Nadia

Testo: Luca Murano
Copertina: Senza titolo – Antimonio

Mancavano pochi metri. Eppure, per qualche istante, fu sul punto di cedere, di accovacciarsi fra la neve e addormentarsi. Scacciando quei pensieri di resa, cercò di dimenticare il dolore che proveniva dal piede, e arrancò verso la baita, un metro dopo l’altro. Quando fu davanti all’ingresso si buttò con tutto il peso del corpo addosso alla porta e, per la prima volta da quando si era scavigliato giù al fiume, si lasciò cadere dolcemente a terra. Era stremato con la testa svuotata di ogni pensiero. Aveva smesso di nevicare ed il silenzio attorno a lui era surreale e anestetico. Rimase lì ancora qualche istante giocherellando con le chiavi di casa nella tasca del giaccone. Poi con le ultime forze residue si rimise in piedi e le infilò nella serratura.

Una volta dentro, sentì la sua coscienza tornare a defluire in lui, ingombrando quell’angusta e spigolosa scatola cranica quanto bastava per ricordargli chi era, e il motivo della sua visita. La casa era come se la ricordava, solo un po’ più impersonale, come se stesse guardando le pagine di un catalogo Ikea. Si tolse faticosamente il giaccone e si accomodò sul divano concedendosi una meritata pausa. Avrebbe dovuto sentirsi meglio fra quelle mura, eppure qualcosa lo teneva a debita distanza da quel luogo. Un tempo avrebbe davvero amato trovarsi lì, il percorso nei boschi per arrivare alla casa, ascoltando il rumore dei suoi passi su quel sentiero poco battuto, l’aria fresca e leggera rispetto a quella densa e schiumosa di città. Qui veniva spesso da ragazzino assieme ai genitori, non appena il lavoro del padre lo permetteva. Anche dopo la morte dei suoi aveva continuato a frequentare la baita, dapprima con gli amici, poi da solo, bastandosi e stupendosi di quanto riuscisse a ritrovare equilibrio ed armonia in questo luogo familiare. Sempre da solo l’aveva completamente ristrutturata: pulita da cima a fondo, ridipinta dentro e fuori, buttando gran parte di quel mobilio minimale e sgraziato per far spazio a oggetti più funzionali e caldi. Aveva fatto installare un sistema di riscaldamento che andasse a collaborare col camino interno, aveva rifatto sia il bagno che il pavimento, inchiodando, una per una, quelle assi e levigando il legno fino a farlo diventare lucido e accogliente. Quel restauro era durato un paio d’anni e lo aveva tenuto impegnato come nessun’altra cosa in vita sua. Dopo il matrimonio con Sara, le sue visite alla baita non erano diminuite, era persino riuscito a portare in quei luoghi la sua collezione di dischi e soprattutto molti dei suoi libri, quelli per i quali non aveva trovato posto nel minuscolo appartamento di città. Sua figlia era cresciuta davanti a quel camino, ascoltando dalla bocca del padre le avventure impresse su quelle pagine e sognando le storie di Roahl Dahl, di Michael Ende, di Tolkien e di Calvino.

Era stato quello il suo periodo più sereno, l’unico che valesse davvero la penda di ricordare. Poi accadde che volle cambiare lavoro, lo perse, lo ritrovò e lo cambiò ancora, per perderlo e non ritrovarlo più. In tutti questi passaggi, il lavoro non era stata l’unica cosa a smarrirsi: qualcosa dentro di lui, infatti, si spense progressivamente. La baita ed il suo calore vennero lentamente dimenticati. Non potendo più dare alla sua famiglia e a sé stesso quello che aveva sempre sognato, si era isolato cominciando un lungo processo che lo aveva portato a lambire un’apatia dolorosa fatta di diffidenza e pessimismo. Al giro di boa dei cinquant’anni, campava con lo stipendio della moglie e grazie al fatto che non dovevano pagare alcun mutuo sulla casa, regalo di nozze dei genitori di lei. Dopo cinque anni di disoccupazione, aveva ricominciato a scrivere, provando a cavalcare la sua sopita velleità da scrittore, ma l’unico libro che era riuscito a pubblicare, un romanzo storico sullo sfondo del terremoto dell’Irpinia del 1980, non aveva riscosso il successo che lui credeva di meritare. Da lì in poi non aveva più compicciato nulla: aveva scritto decine di incipit interessanti senza però riuscire a sviluppare nessuna di queste storie. E almeno in questo, era molto fedele alla sua attuale vita.

Riemerse da quei pensieri con la stessa fretta e affanno con cui un sub in carenza di ossigeno riemerge dal blu del mare. Si tolse lo scarpone destro e poi, sfilandosi un poco il calzino, rimase a fissare la caviglia. Era già piuttosto malconcia, grossa come un melone e pulsante di dolore. Avrebbe dovuto prestare più attenzione durante la salita. Bestemmiò a denti stretti poi rinfilò il piede nella scarpa e, con non poca fatica, si rimise in piedi. Fece ciò per cui era venuto fin lì: raggiunse il termostato per accendere il riscaldamento. Fra due giorni infatti, si sarebbero riuniti tutti e tre per salutare la figlia, in partenza per Roma. Nella capitale avrebbe cominciato una nuova vita e un nuovo lavoro, a oltre quattrocento chilometri dalla sua città e dai suoi affetti. Era stata sua l’idea di ritrovarsi tutti alla baita per un ultimo saluto. Una sorta di estremo tentativo di rimettere in moto quella comunicazione familiare ormai calcificata e claudicante. Raggiunse la parete del termostato e si fermò per un attimo a guardare la sua immagine riflessa nell’elegante specchio appeso alla parete. Quasi non si riconobbe, stravolto com’era dalle recenti fatiche. Ormai non si specchiava quasi più, nemmeno in città, e se lo faceva era solo per trovare nel suo volto tracce di sua figlia o dei suoi amati genitori. Niente di più.

Mentre col dito spostava la levetta in plastica da ‘OFF’ a ‘ON’, gli venne voglia di mettere su un disco. Fuori, intanto, aveva ricominciato a nevicare forte. Andò allo scaffale dei vinili e scelse Dynamite Steps, un album dei Twilight Singers, uno dei dischi preferiti di sua moglie. Sollevò delicatamente il braccio del giradischi tenendolo con un dito sulla maniglia della testina, posizionò la puntina direttamente sul solco del vinile che avrebbe fatto partire il suo pezzo preferito. Senza particolare grazia, si ributtò sul divano e rimase in ascolto. Ascoltare era una buona abitudine, che lui aveva smarrito da un pezzo. In fondo era lì proprio per questo motivo: sentirsi un’ultima volta parte di una famiglia unita e sinergica e la baita, fucina di piacevoli ricordi e istantanee era lo sfondo migliore sul quale muoversi. Uno dei pochi sfondi a farlo davvero assomigliare ad un buon marito e a un buon padre. Una fitta lancinante al piede lo riportò lontano dai sui tormenti. Si tolse nuovamente gli scarponi e si sdraiò completamente sul divano. Non era più un ragazzo magro e filiforme, soltanto pochi anni fa da un infortunio simile sarebbe uscito con pochi giorni di cure. Ora, invece, era più imbolsito, più pesante, ne avrebbe sofferto per chissà quanto tempo. Comprese di non essere semplicemente una persona che stava invecchiando bensì un ragazzo troppo cresciuto, che si era sposato che aveva avuto una figlia. Soltanto che ora quell’uomo a cui un po’ a sorpresa avevano dato i titoli di ‘pater’, era diventato così vecchio, vulnerabile ed esausto.

Mentre le note vorticavano nell’aria riempiendo la grande stanza, provò a immaginare la sua vita lontano dalla figlia. Ma non vide granché. Questa incapacità lo mise a disagio e per un attimo lungo quanto quella canzone desiderò che sua moglie e sua figlia fossero già lì con lui. Desiderò di accendere il camino e di leggere ad alta voce per loro La Storia Infinita. E proprio come Bastiano, il protagonista, con la forza dell’immaginazione sarebbe entrato in Fantasia e avrebbe salvato il mondo semplicemente chiamando per nome l’imperatrice bambina.

Poteva prendere il cellulare e chiamarla, la sua imperatrice bambina, chiederle come stava e se le servisse qualcosa prima di partire per Roma. Qualsiasi cosa. Che lui ci sarebbe stato. Avrebbe potuto chiederle scusa per tutta quell’evanescenza, avrebbero potuto parlare per ore. Oppure, molto più semplicemente, poteva tornare giù alla macchina e guidare fino a casa soltanto per guardarla negli occhi e vederla per davvero.

Ma la caviglia gli faceva troppo male. In quelle condizioni non se la sentiva proprio di muoversi. La canzone finì e il giradischi passò alla traccia successiva. L’uomo, con il corpo completamente sprofondato nel morbido divano, socchiuse appena gli occhi e provò sottovoce a pronunciare il nome della figlia.

Cinque minuti dopo dormiva profondamente.

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