niente di me. Ascolta un po’: sono una di quelli. Una di quelli che hanno portato indietro. Una restituita, solo un cazzo di restituita.

2. Urne

Un gioco semplice da fare all’aria aperta quando la terra è aperta e fresca. Gioco da fare dopo il tramonto, in estate. Nella stagione delle piogge può essere pericoloso, ma ci si diverte di più. Se lo fai quando lo scavo è piene di foglie c’è il rischio che ti addormenti lì e quando poi si alza il sole caldo è così piacevole stare lì dentro che non ne vuoi uscire più e allora, allora anche quello diventa rischioso. Il rischio è che a star lì si sta così bene che viene voglia di restar lì con diritto, di non tornare più sopra e restar lì, in quel letto umido e fresco in estate, soffice di foglie morte in autunno. Una piscina d bronzo quando piove: attenzione alle lumache che ti baciano e ti fanno sperare cose innominabili. Attenzione in inverno: quel gelido letto rischia di diventare tuo a buon diritto. Un gioco semplice da fare all’aria aperta, nella nebbia, ma fate attenzione.
Minimo 4 giocatori
Si gioca così:
Uno è il liberato e cala nella fossa.
Uno è l’amico compassionevole.
Gli altri , minimo due, sono i cantori e fanno la storia del liberato con le parole.
Per farlo devono prima urlare forte l’invocazione:
All’ombra  dentro l’urne urne urne
Il sonno della morte morte morte
All’ombra dentro l’urne
morte morte morte.

Si comincia. Uno alla volta.
Un punto se muovono al riso.
Un punto se muovono al pianto.
Se muovono al riso e al pianto i punti si sommano.
Se arriva la paura un punto in più. L’amico è il giudice.

Una variante divertente:
Se le storie non sono fatte bene il liberato si solleva dalla fossa e si fa la storia da solo con le parole.
Se muove al riso viene applaudito.
Se muove al pianto viene abbracciato.
Se muove al riso e al pianto viene portato in trionfo sulle spalle dei cantori per i sepolcri. Se non muove né al riso né al pianto viene picchiato per la sua superbia e si ricomincia.

3. Restituita

Quando ho fatto un anno mi hanno portata via. Ho fatto un anno a Diniego, un anno tondo tondo, a Diniego, figlia dei dritti, camera compresa. Un letto, tutto quello che occorre per fare un anno a Diniego, per una figlia dei dritti. Ancora non camminavo quando mi hanno presa. Ci sono voluti quattordici anni per ritrovarmi. Li ho passati in famiglia, nella nebbia, come una di voi. Una ganga in fasce come tante, a cui nessuno ha insegnato a parlare come si deve. Poi, a quindici anni, mi hanno restituita. Il piano era quello, è stato seguito. Prendere i loro figli, crescerli nella nebbia, restituirli. Il regalo di quelli della nebbia ai dritti di Diniego: il nemico in casa. Un nemico che ha il tuo sangue non puoi metterlo alla porta. Un nemico che ha il tuo sangue devi incontrarlo per forza. Questo il piano, ha detto mio padre. Il resto- le ore di piacere costano– il suo tipico eloquio pieno di vette e buchi – oscillare nel sole appassire una volta in cima succhiare la linfa scrivere la lettera al mondo mentre lo temevamo nel più grande imbarazzo gente cresciuta dritta– il resto, il suo solito ricamo sui libri tagliati come capita per nasconderci dentro la malia – cosa più segretamente buono coraggioso onesto si disfa scia di viventi– il resto – brillerà la nostra probità li cullano i potenti quelli pungolo ostico– il resto, dicevo, non l’ho capito come meritava. I loro figli e i figli dei dritti cresceranno nella nebbia, con i nostri, ha detto, finché non verranno restituiti. Così a quindici anni mi hanno riportato indietro. Non hanno chiesto di essere pagati – Scappati insieme cuori selvaggi e radiosi– ha detto mio padre – muti per vero sgomento. Seduta dietro, Pumbru  aveva gli occhi spalancati e pieni di gioia, se la spassava a modo suo. Blaffema, continuava a ripetere, blaffema blaffema blaffema, ridendo con gli occhi spalancati. E intanto mio padre – ragazzi pallidi per un amore fantasticato – intanto, mio padre, sempre con il suo ricamo di parole, fumando malia che veniva proprio da lì, dalle pagine tagliate allo scopo di nasconderla, mio padre se la rideva, orgoglioso di essere riuscito a insegnarle almeno una voce importante. Blasfema, ripeteva divertito, hai detto bene, figlia mia. La vita è una cosa blasfema. A lui piaceva Pumbru, era proprio sua, una figlia della nebbia. Io, invece, non lo ero più. Perché ero dei dritti, lo ero sempre stata, ed era tempo che tornassi a casa. Abbiamo fumato un’ultima malia. Soltanto la violenza della vita – ha detto mio padre – corde spezzate archetto in atomi esploso. Ho chiesto quando sarei potuta tornare. Pumbru, ho pensato, tra quindici giorni Pumbru completa i cinque anni, li avrà fatti tutti nella nebbia, sono suoi. Potrò venire a rompere teste di panna per il suo compleanno, padre? Lacrimevole trappola, ha risposto, ora è tutto tuo, noi non ci vedremo mai più. Blaffema, ha cantato Pumbru con gli occhi grandi. E ho pensato che è così bella e stramba e che sono proprio orgogliosa di lei, della mia sorella piccola che ha imparato una parola nuova. Pumbru: non ci sarò, sorellina, rompi tante teste dolci anche per me. Lei ha alzato il pugno senza una ragione e ha cominciato a ridere forte. Blaffema blaffema, ha cantato, ridendo in quel modo da farti tremare d’amore. Blaffema, ho ripetuto, mentre mio padre spalancava la portiera. Quando ci rivediamo? ho chiesto. Come ci teniamo in contatto? Più tersa arma della ragione infelice a modo suo amore più freddo mangia l’anima, ha risposto lui, in preda a un accesso particolarmente morboso di disagio semantico da malia troppo carica. Mi ha fatto scendere. Ho pensato a casa. Ho pensato alle sorelle maggiori. A quando ci strappavamo i capelli e facevamo lotta alla troia, come ci aveva insegnato mia madre per tenerci buone tra noi che eravamo troppe e tutte stronze matte.  Ho pensato a mia madre. Ho pensato: non ho salutato mia madre. L’ho immaginata a casa, a brillare vinosa come non mai, a rovesciare i piatti in terra, per festeggiare, quando mio padre le dice che mi ha restituita. Mamma. Mi sembra di vedere il movimento esteso del sollievo nelle tue spalle mentre ti dice che non tornerò indietro.  Mamma. Adesso ho capito. Sono scesa. Non avevo le mie cose. Che mai nulla invecchi il cuore per nominare un grande lunedì– ha detto mio padre. Poi ha richiuso la portiera e se n’è andato via con Pumbru. Sono rimasta a guardare la casa nuova dei dritti che adesso era casa mia. Non mi decidevo ad andare avanti né indietro. La guardavo e mi sembra strano doverci entrare in pieno giorno, senza nemmeno una spranga a portata di mano. Ma la casa ora era mia, la casa dei dritti, che erano la mia famiglia. Ha ragione mio padre, ho pensato: le ore di piacere costano. Noi siamo quello che dobbiamo pagare. Per questo ci hanno portato indietro. Per questo ci hanno restituiti.

Preparativi per la festa – Julio Armenante

4. A casa

Sono entrata in questa casa dritta e sfavilla come tutte le case di Diniego dalla porta e non dalla finestra. Sono entrata disarmata. Ho buttato il mio visetto gango dentro l’occhio invece di calare sul viso la maglia losca di quando con le sorelle andavamo a fare la spesa violenta. Mi stavano aspettando. È strano. È venuta ad aprirmi la porta una ganga vecchia di quelle a servizio, vestita come nei giorni di baracca e maschere. Elegante. In gran tiro, la ganga vecchia, e con quella faccia importante di chi ha trovato posto a Diniego e si sente mezza dritta, a sproposito. La faccia che hanno tutte le ganghe a servizio. Ha spalancato la porta e mi ha sorriso controvoglia. Ho fatto per dire chi ero ma lei mi ha zittita con un rapido benvenuta tirato secco come una maledizione. Sono entrata. Dalle sue spalle mi si è gettato addosso un urlo d’amore di dritta bionda in carne che ha ritrovato la figlia da farmi tremare la pancia. Un’evacuazione inarrestabile di amore materno. Dalle parole – io lo sapevo lo sapevo lo sapevo che la mia mia mia, che la mia bella sarebbe tornata da me – siamo passati ai toccamenti furiosi di braccia e guance. La bionda mi ha annusato i capelli. Mi ha stretta in un abbraccio da crampi, gonfio di lacrime e spasmi. Poi è crollata in terra con il viso sulle mie scarpe rimediate e sporche, sotto lo sguardo stipato di fastidio della ganga serva che mi avrebbe spedito volentieri indietro, da dove vengo. Mentre me ne stavo lì, immobilizzata dalla dritta bionda – chiamami mamma ora ti prego, Euridice – mentre me ne stavo impalata con la morbida bionda dritta profumata che mi ama tanto da volermi leccare la punta delle scarpe, sono arrivati altri due dritti maschi dietro di lei. Un vecchio manichino vestito in scuro con pochi capelli e le guance rosse come quelle di mia madre, la mia mamma della nebbia, quando la ritrovavamo vinosa addormentata sul pavimento in pieno giorno. Un vecchio con le guance rosse, e un altro dritto, giovane, con i capelli lunghi e sottili e una faccia da sega assoluta da sprangare non appena apre bocca, una faccia da giovane dritto con le tasche pesanti. Mi hanno guardato con una specie di speranza negli occhietti molli, occhi di gente che ha dormito quanto e come vuole. Il vecchio dritto con le odiose guance rosse ci è venuto vicino e ha poggiato una mano scheletrica sulla spalla morbida della bionda. Le ha detto di alzarsi. L’ha aiutata ad alzarsi.  Poi ha fatto cenno al dritto giovane, all’odiosetto vestito a puntino che era rimasto in disparte, di farsi avanti. Lui ha eseguito. Me li sono trovati tutti addosso, in piedi, in riga, al mio cospetto, con i fari puntati contro la mia personcina santa. Tutti a carezzarmi con gli occhi. Tranne la ganga serva, che, potendolo fare, mi avrebbe dato in pasto ai cani. La sola di cui possa fidarmi. Ti presento tuo padre e tuo fratello, ha detto la bionda.

5. La storia

Qui si fanno le riunioni di famiglia. Seduti in cerchio in silenzio con al centro madre bionda che sospira. Gli occhi umidi suoi e del vecchio padre poco loquace- grazie dio– mi lanciano schiaffi e carezze sul visetto sfrontato. È la tua copia – la madre bionda rischia il pestaggio– ha i tuoi lineamenti distinti- dice al vecchio – e la mia voce – per quanto l’hai potuta ascoltare, stronza, la voce lagna e bionda – dice. Io non raccolgo l’offesa. Tengo gli occhi legati a una costa di libro oltre le sue spalle, mi chiedo se dentro c’è la malia, se anche qui hanno l’abitudine di sventrare i libri per ficcarcela dentro. Febo, l’odiosetto striminzito nuovo fratello che mi ritrovo, tiene un registro nero dal bordo dorato e stringe in una mano uno stiletto di quelli che a rivenderli ci faremmo un bel seratone carico, io le mie sorelle, a cui cerco di non pensare. Impugna la penna bella senza guadarmi, imbarazzato per la notte scorsa, quando è venuto ad abbracciarmi ed è scoppiato a piangere quando gli ho detto che non potevamo darci da fare. Cosa ti hanno fatto? Mi ha domandato.
– Voglio che tu sappia che puoi fidarmi di me.
-Mi fido di te come della mamma del papà – quindi niente – ho risposto.
Ordine del giorno: – di ieri di oggi e di domani e di ancora: Euridice. – Euridice. Perché Euridice- come vi è venuto in mente– ci odia? Non è forse vero che noi amiamo – il mio nome- Euridice e lei ci avvelena con la sua- fa schifo – indifferenza? Perché continua a ferire suo – repellente – fratello, stigmatizzando il suo orientamento sessuale? Perché si ostina a proteggere gli odiosi–mamma, papà, Pumbru, sorelline troie matte, state tranquilli – criminali che l’hanno strappata alla sua famiglia? Perché si rifiuta di parlare- NO– agli addetti? Quali strategie- NO– possiamo adottare per farle accettare – Nessuna– la semplice realtà che noi- voi– l’amiamo con tutto il nostro essere – dritti – e che vogliamo solo che sia felice? Che cos’hai che non va, Euridice? – la nostalgia– perché sei lontana da noi? – siamo divisi – Non ci vuoi bene? – Lo siamo da sempre. Lo eravamo anche prima dell’editto, prima che i dritti decidessero di darci la loro morte, prima che decidessero che era una cosa nostra, una cosa che andava spostata da noi, nella nebbia. E ora mi manca. – Siamo una famiglia, una famiglia felice. Cosa ti manca? – La morte. Qui a Diniego non esiste, le hanno cambiato nome. Quando i dritti crepano dicono che vengono liberati. I loro corpi arrivano da noi. Nella nebbia, i corpi dei dritti e quelli ganghi di maschi e femmine. I nostri nelle fosse grandi, a ballare tutti insieme nella morte, oppure tra le fiamme, dipende. – Vogliamo amarti, Euridice – I vostri corpi morti, i corpi dritti stesi a terra, nei campi scavati, i vostri corpi morti con le lapidi bianche nei cantieri che ci avete dato, così eleganti per noi, così bianche le lapidi, e precisi gli scavi, in cui giocare a urne, così lunghi i filari degli alberi dietro cui nascondersi. -Sei nostra, sei mia, Euridice, siamo uniti, siamo una famiglia – Siamo divisi, lo siamo da sempre, ma ancora di più, da quado ci avete regalato anche la vostra morte, con cui giocare. Madre bionda tira fuori – ancora– l’album in cui è stato archiviato il mio primo anno di vita tra i dritti. Reperti vari di quando sguazzavo nell’acido folico.
Non credo a questa storia, non voglio guardare. Nella nebbia le storie non potevamo scriverle, dovevano dissolversi, come il corpo dei morti, come il loro nome. Se erano belle, belle sul serio, restavano con noi. Le cantavamo senza intenzione, vivevano nella nostra bocca, viaggiavano di gola in gola. A volte, quando erano belle sul serio, segnavamo una parola, una sola, sulla lapide bianca, la parola di fango che faceva la storia e faceva il corpo e gli dava un nome. Sapevamo che era quella la storia, che era quello il corpo che ora aveva il suo nome. La parola di fango faceva il corpo nuovo, cambiava il corpo del morto, che non conoscevamo, e lo portava tra noi, che gli avevamo fatto la faccia e le mani, e un paio di gambe per vivere quello che non era mai accaduto se non dentro la parola di fango, sulla lapide bianca. Non importava più chi era stato in vita, aveva vissuto, come tutti. Il suo corpo, quello morto, si disfaceva sotto terra senza che potessimo impedirlo, né lo volevamo. Ma la parola di fango lo rendeva immortale. Anche se poi arrivava la pioggia e la tirava via, la parola esisteva, la parola era il corpo nuovo, il corpo che stava nella nebbia in una specie di immortalità.
Le prime beta. Progesterone.  Madre allettata, impaurita, infiocchettata.  Reperti fotografici. La sua pancia nuda. La mano scheletrica del padre sulla pelle tesa. Il fratello bambino chino a baciare la sfera lucida in cui me ne sto acquattata.
Non voglio guardare. Certe storie sono fatte per scomparire. Certe storie non sono adatte a creare un corpo. Anche nella nebbia. Certe storie non avevano voce, non avevano un nome. Chi le aveva fatte perdeva al gioco. Chi le aveva fatte pagava penitenza. Chi le aveva fatte doveva restare fermo e prenderle per il solo fatto di averci provato. Un colpo per ogni tentativo andato a vuoto, per ogni parola inadatta a fare il corpo, buttata lì a caso. Chi l’aveva fatta, la parola muta, doveva pagare il prezzo della nostra noia. Ci mettevamo in fila, lo colpivamo. Chi aveva fatto la storia inservibile, chi l’aveva fatta inutile, doveva pagare il prezzo che avevamo impiegato ad ascoltarla. Meritava i nostri colpi. Sapevamo di essere nel giusto e anche lui, fermo, sapeva di essere in debito. Offriva il viso ai nostri colpi, gli occhi chiusi, saldo, non un lamento. Lo colpivamo. Uno, due, lo colpivamo per avere ragione del nostro scontento per la storia. Il viso gli si faceva rosso, la storia si frantumava, la storia fragile che nessuno avrebbe cantato, la storia morta sulle sue labbra appena pronunciata. Chi l’aveva fatta sapeva di dover pagare la scarsa fede nei fatti mai accaduti, il tentativo fallito di onorare la morte e disfarla in un canto. Aveva perso e doveva pagare. Ma c’era anche chi veniva portato in trionfo, issato sulle nostre spalle, incoronato dalla spontaneità dei nostri canti, che replicavano la storia immortale. Un’immortalità di poche ore, di pochi giorni, oppure, a volte il ricordo di qualcosa che non era mai avvenuto ed era per sempre. Non accadeva spesso, accadeva quasi mai, ma a volte sì e allora era pura gioia, là nei sepolcri. Un trionfo all’ombra dei cipressi.
Non voglio guardare. – Mi manca, mi mancano i sepolcri, che sono nostri, solo nostri.  Escono le lacrime. Non voglio stare nella bara di carne in cui mi ha ficcato la spinta fiacca del padre secco.

Io sono Euridice, la restituita
mi riportarono dalla nebbia
a stare tra i Dritti dove la morte non si vive.

Escono le lacrime. Lo vedi- no, – lo vedi anche tu? – la madre bionda si commuove a vanvera come gli idioti – lo vedi che un po’ alla volta torna tutto a galla- le lacrime – lo vedi? – NO.

Tu che puoi
restituiscimi la mia immortalità.
Prendi la parola di fango
segnami lì dove mi aspettano
issami sulle tue spalle
la storia è nella parola
che è nostra
ora
e la parola è
Diniego.

(Continua…)

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