Testo: Valeria Micale
Copertina: Se il lavoro era bello non pregavano i preti – Antimonio
Un giorno i miei capelli decisero di non crescere più. Me ne accorsi parecchi mesi dopo, quando ritrovai nella borsa lo scontrino del parrucchiere che risaliva a maggio ed eravamo quasi a Natale. Il mio bob scalato era ancora perfetto, giusto un palmo sotto le orecchie – uguale a quando ero uscita dal salone sette mesi prima – e il colore, un rosso lampone tendente al violetto con ciocche rosa cipria, non mostrava segni di ricrescita.
Avevo portato i capelli lunghi fin da piccola, perché i miei genitori li ritenevano la parte meglio riuscita di me e li tutelavano come un bene prezioso. Quando qualcuno dei loro amici diceva che sembravo “un angioletto” o “Shirley Temple”, mio padre si impettiva tutto e sbuffava due o tre nuvolette dalla pipa, segno che era veramente molto soddisfatto. Io, questa Shirley Temple non sapevo chi fosse. Me la immaginavo una sacerdotessa con i capelli lunghi fino a terra, che saliva i gradini del tempio col braciere del sacro fuoco in mano, come in un’illustrazione che avevo visto sul libro di scuola. La storia mi piaceva, avevo nove in pagella.
Mia madre impiegava ore per acconciarmi i capelli, lo faceva la domenica pomeriggio. Adoperava uno shampoo alla camomilla e li sciacquava con l’aceto per renderli più brillanti; una volta al mese mi impiastricciava la testa con la maionese perché diceva che fortificava il bulbo. Mi metteva i bigodini così stretti che mi tiravano il cuoio capelluto e li fissava con becchi d’oca dalle punte aguzze, poi li copriva con una reticella, mi ficcava sotto il casco e mi costringeva a rimanerci per un’ora, finché le guance mi diventavano paonazze. Mentre i capelli si asciugavano, lei andava in un’altra stanza a chiacchierare al telefono e mi lasciava sola a leggere un libro; in genere, si trattava di libri illustrati tipo i viaggi di Ulisse o le fatiche di Ercole, ma anche i romanzi della Scala d’Oro mi piacevano moltissimo. Dovevo reggerli con entrambe le mani all’altezza degli occhi, senza chinare la testa per non uscire fuori dal casco, e alla fine mi ritrovavo con le braccia tutte indolenzite. Smontato l’ambaradan, mia madre rifiniva la piega con un ferro rovente e il risultato erano dei boccoli perfetti che duravano tutta la settimana.
I miei capelli sono biondi, sottili e lucidi come fili di seta. Li odio, ma l’ho scoperto solo di recente. Gli uomini ne sono attratti e non possono fare a meno di toccarli, così li avevo sempre portati lunghi fino ai fianchi perché potessero funzionare da richiamo e distogliere l’attenzione da parti meno gradevoli del mio corpo. Ho il culo grosso e le gambe piuttosto corte rispetto al tronco – il mio fisico non è un granché – ma i capelli erano il talismano con cui riuscivo a sedurre tutti gli uomini che volevo. L’errore fu di identificarmi con loro: si impadronirono di me, diventarono ingombranti al punto che sembrava parlassero al posto mio. A volte, erano persino dispettosi: se un ragazzo allungava le mani sotto la gonna, i capelli lo incoraggiavano a continuare, mentre io avrei voluto dire “Basta!”; se l’insegnante di danza mi correggeva un plié, loro zitti e muti si srotolavano dalla crocchia costringendomi a correre mortificata nello spogliatoio, mentre io avrei voluto gridare forte “Fottiti, puttana!”. Le persone interagivano con i miei capelli, mentre io rimanevo dietro le quinte. Fu dopo l’incidente di mio fratello che decisi di tagliarli. Qualcosa dovevo fare. Oltre alla lunghezza, volevo cancellare per sempre quel biondo grano che mia madre aveva coltivato con la camomilla: sarei diventata rossa, anzi no, viola. Sicuramente di un colore che tenesse alla larga la gente. Quando il parrucchiere mi aveva mostrato la palette delle tinte, non avevo avuto esitazioni.
Così, ecco che mancano dieci giorni a Natale e invece di fare l’albero devo occuparmi dei miei capelli – pensai scrutandomi nello specchio, dopo che avevo trovato lo scontrino – dovrò vedere un medico, non è normale quello che mi sta accadendo, i capelli crescono persino ai morti, come le unghie, del resto. Me le ricordavo perfettamente, quelle di mio fratello, sul letto dell’obitorio. A pensarci bene, è piuttosto spaventoso. Mi resi conto che erano accadute molte altre cose di cui non mi ero accorta. Per esempio, non avevo più aperto un libro, non ero più andata a mangiare una pizza e non avevo idea di come stessero i miei perché non ero più andata a trovarli. A mia madre avevano messo il pacemaker, diceva di sentirsi sempre stanca e si lamentava che mio padre non l’aiutasse nei lavori domestici. Cercai l’elenco dei dermatologi della mia città e ne scelsi uno a caso; mi diede appuntamento a gennaio, dopo le feste, così non ci pensai più e mi dedicai agli addobbi di Natale. Andai in cantina a prendere l’albero e le decorazioni; quando passai davanti alla sua porta, la vecchia del piano terra aprì uno spiraglio per spiarmi, me ne accorsi dall’odore di minestrone che inondò le scale. Trascinai gli scatoloni su fino in casa, misi un cd di Amy Winehouse e mi versai un bicchierino di Zacapa: avevo tutta la serata davanti a me e intendevo godermela, pazienza se non c’era più mio fratello a farmi i dispetti tirandomi addosso le palle e mio padre sulla scala a sistemare la stella in cima. Anche l’albero non era più lo stesso, del resto: il mio era sintetico, con fiocchi di neve finti, l’avevo comprato quando mi ero trasferita.
Montai il fusto incastrando i tre pezzi e lo sistemai vicino al termosifone, aprii i rami snodabili, li distesi per bene e cominciai a passarci le lucine, poi attaccai palle, coccarde e fiocchetti; lavoravo con la stessa concentrazione con cui dipingo i quadretti a olio che vendo per strada ai turisti; ogni tanto, mi versavo un altro bicchierino di rum. Da ultimo, srotolai la matassa dorata che avevo comprato l’anno prima, salii sullo sgabello e la agganciai in cima, in modo che i fili, sottili e lunghissimi, si aprissero come un manto e scendessero fino al pavimento. Indietreggiai di qualche passo per controllare il risultato. Fu allora che successe. Risalii sullo sgabello, strappai via i fili dorati e li buttai nella pattumiera, poi, armata di forbici e di un giornale vecchio, andai in bagno; dispiegai i fogli sul lavandino e, davanti allo specchio, cominciai a tagliare: le ciocche cadevano sul nero dell’inchiostro come piume di fenicottero. Ne raccolsi un bel mazzo, tornai in soggiorno, risalii sullo sgabello e cominciai spargerle sull’albero. Una nevicata di capelli rosa e violetti ammantò il verde scuro dei rami e io mi sentii finalmente leggera, come quando mio fratello mi tirava le palline addosso e mio padre sistemava la stella su in cima.
Quella notte dormii serena. La mattina dopo, disdissi l’appuntamento col dermatologo e andai a trovare i miei.